Diario da Gaza 19

“Gli sfollati vogliono tornare a casa”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Gaza, 14 aprile 2014. Bambini tornano a piedi insieme ad altri palestinesi sfollati verso la città di Gaza, nel nord, passando per Nuseirat, nel centro della Striscia.
AFP

Martedì 16 aprile 2024.

Tutti hanno visto le immagini delle migliaia di sfollati nel sud che, domenica scorsa, si sono messi in marcia per tornare a casa nel nord della Striscia di Gaza. L’esercito israeliano però li ha ricacciati indietro con la forza.

La voce era già iniziata a circolare domenica mattina. Come altri giornalisti, sono stato uno dei primi a saperlo. Ho detto a mia moglie Sabah: “Per ora è solo una voce, ma dobbiamo essere pronti”. Così abbiamo preparato due zaini, gli stessi che avevamo preso quando siamo partiti da Gaza City. In uno abbiamo messo le medicine per mio figlio Walid e qualche vestitino di ricambio, nell’altro il necessario per noi, per i bambini di Sabah oltre ai nostri documenti. Abbiamo iniziato a salutare amici e conoscenti, perché potevamo partire da un momento all’altro. Aspettavo solo una conferma dai colleghi che erano nella zona di Wadi Gaza, il fiume che attraversa Gaza da est a ovest.

Nel frattempo, ho ricevuto decine di telefonate, visto che per tutti sono il “grande giornalista che sa tutto” ed è “in contatto con gli israeliani”. Mi hanno chiamato tutti i miei amici, e anche i miei suoceri. Pensavano che potessi fargli sapere se la partenza era imminente o meno. Ho detto che era solo una voce, che bisogna aspettare. Ho anche qualche amico che vive dall’altra parte, come il fratello di Sabah che vive vicino alla rotonda di Nabulsi. Poteva dirci se qualcuno era passato di lì? Non vedevo l’ora di tornare a casa, ma prima di correre rischi volevo essere sicuro che ci fosse la possibilità di partire. Circa 4 ore dopo, il portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano ha rilasciato una dichiarazione dicendo che la notizia di un ritorno verso nord non era altro che una voce, che la regione rimaneva ancora zona militare chiusa ed era pericoloso ogni tentativo di raggiungerla.

Lo stretto necessario

Ma ormai migliaia di persone si erano già messe in marcia verso nord. La maggior parte a piedi, altri su carretti o in macchina, ma con l’obbligo di lasciarla a Wadi Gaza. Non era come all’andata, quando l’esercito israeliano aveva ordinato a tutti di andare verso sud. Molti avevano avuto possibilità di arrivarci in macchina, sui carretti e persino in autobus, portandosi dietro materassi, piumoni e anche utensili da cucina.

Ora le cose sono molto diverse. Il checkpoint si può attraversare solo a piedi. Gli israeliani hanno allestito dei caselli dotati di telecamere per identificare chiunque passi di lì. Gli sfollati possono portare solo zaini di piccole dimensioni, con lo stretto necessario.

“Nulla avviene per caso con l’IDF

La gente ha deciso di tornare a casa anche senza sapere se le loro case o i loro appartamenti fossero ancora in piedi, a Gaza City, Beit Lahia, Beit Hanun, Jabaliya, o in qualsiasi altra zona di confine di cui non si ha notizia.

I cugini e le cugine di Sabah ci hanno provato, ma purtroppo sono arrivati troppo tardi. Gli israeliani avevano già iniziato a bombardare e a sparare sulla gente, costringendoli a tornare indietro. L’esercito ha usato ogni mezzo a sua disposizione: carri armati, idranti, F-16 per spaventare le persone. C’è stato un morto e diversi feriti. Non sappiamo come siano andate esattamente le cose: ci sono stati degli avvisi dell’esercito su un possibile ritorno verso nord? E se sì, chi li ha inviati? Girano tante voci. Ad esempio, che alcuni sfollati che vivono in una scuola, proprio sabato avrebbero ricevuto delle telefonate e degli sms dell’esercito israeliano, che li avvisava che l’indomani sarebbero dovuti partire donne e minori sotto i 14 anni. Gira anche voce che molti erano convinti che gli israeliani si fossero ritirati dalla Striscia di Gaza per dislocarsi in altre zone per difendersi dal lancio dei missili iraniani.

È chiaro che, per chi vive in Europa, la prima ipotesi può sembrare ridicola. Ma come ho già detto, chi vive a Gaza e conosce i metodi israeliani, arriva anche a credere alle teorie del complotto. Nulla avviene per caso con l’esercito israeliano.

È possibile anche che sia stato un tentativo dell’esercito di esprimere un certo malcontento. Qualcuno dei soldati, per ottenere qualche vantaggio, potrebbe aver messo in giro la voce: ci siamo ritirati da Khan Younis, e guardate che cosa succede, tutti vogliono tornare a casa. O potrebbe anche essere una notizia diffusa ad arte per vedere la reazione delle persone all’annuncio di un possibile ritorno per donne e bambini, nell’ipotesi che Israele prenda una decisione unilaterale, senza passare attraverso negoziati. Dal canto nostro, non sappiamo dove fosse l’esercito quando migliaia di persone sono partite verso il nord. All’inizio non c’erano carri armati, non c’era proprio niente. È per questo che le persone hanno avuto il coraggio di proseguire il proprio viaggio.

Questa è la nostra terra

Se gli israeliani volevano una risposta, l’hanno ottenuta: gli sfollati vogliono tornare a casa, anche se sanno che non c’è più vita nel nord. Lunedì mattina, alcune persone ci hanno riprovato. Gli israeliani hanno sparato, uccidendo una bambina.

La gente vuole farla finita con questa vita di umiliazione dentro campi temporanei dove si sta ammassati l’uno sull’altro. Meglio piantare una tenda sulle macerie della propria casa piuttosto che rimanere a Rafah. Io mi ritengo un fortunato. So che il mio appartamento al nono piano di un edificio a Gaza City è ancora agibile. Le finestre sono andate in frantumi, ma manca poco all’estate e quindi possiamo anche vivere senza vetri. I mobili sono stati danneggiati, non c’è energia elettrica, non c’è un generatore per pompare l’acqua, ma è casa mia. Abbiamo lasciato Gaza City con un carro armato che ci puntava un cannone addosso. Ora vogliamo tornare a casa, è il nostro modo di resistere, che non ha nulla a che vedere con la resistenza militare. So bene che anche al nord si vive l’umiliazione di ricevere gli aiuti alimentari con il paracadute, malgrado il numero di camion sia leggermente aumentato. Ma questa è la nostra terra. Anche se non c’è nulla, possiamo ricostruire tutto. Ricostruiremo le scuole, ricostruiremo le università, ricostruiremo le infrastrutture. È vero che gli israeliani hanno distrutto tutto, anche la storia della Striscia di Gaza. Hanno distrutto siti archeologici, musei, persino un hammam risalente a quasi mille anni fa, che veniva tramandato di padre in figlio dalla famiglia Al-Wazir.

Gli israeliani vogliono distruggere anche il nome di questa terra. Vogliono cancellare la nostra storia, ma la nostra storia è ancora qui. E noi continueremo a scriverla.