Diario da Gaza 22

“È l’intera storia industriale di Gaza che sta finendo”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

1 febbraio 2024. Macerie vicino al sito di una fabbrica di mangime per bestiame nel campo profughi palestinese di Maghazi, gravemente danneggiato dai raid israeliani.
Anas Baba/AFP

Lunedì 22 aprile 2024.

Lunedì sono andato alla rotonda Al-Najma, che in arabo vuol dire stella. È lì che si trovano i commercianti all’ingrosso. Quando dico grossisti, intendo in rapporto alle dimensioni della città di Rafah e in tempo di guerra. Ad esempio, si possono trovare decine di scatole di biscotti, o una confezione di fazzoletti di carta che verrà poi venduta al dettaglio, per guadagnare 20 o 30 shekel (tra i 5 e i 7 euro) al giorno, quanto basta per sopravvivere.

Questo è quello che si chiama “commercio al minuto” perché i commercianti rivendono in giornata la merce acquistata da un importatore al valico di Rafah, al confine con l’Egitto. Prima della guerra, quando la città di Rafah era prospera, l’attività dei grossisti alla rotonda di Al-Najma era ben più importante. La gente arrivava da tutta la Striscia di Gaza per acquistare le merci che passavano attraverso i tunnel che la collegavano con l’Egitto. C’era di tutto: frutta, verdura, frigoriferi, televisori... Gli egiziani chiudevano un occhio in modo che Gaza, soggetta al blocco israeliano, potesse respirare un po’. Oggi i tunnel non esistono più e i pochi beni che passano provengono dal confine terrestre.

“Quelli erano bei tempi”

Alla rotonda c’era una novità: è arrivata della frutta – mele, angurie, meloni – in piccole quantità e a un prezzo inferiore rispetto al 7 ottobre, anche se non siamo ancora tornati ai prezzi di prima. Siamo passati da 20 a10, in qualche caso a 5 volte quello che è il prezzo normale.

Girando tra i banchi, ho incontrato a sorpresa Shaher Al-Helou, un giovane trentenne, mio ex vicino di casa a Gaza City. Era il miglior produttore di pollame di tutto il quartiere, proprietario di un allevamento e anche di un negozio al dettaglio. Shaher era noto per i suoi prezzi convenienti e per la qualità dei suoi prodotti. Quasi di riflesso, ho fatto la stessa domanda che gli facevo sempre quando entravo nel suo negozio: “Oggi quanto viene al chilo?”. Con lo sguardo nascosto dietro gli occhiali, mi ha detto un po’ dispiaciuto: “Abu Walid1, non vendiamo più polli. Quelli erano i bei tempi. Ora, se ne vuoi, vendo biscotti”.

Poi ha aggiunto:

Abbiamo perso tutto: non ci sono più aziende agricole, non c’è più pollame in tutta la Striscia di Gaza. Da quando abbiamo lasciato Gaza City, non sappiamo nemmeno se la nostra casa sia ancora lì. La zona è stata completamente distrutta.

Shaher abitava nel quartiere di Shejaiya a Gaza, ma è convinto che la casa dei suoi genitori sia stata distrutta. Sfollato a Rafah, oggi fa compravendita di scatole di biscotti che arrivano al valico attraverso i trasportatori privati, “per non starsene con le mani in mano”. Con questa piccola attività, Shaher riesce a racimolare 25 shekel al giorno, quanto basta per sfamare la sua famiglia. Con un’infinita tristezza, mi dice: “È da generazioni che siamo allevatori di pollame, ho lavorato anche con i miei fratelli. Ed eccomi qui con qualche scatola di biscotti alla rotonda di Al-Najma”. È riuscito a lasciare Gaza City grazie ai suoi risparmi, oltre a finanziare questo piccolo commercio.

Volevo tirarlo un po’ su di morale dicendogli che sarebbe tornato a casa dopo la guerra. Ma solo per riavviare la produzione ci vorrebbero 6 mesi, più 40 giorni per ricominciare il ciclo dalla deposizione delle uova alla vendita del pollame. Shaher mi ha anche detto: “Abbiamo sempre ricominciato: dopo la guerra del 2009, dopo la guerra del 2014... Ma questa è di gran lunga la peggiore. Non credo che riusciremo a ricominciare”. Lui e la sua famiglia non hanno idea di cosa faranno in futuro.

Fragole dal sapore eccezionale

Oggi l’intera industria alimentare di Gaza è crollata. È vero che la situazione prima del 7 ottobre era complessa, ma, nonostante l’assedio, c’era una zona industriale di circa 55.000 mq che operava vicino al valico di Karni, a est di Gaza City, grazie alla società Piedico. Le garanzie degli israeliani permettevano anche degli investimenti da parte dei finanziatori europei. C’era una piccola industria della plastica, dei mobili, dei tessuti e dei prodotti caseari, gestita da un ricco uomo d’affari palestinese, Khaled Al-Wadiya.

C’era anche una produzione di bevande gassate, succhi di frutta, ecc. Era a est di Gaza City, vicino al confine. La zona è stata chiusa nel 2007 dopo l’ascesa al potere di Hamas, anche se l’attività è poi ripresa nel 2018. La produzione esportava prodotti in Israele, in Cisgiordania, persino in Giordania o in altri paesi. C’erano anche esportazioni di prodotti agricoli, come le fragole – Gaza è famosa per le sue fragole2.

Ora non ci sono più esportazioni, non c’è più niente. Shaher dice che la maggior parte degli industriali se ne è andata per investire altrove. Sono molti gli abitanti di Gaza che hanno perso il lavoro. Khaled Al-Wadiya ha perso 10 milioni di shekel quando è stata tagliata l’energia elettrica. Poi è andato in Giordania e non vuole tornare a Gaza.

Il motivo è che tutti hanno imparato la lezione: gli israeliani non vogliono che ci siano più industrie nella Striscia di Gaza. Hanno distrutto tutto ciò che somigliava a un’officina o una fabbrica. È l’intera storia industriale di Gaza che sta finendo. Può sembrare strano, ma nella Striscia di Gaza c’era una tradizione produttiva che ha radici lontane. Prendiamo ad esempio l’industria tessile: per anni, decine di laboratori hanno cucito per il settore dell’abbigliamento israeliano. Da Gaza sono usciti capi griffati con il marchio Levi’s e Nike. Gli israeliani fornivano i tessuti, gli abitanti di Gaza mettevano mano alla macchina da cucire. Una collaborazione che si è interrotta, per poi riprendere nella zona industriale vicina al valico di Karni.

L’esercito israeliano ha distrutto sia il sistema sanitario che quello scolastico. Ha distrutto anche il terzo pilastro di qualsiasi Stato: l’economia e il sistema di produzione. Non sto parlando di speculatori che approfittano della guerra per fare un mucchio di soldi. Dal ritorno dell’Autorità Palestinese (ANP), ma anche prima, durante l’occupazione, c’erano industriali che facevano qualcosa per il loro paese, che creavano posti di lavoro. Tutto questo è andato in fumo. Questa volta, non ci sarà più nessuno che verrà ad investire a Gaza.

Ricordo molto bene che, quando ci fu il ritorno di Yasser Arafat e l’insediamento dell’Autorità Palestinese a Gaza nel 1994, l’economia cominciò a decollare. Gli imprenditori stranieri venivano qui per fare affari. Ora tutti fuggono, a cominciare dai palestinesi. Centinaia di piccoli imprenditori sono diventati venditori ambulanti, come Shaher Al-Helou, l’allevatore di polli che cerca di guadagnare tra i 20 e i 100 shekel al giorno nella rotonda di Al-Najma.

E poi si dice che gli israeliani non vogliono spingere gli abitanti di Gaza ad emigrare...

1Letteralmente “padre di Walid”, una tradizionale forma di cortesia con cui gli uomini vengono chiamati in base al nome del loro primogenito.

2Ecco il motivo per cui, al fine di aggirare la censura dei social, la parola “Gaza” viene spesso sostituita dal simbolo della fragola. [Ndr].