Diario da Gaza 29

“Partire, ma per andare dove?”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Rafah, 12 maggio 2024. Bambini che giocano con i rottami di un furgone.
AFP

Sabato 11 maggio 2024.

Siamo a maggio 2024 e la situazione a Rafah somiglia un po’ a quella del maggio del 1940 in Francia, soprattutto nel nord e a Parigi, dove centinaia di migliaia di persone fuggivano dalle bombe, che all’epoca venivano chiamate “le trombe di Gerico”1.

Rafah è diventata quasi una città fantasma, soprattutto nella zona est. La paura si è instillata nella popolazione, soprattutto tra i bambini e le donne. Sono tutti pronti a spostarsi, andare via, soprattutto chi è già stato sfollato dal nord della Striscia di Gaza. Per quanto mi riguarda, ho deciso di restare qui nel nostro alloggio fino a quando gli israeliani non distribuiranno volantini con l’ordine di evacuare a tutti i residenti della zona. Le nostre borse e la tenda sono già pronte, ma vogliamo rimandare il più a lungo possibile questa nuova umiliazione di dover vivere in una tenda.

Una zona umanitaria... costantemente bombardata

Partire, ma per andare dove? Tutti si chiedono dove andranno a vivere o quale sarà il prossimo passo. All’inizio della guerra, l’esercito aveva ordinato di evacuare il nord della Striscia di Gaza per andare a Gaza City. Così la popolazione si è spostata lì. Poi l’esercito ha ordinato di abbandonare anche quella città per spostarsi più a sud. Dopo, gli israeliani hanno ordinato di andare a Khan Younis. E la popolazione si è diretta lì. Quando l’esercito ha di nuovo ordinato di partire per Rafah, al confine con l’Egitto, quasi 1,5 milioni di persone si sono rifugiate quaggiù.

Adesso gli israeliani ordinano a quella stessa popolazione di andare da qualche altra parte. E dopo? Il mio timore è che questo possa portare a un trasferimento di tutta la popolazione. L’esercito ha ordinato di spostarsi verso “l’ampliamento” della zona umanitaria di Al-Mawasi. Si tratta di un’area delimitata dal mare che inizia a est della strada costiera, che da Rafah arriva a nord della città di Khan Younis, fino a Nuseirat. In linea orizzontale, la zona s’interrompe poco prima della Salah al-Din street, la strada principale che attraversa la Striscia di Gaza da nord a sud.

È una zona che gli israeliani considerano “umanitaria”, ma non è né umanitaria né sicura, dal momento che viene costantemente bombardata. Sabato, i raid hanno preso di mira una tenda che si trovava in mezzo a centinaia di altre tende fatte di teloni. Ci sono state numerose vittime. Non è la prima volta, e di certo non sarà l’ultima.

Se non moriamo sotto le bombe, moriremo di fame e di sete

Non c’è più un posto sicuro. E in ogni caso, nella zona di Al-Mawasi, non c’è più spazio. Gli sfollati sono ammassati l’uno sull’altro. Tutti i miei amici che hanno lasciato Rafah non hanno più un posto dove potersi rifugiare. Chi ha la fortuna di trovarne per ora resta in macchina, in attesa di trovare un posto dove costruire una tenda con i teloni. Ma per costruire delle tende di fortuna servono legno e plastica, che costano da venti a trenta volte il prezzo “normale”, che era già dieci volte più caro prima dello scoppio della guerra, quando gli sfollati erano ancora a Rafah. E naturalmente, dopo la chiusura dei valichi di Rafah e Kerem Shalom, non si trova più cibo. La gente chiede innanzitutto sicurezza, prima di pensare a mangiare o bere. Ma se non moriamo sotto le bombe, moriremo di fame e di sete.

Resta la domanda “e dopo”? Netanyahu entrerà a Rafah per “sradicare Hamas”. È chiaro che non riuscirà mai a sradicarlo, e Hamas resterà ancora lì. Ho sempre detto che una soluzione militare non riuscirà mai a distruggere Hamas. Di contro, ci saranno quasi 1,2 milioni di persone ammassate in questo rettangolo, circondato a nord dalla strada conosciuta come Corridoio Netzarim, la vecchia via dei coloni oggi ricostruita dagli israeliani, una fascia cuscinetto che taglia da est a ovest la Striscia di Gaza. Nel sud, accadrà la stessa cosa quando occuperanno l’intera città di Rafah. Lo stesso vale anche per la zona est, dove si sono già stanziati, occupando l’intera strada Salah al-Din.

Prima, Gaza era chiamata “una prigione a cielo aperto”. Oggi è una gabbia a cielo aperto con 1,5 milioni di persone a cui manca tutto: spazio, cibo e soprattutto acqua. È già quasi estate, fa molto caldo, e così aumenta il fabbisogno d’acqua da bere o per altri usi. Purtroppo, nella zona di Al-Mawassi non c’è acqua né infrastrutture per i bisogni primari. Gli abitanti di Gaza sono imprigionati a destra, a sinistra, a nord, a sud e a ovest, sul lato del mare, dalla marina israeliana.

Gli israeliani hanno una nuova strategia visto che l’Egitto si è opposto al trasferimento dei palestinesi nel deserto del Sinai? Oppure ora sono concentrati di più sul mare, per il nuovo molo galleggiante che verrà costruito all’altezza di Gaza City? Sta cominciando il trasferimento via mare, come al solito per ragioni “umanitarie”? È una parola che sentiremo ancora tante volte. La questione palestinese si è trasformata in una “questione umanitaria” quando, invece, si tratta di una questione politica, una questione di territorio, che riguarda una popolazione che vive qui da tempo con occupanti che continuano a prendere la loro terra, sia in Cisgiordania che a Gaza.

Gli israeliani vogliono la terra

Ogni giorno vengono annesse nuove terre in Cisgiordania, con la costruzione di migliaia di nuove unità abitative. Quello che gli israeliani vogliono è la terra. Invece di siglare la pace e avere due Stati, l’intenzione è quella di uccidere quante più persone possibile a Gaza, mandando via chi decide di restare, in una nuova versione della Nakba del 1948. Solo che all’epoca c’erano le milizie sioniste, oggi è all’opera un esercito ufficiale.

Lo ripeto: dove andremo adesso? Stanno strangolando un’intera popolazione che vive in condizioni disumane. Alla fine, questa popolazione sarà costretta ad andarsene. E come al solito, si dirà che si tratta di “partenze volontarie”, sempre “per motivi umanitari”. Se ne uccidono il più possibile, distruggendo ogni infrastruttura ed eliminando ogni pilastro della vita sociale: l’industria, il sistema educativo, la sanità, l’acqua, tutto. E poi si dice: se volete andarvene, è una vostra scelta, non vi obblighiamo a farlo. E tutto questo con l’approvazione dell’Occidente.

Gli israeliani hanno preso il controllo di tutta la Striscia di Gaza e nessuno ha detto una parola. Gli americani hanno cominciato a dire: “Israele ha il diritto di difendersi”, ma quando si tratta di Rafah, parlano di una “crisi umanitaria”. È chiaro che suona meglio di “genocidio” o di “pulizia etnica”. Biden ha iniziato a muoversi solo quando gli israeliani hanno annunciato l’intenzione di entrare a Rafah, come se la guerra fosse cominciata lì. Ma il motivo di questo nuovo atteggiamento è solo a fini elettorali, vista la grande mobilitazione dei giovani americani. Il presidente Biden ha annunciato l’intenzione di sospendere l’invio di nuove armi, ma non dell’intero arsenale, come un padre che punisce un bambino viziato in pubblico, ma gli dice a quattr’occhi: “Sono fiero di te, vai avanti così, bisogna andare fino in fondo”.

Per quanto riguarda l’Europa, purtroppo c’è un totale silenzio. La posizione europea è che bisogna fermare questo genocidio, riaprire i valichi, far entrare il carburante, indispensabile per i pochi ospedali ancora funzionanti e per gli impianti di desalinizzazione e depurazione dell’acqua. Occorre poi paracadutare gli aiuti. Tutto questo all’interno di questa piccola gabbia, “per ragioni umanitarie”. Ed è sempre “per ragioni umanitarie” che ogni paese europeo accoglierà 200.000 persone, “distribuendo” così i 2 milioni di abitanti di Gaza tra 6 o 7 paesi. Eppure, la soluzione sarebbe molto semplice: porre fine all’occupazione, creando uno Stato palestinese. Ma gli israeliani vogliono portare a termine ciò che hanno iniziato nel 1948. Ora vogliono risolvere il problema, eliminare i palestinesi o farli fuggire altrove.

Il problema è che, se si riesce a farlo a Gaza, sarà molto più facile farlo in Cisgiordania. C’è infatti una stretta relazione tra quel territorio e Giordania, tanto che la gran parte degli abitanti palestinesi lì ha un passaporto giordano o parenti che già vivono nel paese. So che in questo momento tante persone in Cisgiordania si stanno preparando a trasferirsi in Giordania, perché sanno che da loro è già cominciato il secondo round.

Rendere Gaza invivibile per sempre

Si parla poco dell’annessione dei territori, del terrorismo dei coloni contro i palestinesi che vivono nei pressi degli insediamenti o anche più lontano, perché è da mesi che gli occhi sono puntati su Gaza. Conosco gente che è in procinto o progetta di trasferire il proprio lavoro o la propria attività in Giordania, o che sta cercando un appartamento in cui stabilirsi. Se la macchina da guerra si mette in moto in Cisgiordania, la maggior parte della popolazione se ne andrà via. La pulizia etnica che gli israeliani stanno attuando è volta a prendere la terra con la forza, uccidendo gli abitanti o facendoli fuggire in qualunque altro luogo.

Quando si parla di Rafah, gli israeliani parlano di “operazione di portata limitata”, ma con 400 carri armati e il trasferimento forzato degli abitanti, oltre alla chiusura dei valichi, si può ancora definire “limitata”? Le cifre parlano di 300.000 persone fuggite da Rafah, ma ritengo che il numero sia molto più alto. Allora, qual è la differenza rispetto a una “operazione di grande portata”? Stanno solo operando in modo soft. E tutto questo sta accadendo sotto gli occhi del mondo, sotto gli occhi di chi potrebbe fare qualcosa, fermando Netanyahu, ma non lo fa. E, alla fine, ad essere ingannati saranno i palestinesi.

Torniamo a questa gabbia dove tutti vivono ammassati l’uno sull’altro. Qual è l’obiettivo degli israeliani? Come ripetuto finora, l’obiettivo dichiarato è scovare i miliziani di Hamas rifugiati in questa gabbia, dove nascondono il loro arsenale e gli ostaggi nei tunnel. Un continuo giocare come il gatto con il topo, che alla fine ci porterà tutti ad essere cacciati dalla Striscia di Gaza per lasciarla agli israeliani. Il punto non è solo che la popolazione vive nella paura e nell’angoscia, ma che ne ha abbastanza. La stanchezza la si legge nei loro occhi, sono stanchi di spostarsi di continuo, di cercare soluzioni per proteggere le loro famiglie, chiedendosi sempre dove andare. Non c’è un futuro.

Siamo destinati a morire? La gente qui non ha più paura, perché pensa che spostarsi continuamente sia una specie di morte. Ma le persone temono il futuro. Netanyahu occuperà l’intera Striscia di Gaza da nord a sud, ma sa benissimo che gli ostaggi non verranno rilasciati. Il vero obiettivo del premier israeliano è quello di devastare l’intera Striscia per renderla invivibile. E per farlo, deve sbarazzarsi della questione degli ostaggi, perché un ostaggio vivo vale molto di più di un ostaggio morto. E’ per questo che la popolazione israeliana sta facendo pressione su Netanyahu. Ma il premier andrà fino in fondo perché sa che la fine della guerra segnerebbe la fine della sua avventura politica.

La ricostruzione dopo la fine della guerra? Per gli israeliani, questa è un’altra carta da giocare. Ma ci vorranno anni. Oggi non ci sono più università, né scuole, né infrastrutture, non c’è acqua, né energia elettrica. Questa guerra l’ha vinta Netanyahu, rendendo Gaza invivibile per sempre. E, in questa gabbia, stiamo aspettando la piattaforma galleggiante costruita dagli Stati Uniti per il “trasporto di aiuti umanitari”. D’ora in poi tutto diventerà “umanitario”, con la politica trasformata in una questione umanitaria, come l’ingiustizia.

1Era il nome dato ai dispositivi impiantati nei bombardieri in picchiata tedeschi, una sorta di sirene attaccate al carrello di atterraggio per seminare il panico tra la popolazione. [N.d.R.