Diario da Gaza 28

“Se sopravviveremo a tutto questo, faremo un viaggio in Francia”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

© Benjamin Miloux

Mercoledì 8 maggio 2024.

La notte tra martedì e mercoledì è stata un continuo scroscio di applausi. Walid non ha smesso di applaudire, così come gli è stato insegnato per esorcizzare la paura. I bombardamenti caduti nei pressi di casa nostra sono stati intensi, con un rumore fortissimo. Walid non è riuscito a chiudere occhio, ma anche i suoi fratelli non hanno praticamente dormito. Ho provato ad applaudire con lui tutta la notte, facendogli vedere sul cellulare i suoi cartoni animati preferiti. Di solito non lo faccio, perché spesso manca la corrente elettrica, e quindi è necessario che il telefono sia sempre carico, se arriva un ordine di evacuazione, in caso di bombardamento, o nel caso ci sia bisogno di chiamare un amico, qualcuno che può essere d’aiuto, oppure un’ambulanza. Ma in quel momento, avevo bisogno di trovare un piccolo passatempo per mio figlio. Ammetto che mi rassicura vederlo applaudire, perché per lui è quasi come se tutto fosse “normale”. Quando sente un bombardamento fa un balzo, e così capisco che ha paura. Ma quando applaude e lo faccio anch’io con lui, anche se sa che c’è un pericolo, la cosa resta sotto controllo.

Che i bambini non ascoltino

Per tutta la notte, mia moglie Sabah ha preparato le nostre cose in modo che la famiglia possa essere pronta a partire. A Rafah, abbiamo comprato qualche vestito invernale per i bambini, soprattutto per quelli di Sabah. Li abbiamo sistemati in un piccolo sacco che lasceremo alla gente di qui, perché possano distribuirli a chi ne ha bisogno. Per noi prenderemo solo due borse: lo zaino con cui sono partito da Gaza City, e un altro per i bambini di Sabah, arrivati due settimane dopo il nostro arrivo a Rafah.

Durante la terribile notte in cui non abbiamo chiuso occhio, il povero Moaz, che presto compirà quattordici anni e che ha sempre paura, non ha smesso un attimo di farmi domande:

A che punto sono i negoziati? Pensi che ci sarà una tregua entro domattina? Ci sveglieremo con i carri armati davanti alla porta, come è successo a Gaza? Ci avviseranno prima di entrare?

Dovevo trovare una risposta per poter trasformare la sua paura in qualcosa di positivo. E così ho detto:

- Devi stare tranquillo. Gli israeliani hanno una nuova tattica. Hai visto come hanno lanciato i volantini prima di entrare nella zona est di Rafah. Faranno la stessa cosa con noi, e stavolta non commetteremo lo stesso errore fatto a Gaza. Ce ne andremo subito.

- Sì, ma sappiamo benissimo che gli israeliani usano anche il fattore sorpresa. Guarda quello che hanno fatto all’ospedale Al-Shifa. L’avvertimento è arrivato cinque minuti prima dell’attacco.

Aveva sentito un mucchio di notizie! È per questo che quando rientro a casa e parlo con Sabah, cerchiamo di fare in modo che i bambini non ascoltino.

Malgrado la nostra cautela, Moaz sapeva quasi tutto. Ormai comincia ad essere abbastanza grande da capire la situazione. Quindi è difficile mentirgli: ogni volta che ci provo, mi dimostra sempre il contrario. A proposito dell’ospedale Al-Shifa, per esempio, gli ho detto che non si potevano fare paragoni, perchè lì c’erano molte meno persone rispetto a Rafah, dove siamo ammassati in più di 1 milione e mezzo. Ma lui ha ribattuto: “Faranno quello che hanno fatto a Gaza City? Ci saranno bombardamenti a tappeto, faranno saltare in aria gli edifici, compresa la nostra casa?”. Per rassicurarlo, ho detto: “Ma non hanno alcun motivo per colpire noi o chi vive con noi. Noi non c’entriamo nulla con Hamas, né con il Jihad islamico”. Allora Moaz mi ha raccontato che anche i suoi amici erano estranei, come i loro genitori, imprenditori o commercianti, ma che sono stati colpiti lo stesso... e sono morti sotto le bombe.

“Voglio salire sulla Tour Eiffel”

Ogni volta che cerco di calmarlo, trova degli esempi a cui è difficile replicare. A quel punto, ho giocato la mia ultima carta:

Dio è con noi. Ci ha fatto uscire vivi da Gaza e ci farà uscire vivi da Rafah. E poi, non bisogna dimenticare la pressione internazionale su Israele. Parli come un adulto, ma noi confidiamo in Dio e Dio ha preservato la nostra vita. Ti prometto che tutto questo finirà presto, e che ce ne andremo tutti a fare un viaggio all’estero per cambiare aria.

E lì l’umore è cambiato, e così Moaz ha cominciato a farmi domande sull’“estero”:

È vero che c’è uno zoo in Egitto? A proposito, come sono fatti gli zoo? Dentro ci sono tutti gli animali? Si possono vedere? Toccare? C’è una grande giostra? Dei luna park? Ci sono anche dei parchi? Dei posti dove mangiare?

E ha continuato a farmi mille domande: “Ho visto su Internet che c’è un ristorante in Egitto che serve patate cotte con la carne”.

E poi:

- Hai molti amici in Francia? Perché non mi porti con te?
- Se sopravviveremo a tutto questo e ci sarà la possibilità, ti prometto che faremo un viaggio in Francia.
- Ma la Francia ci darà un visto?
- Normalmente sì, dato che l’ho già avuto.
- Lo potremo avere anche noi, io e i miei fratelli?
- Ma sì, certo che lo avrete.
- Allora voglio salire sulla Torre Eiffel!
- Ma come fai a conoscere la Torre Eiffel?
- Tutti la conoscono! La Francia è la Torre Eiffel! Sembra che ci sia un ristorante nel punto più in alto anche se io vedo solo dell’acciaio.
- Non c’è problema, ti ci porterò!

L’ho promesso a Moaz perché dimentichi la sua paura

Moaz voleva sapere se c’erano anche dei parchi divertimento in Francia. Così gli ho parlato del Parc Astérix, a Disneyland, dove si può trascorrere anche una settimana, perché lì intorno ci sono tanti alberghi. Mi ha chiesto: “Prometti che mi ci porterai?”. E così gliel’ho promesso. L’ho fatto perché ero contento. Nonostante fossimo sotto le bombe, la nostra chiacchierata sulla Francia e i parchi divertimento – per noi che siamo bloccati in uno spazio così piccolo; sui ristoranti di Parigi – per noi che non abbiamo abbastanza da mangiare, ha fatto dimenticare a Moaz la sua paura, facendolo sognare un po’. Ha persino cominciato a immaginare il suo primo viaggio: “Com’è fatto un aereo? Come ci si sale sopra? Fa un po’ paura? Com’è il decollo? E l’atterraggio? Si può guardare fuori dal finestrino? Quando sei lì dentro, senti lo stesso rumore degli F-16?”. Gli ho detto di no, che non si sente nulla ed è una sensazione piacevole.

Le domande di Moaz esprimono il punto di vista di un giovane palestinese che non è mai uscito dalla Striscia di Gaza:

- Quando arriveremo in Francia saremo perquisiti come, a quanto dicono, fanno gli egiziani e gli israeliani? Ci diranno di spogliarci? Ci chiederanno di mostrare i bagagli? Ci sono oggetti proibiti? Saremo umiliati?
- No, nessuno ti umilierà. Se i tuoi documenti e il visto sono in regola, non ci saranno problemi, e ti daranno il benvenuto.

Mentre continuavano i bombardamenti, Moaz ha cominciato a fantasticare. Voleva andare anche in Spagna, perché è un tifoso del Real Madrid. Ancora una volta, è rimasto sorpreso quando gli ho detto che non c’era bisogno di un visto d’ingresso, che si poteva andare in macchina dalla Francia. “Non ci sono frontiere, non c’è un posto di blocco?”. E lì mi sono messo a ridere, perché ho avuto la stessa reazione quando sono sbarcato all’aeroporto di Charles de Gaulle nel 1997, con uno zaino e una piccola valigia. Quando sono arrivato alla dogana, ho messo lo zaino e la valigia sul tavolo e ho iniziato ad aprirli. Con grande stupore, i doganieri mi hanno detto: “Salve signore, ha qualcosa da dichiarare?”. Per me è stato uno shock, perché all’epoca avevo lasciato la Striscia di Gaza attraverso il valico controllato dagli israeliani, e mi avevano fatto una perquisizione completa con mille domande.

All’aeroporto, ho richiuso la valigia e ho detto: “Mi scusi, vengo dalla Palestina, non ci sono abituato”. I doganieri si sono messi a ridere: “Qui siamo in Francia, è il benvenuto”. Lo ricordo come se fosse ieri, è qualcosa che non dimenticherò mai. Spero che oggi sia ancora così.

“Bitachon”, una parola onnipresente

All’epoca, per andare in treno dai miei amici a Barcellona, avevo portato con me tutti i miei documenti: il passaporto, il permesso di soggiorno, la carta dello studente, l’attestazione della borsa di studio. Mi aspettavo posti di blocco, controlli lungo tutto il tragitto. Quando ho sentito gli annunci sul treno in spagnolo, ho capito che avevo attraversato il confine. Alla stazione di Barcellona, ancora nessun posto di blocco! Gli europei non si rendono conto del privilegio di potersi muovere liberamente, per loro è una cosa normale. Mentre gli israeliani ci ficcano in testa, fin da bambini, i blocchi stradali, la sicurezza, le perquisizioni. E’ il sistema di “sicurezza” – bitachon come la chiamano. È una parola onnipresente. Invece in Europa, la libertà di movimento è un diritto.

Ma la scorsa notte, mi sono accorto che Moaz aveva dimenticato tutto per il sogno di viaggiare in Francia, in Spagna, paesi che ha visto solo su Internet. Mi ha detto che in Francia se la caverà, perché sta imparando un sacco di parole quando mi sente parlare francese con Walid.

Moaz è uno dei tanti bambini di Gaza: il 95% di loro non è mai uscito dall’enclave. Conoscono il mondo esterno attraverso i social, non hanno mai frequentato, parlato o visto nessun “altro”. È per questo che i bambini proiettano la realtà di Gaza sulle altre realtà sociali. La mia speranza è che tutto questo finisca. Spero che un giorno i bambini di Gaza possano uscire e scoprire il mondo, che abbiano la libertà di movimento di andare dove e quando vogliono, e che la parola “palestinese” o “gazawi” non sia più un ostacolo per attraversare posti di blocco e frontiere.