Diario da Gaza 26

“È la prima volta che vediamo delle manifestazioni per la Palestina nelle università!”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Sciences Po Lione, 30 aprile 2024.
OLIVIER CHASSIGNOLE / AFP

Sabato 5 maggio 2024.

Questo sabato mattina, per la piccola conferenza stampa improvvisata fuori casa mia, c’era molta più gente del solito. Volevano sapere solo una cosa: i negoziati in corso porteranno finalmente a una tregua? Stiamo davvero per tornare a casa?

In generale, la preoccupazione è palpabile. Aspettiamo, aspettiamo... con la speranza di ricevere una buona notizia. Ho già scritto in questo diario che spesso mi sento in dovere di mentire per risollevare il morale della gente, ma a volte tengo conto del clima generale. In quel moment ho pensato che fosse giusto mostrare un po’ di ottimismo, perché si attende con ansia la buona notizia di un cessate il fuoco, anche se sarà solo una tregua di 40 giorni, con la possibilità di un rinnovo. Qui la gente vuole sapere se ci sarà una tregua perchè sono 7 mesi che non arrivano buone notizie. Così ho risposto: “Sì, questa volta potrebbe essere un fatto positivo, gli americani stanno facendo molte pressioni, e hanno tutto l’interesse che questa guerra finisca”. E poi ho aggiunto: “Guardate cosa sta succedendo negli Stati Uniti, queste proteste io le chiamo l’Intifada degli studenti!”. E indovinate un po’: lo sapevano tutti! E così mi hanno detto: “È la prima volta che vediamo delle manifestazioni per la Palestina nelle università!”.

Ci conforta sapere che c’è gente – soprattutto studenti, giovani – che stanno manifestando per la Palestina e per Gaza. Tuttavia, la cosa paradossale è che non abbiamo visto delle manifestazioni nelle università dei paesi arabi o musulmani. Le proteste le vediamo in Occidente, e soprattutto negli Stati Uniti, che sono alleati degli israeliani.

La repressione delle proteste pro-Palestina

È vero che l’Intifada degli studenti in università prestigiose degli Stati Uniti come la Columbia sta esercitando molti pressioni sul governo americano. I politici e i diplomatici del futuro saranno quei giovani. Le proteste stanno dilagando in ogni parte del mondo. A Parigi ci sono manifestazioni a Sciences Po, che è considerata una scuola d’élite e soprattutto di formazione alla vita politica, per non parlare della Sorbona. Mi fa veramente piacere che ci sia questo movimento di protesta. È grazie a questo genere di manifestazioni che può avvenire un cambiamento, come è accaduto con la guerra del Vietnam negli anni ‘60, le manifestazioni per il movimento per i diritti civili in Colombia o quelle contro l’apartheid in Sudafrica. Allo stesso tempo però, mi rattrista vedere che in Europa vengono represse le manifestazioni di protesta, con arresti per “apologia del terrorismo” o accuse di antisemitismo. Sono molti i personaggi pubblici che sono stati convocati per un possibile licenziamento1. Si accusano gli studenti di bloccare le lezioni, oppure si criticano i personaggi pubblici di non accettare il dibattito. Ma nonostante la repressione, i manifestanti continuano a scendere in piazza per far sentire la loro voce e difendere la loro giusta causa. Lo sciopero, le proteste, il blocco dei mezzi di trasporto fanno parte della libertà di manifestare.

Israele non rappresenta tutti gli ebrei

Una cosa molto importante è la presenza anche di persone di origine ebraica in queste manifestazioni. Così la gente, e soprattutto i giovani, sta cominciando a denunciare le falsità degli israeliani e di Netanyahu quando sostiene che Israele e il popolo ebraico siano la stessa cosa, e che criticarne le politiche significhi essere antisemiti. Ho sempre detto che in Europa si possono difendere i diritti delle persone omosessuali, il diritto all’aborto, tutte le libertà che si vuole... Ma quando si tratta della questione palestinese, purtroppo scatta subito la repressione, oltre alla paura di essere accusati di antisemitismo. Ma ora, grazie alla presenza anche di tanti ebrei nelle manifestazioni, le cose stanno cambiando.

Gli occidentali stanno cominciando a capire che le proteste non hanno nulla a che fare con quelle accuse. Israele non rappresenta tutto il popolo ebraico, e gli anti-israeliani non sono anti-ebrei. Ho visto immagini di musulmani che pregavano e di ebrei che celebravano la Pasqua ebraica nelle università americane, dei concerti dov’erano tutti insieme. Perché tutto questo non ha nulla a che fare con la religione. Grazie a queste proteste, i giovani stanno cominciando a capire che a Gaza ci sono solo persone che uccidono altre persone, che c’è un occupante che uccide un occupato, che si tratta di una questione politica, e non religiosa.

Di solito, la questione palestinese viene sollevata da intellettuali, da chi conosce il Medio Oriente. Ora vediamo invece che ci sono molte più persone – soprattutto giovani – che capiscono cos’è la questione palestinese, che c’è un genocidio in corso, che una macchina da guerra sta epurando un’intera popolazione.

Voglio soffermarmi sui giovani d’oggi perché mi ricordo quando studiavo ad Aix-en-Provence alla fine degli anni ‘90. La maggior parte dei giovani dell’epoca sapeva ben poco della Palestina. Tanti conoscevano Yasser Arafat, ma non i palestinesi. Quando all’inizio dicevo di essere palestinese, spesso credevano che intendessi pakistano. Dal momento che fisicamente posso sembrare un pakistano o un indiano, questo creava confusione. Ma oggi, sono in tanti in Europa a sapere che c’è un’occupazione in Palestina.

Hamas fa parte della popolazione, è impossibile sradicarla

Ma ora torniamo ai negoziati: è vero che Hamas, in questo momento, pensa di avere una posizione di forza a causa delle pressioni americane e internazionali contro Israele e Netanyahu. Ma temo che ai suoi negoziatori manchi un po’ di saggezza e, soprattutto, che non facciano le concessioni necessarie per fermare la guerra. Il problema è che a volte bisogna essere molto saggi, anche quando la saggezza può essere scambiata per una mancanza di coraggio. Spero che questa volta Hamas non dia adito a Netanyahu di lanciare accuse per rifiutare la pace o il cessate il fuoco, perché il premier israeliano non attende altro: il suo obiettivo è andare fino in fondo, sbarazzandosi di Rafah. Ci ha già provato nel nord e nel centro della Striscia di Gaza. Malgrado gli attacchi, i miliziani di Hamas però sono ancora lì. Forse non hanno più lo stesso arsenale, ma sono sempre lì. Il fatto di detenere ancora 130 prigionieri israeliani, li mette ancora in una posizione di forza. Lo dico dal primo giorno di guerra: la soluzione non è militare, come in Afghanistan e in Iraq. Alla fine della guerra, sarà necessario sedersi allo stesso tavolo e negoziare, perché Hamas è una parte della popolazione ed è impossibile eliminarla. Anche se uccidessero 2,3 milioni di persone, Hamas sarebbe ancora lì. Il motivo è che si tratta di un’idea, di un’ideologia. Non riesco a fare paragoni con altri partiti perché è un movimento in cui la religione ha sempre una sua importanza. È presente nella società palestinese, a Gaza, in Cisgiordania, nei campi profughi all’estero, anche nei paesi europei. Anche se c’è un assedio militare a Gaza, ma non esiste un modo per fermare le idee. L’esempio più evidente è quello dei Fratelli Musulmani in Egitto. Nonostante la caduta del governo di Mohamed Morsi2, il movimento è ancora lì, pur se indebolito e non più al potere.

La popolazione ha bisogno di questa tregua

Temo che Netanyahu pensi: in ogni caso uscirò sconfitto; quindi, meglio che vada fino in fondo. È per questo che potrebbe rifiutare la tregua, trovando dei pretesti per continuare la guerra. Anche se entrasse a Rafah, il vero obiettivo di Netanyahu non è quello di eliminare le “quattro brigate di Hamas” che presume siano ancora lì, ma quello di distruggere la città, le sue infrastrutture, i suoi ospedali, creando una nuova zona cuscinetto intorno alla Philadelphia-Route3, come ha fatto a est dell’enclave. L’altra zona è lunga 14 chilometri e larga 100 metri, ma presto sarà larga un chilometro e mezzo. Ciò significa che interi quartieri saranno rasi al suolo, cancellati, come quello di Yebna vicino al confine. Il mio timore è che Netanyahu alla fine entri a Rafah e che Hamas , a sua volta, non accetti il cessate il fuoco senza un ritiro completo dell’esercito dall’intera Striscia di Gaza, come pure l’annuncio da parte di Israele di una fine della guerra. La popolazione però ha bisogno di questa tregua. Allo stesso tempo, si parla sempre del “giorno dopo”, del dopoguerra. Finché ci sarà la guerra, Hamas sarà lì. Dopo, non spetterà agli israeliani decidere per i palestinesi. Alla fine della guerra Netanyahu se ne andrà, mentre Hamas sarà ancora qui. E potrebbe anche prendere il potere. Ma credo che stavolta il popolo palestinese avrà voce in capitolo.

1L’autore fa riferimento al caso di Guillaume Meurice, umorista e giornalista di punta dell’emittente radiotelevisiva FranceInter, convocato negli ultimi giorni per un possibile licenziamento. [NdT].

2Dopo il colpo di Stato di Abdel Fattah al-Sisi del 30 giugno 2013. [Ndr].

3Zona cuscinetto tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, in base alle disposizioni degli accordi di pace tra Il Cairo e Tel Aviv. [Ndr