Trauma/resilienza e sofferenza psicologica: come riumanizzare i palestinesi?

Una risposta all’appello dei medici Ghassan Abu Sitta e Rupa Marya a riumanizzare i palestinesi ripensando i concetti di guarigione, vita e liberazione dei corpi e delle menti.

Il 1° novembre 2023, in piena guerra israeliana su Gaza, i medici Ghassan Abu Sitta e Rupa Marya hanno pubblicato sulla rivista Yes un articolo intitolato “The Deep Medecine of Rehumanizing Palestinians”1. Proposto al British Medical Journal2, che lo ha rifiutato, l’articolo è stato scritto da una sala operatoria dell’ospedale Al Shifa. A tre settimane dall’inizio della guerra, i due medici esaminano gli effetti deleteri della disumanizzazione in atto in Palestina, un processo che ha consentito il brutale bombardamento di ospedali, università e zone abitate, nonché il blocco illegale e prolungato di acqua, medicine e cibo. Abu Sitta e Marya scrivono:

La disumanizzazione fa parte del processo coloniale ed è la premessa al massacro. L’uso di questo linguaggio è l’evento annunciatore da riconoscere per intercettare e intervenire collettivamente per prevenire il genocidio.

I medici si soffermano quindi sull’effetto neuropsicologico che la disumanizzazione ha sulla mente:

Questo tipo di linguaggio innesca dei circuiti neuronali che aggirano i nostri centri cognitivi, pilotando le nostre menti in modi che fissano le nostre convinzioni nel tempo, rendendole difficili da cambiare anche in presenza di prove che le contraddicono.

Pertanto, il linguaggio disumanizzante, quale è riferirsi ai palestinesi come “animali umani”3 e ai bambini palestinesi come “figli delle tenebre”4, non è un dettaglio di poco conto. Ha un effetto neuropolitico e spiana materialmente la strada al genocidio. I linguaggi della disumanizzazione normalizzano la violenza e rendono invisibili, banali e ordinari dei massacri incomprensibili, che ricordano i videogiochi, quasi fossero una meritata forma di punizione per gli animali-umani. Mentre Gaza diventa un sito per la sperimentazione militare delle nuove tecnologie dei droni5, la disumanizzazione sul campo di battaglia assume anche una forma tecnomorale, con droni programmati per svolgere compiti che includono l’osservazione, l’uccisione e persino l’invio di messaggi ai civili.

Negli ultimi quattro mesi, quest’opera di disumanizzazione si è estesa oltre il campo di battaglia e la politica israeliana per abbracciare le politiche europee e nordamericane di silenzio e controllo delle voci e dei simboli palestinesi, tra cui manifestanti, attivisti, artisti, accademici, sindacalisti, utenti dei social media e altri professionisti, soprattutto in Germania.

Nel loro articolo, Abu Sitta e Marya chiedono di riformulare il ruolo etico dei medici in tempi di disumanizzazione e genocidio. Sostengono che è dovere dei medici riumanizzare i palestinesi e collegano questo processo di riumanizzazione alla decolonizzazione, termine abusato il cui significato si è ridotto a un muscolo intellettuale che si flette nella “politica” del mondo accademico, ma rimane in realtà una prassi urgente nella vita delle persone che vivono oggi nelle colonie e post-colonie.

La riumanizzazione secondo i due medici è quindi “un esercizio importante in cui il mondo deve cimentarsi”, che ci avvicina di un passo alla giustizia e al riscatto dalla violenza coloniale e imperialista. È una forma di ricablaggio neuropolitico, un lavoro di riformulazione dei concetti di guarigione, vita e liberazione dei corpi e delle menti:

Mentre la disumanizzazione allena i nostri neuroni ad accettare le atrocità, la riumanizzazione può espandere il nostro campo visivo per vedere realtà curative che si trovano oltre gli attuali limiti della nostra immaginazione.

Partendo dall’appello dei due medici secondo cui “l’opera di riumanizzazione è la medicina di cui abbiamo urgentemente bisogno”, mi chiedo: come possiamo noi, operatori della salute mentale, comprendere e affrontare la sofferenza psichica derivante dallo sterminio sistematico e lo sfollamento forzato a cui assistiamo a Gaza e in Palestina?

Come possiamo ascoltare e svolgere la terapia per una forma di sofferenza che è a malapena conosciuta, riconosciuta e lasciata emergere a livello globale, e molte volte persino controllata e violentemente messa a tacere6? Come si guarisce e come si riumanizza un individuo in un mondo disumanizzante che difficilmente riesce a vedere la sua sofferenza, a prescindere da quanto sia brutale e documentata?

In altre parole, cosa succede quando interpretiamo il lavoro di riumanizzazione dei palestinesi come un percorso psicopolitico volto a reinventare dei corpi nuovi e consapevoli, visti e ascoltati nella loro interezza, corpi che contano, che hanno la possibilità di sopravvivere e ricostruire, che sono protetti, amati e liberi? Come possiamo riumanizzare a livello materiale, psicologico e comunitario?

Riumanizzare, ovvero rompere con la struttura trauma/resilienza della sofferenza

Finora, la struttura che ha reso leggibile la sofferenza – una sofferenza con cui identificarsi ed empatizzare – è quella del trauma/resilienza: una struttura binaria, occidentale e globalizzata, della sofferenza che risulta appropriata e contestata a seconda dei luoghi. Circola negli ambienti umanitari e psichiatrici come disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e trauma da un lato, come resilienza psicologica di fronte alla violenza dall’altro. Tuttavia, il limite di questa struttura non sta nelle sue specificità culturali, nel senso che non è “adatta” né è compatibile con una certa cultura palestinese. Il problema non risiede nelle presunte differenze culturali di come le persone sperimentano la violenza, quanto nella strumentalizzazione politica ed economica di questa struttura per collocare la sofferenza nel panorama globale. In un mondo in cui occorre lottare per dimostrare di stare davvero soffrendo, lottare letteralmente per avere visibilità, la struttura trauma/resilienza, persino nelle cliniche terapeutiche, appare come prescrittiva e più simile a un sigillo di approvazione globale.

Può il trauma riumanizzare?

Il trauma – nelle sue molteplici e sfuggevoli forme – è diventato l’oggetto di sofferenza globale per eccellenza, visto dall’umanitarismo e dalla psichiatria come l’ingresso psicologico nell’esperienza umana della violenza, della tortura, della guerra e dell’ingiustizia. In questi discorsi, il trauma è considerato una forma di testimonianza morale delle atrocità della violenza e una bussola per un’umanità moderna, condivisa ed empatica. Secondo gli stessi discorsi, il trauma è “la sostanza” di ciò che rende, tutti noi, umani.

Eppure, il disturbo da stress post-traumatico e il trauma derivante dalla violenza israeliana sono stati ampiamente criticati7 e messi in discussione8 nel contesto palestinese in quanto imperialisti9, apolitici e incompatibili10 con la temporalità della violenza negli ambienti delle colonie e dei rifugiati. Nel contesto libanese11, il trauma derivante dalla violenza israeliana sembra inoltre parte della guerra psicologica piuttosto che un’espressione delle sue conseguenze e ha basi infrastrutturali e ideologiche.

L’incompatibilità politica del trauma a rappresentare le ferite provocate dalla violenza israeliana è stata ulteriormente utilizzata per presupporre che vi sia una generale assenza di sofferenza derivante da questa violenza. Da parte israeliana, tuttavia, i casi di disturbo da stress post-traumatico tra i soldati sono sempre stati facilmente identificati. Le discrepanze nei casi di disturbo da stress post-traumatico sono state utilizzate e rivendicate da giornalisti, politici e altri israeliani come un modo per disumanizzare ulteriormente palestinesi e libanesi, rappresentandoli come individui che non soffrono, che sono abituati alla violenza, i cui corpi non sono abbastanza moderni o civilizzati per essere traumatizzati, e la cui cultura è una cultura della morte12. Dopotutto, un animale-uomo non rimane traumatizzato, né possiede la civiltà per soffrire degli effetti delle bombe, della militarizzazione e dei massacri.

Il trauma derivante dalla violenza israeliana è quindi parte integrante della battaglia per la sofferenza e il vittimismo, a cui assistiamo oggi nel genocidio in corso. È sempre stato presente nelle guerre israeliane sotto forma di guerra psicologica ed è stato utilizzato per disumanizzare ulteriormente i corpi e le menti di palestinesi e libanesi.

Un processo di disumanizzazione si attua quindi nella struttura del trauma e io, in quanto sopravvissuta alla violenza israeliana, nonché professionista della salute mentale, ricercatrice e paziente in terapia, ho iniziato a detestare questa struttura. Il trauma è come indossare ogni giorno un’uniforme scolastica per poter “inserirsi” nel paesaggio globale; una cornice imposta che si pone come l’unico modo per soffrire veramente. Tuttavia, quando si sperimenta la violenza israeliana, il trauma è chiaramente ideologico. Non ha nulla a che vedere con la riumanizzazione.

Uno straordinario esempio di come il trauma derivante dalla violenza israeliana disumanizzi ulteriormente palestinesi e libanesi è il film Valzer con Bashir13, un film d’animazione israeliano per adulti che affronta il trauma bellico vissuto dai soldati israeliani quando invasero il Libano nel 1982 e parteciparono al massacro di Sabra e Chatila, quando in due giorni furono uccisi, torturati e mutilati dai 2000 ai 3500 rifugiati palestinesi14. Il film descrive il viaggio psicologico verso la guarigione di un soldato israeliano mentre racconta al suo terapeuta i suoi ricordi dell’invasione del 1982, arrivando a una specie di catarsi quando riesce a ricordare e a parlare del suo ruolo nel massacro.

Il film termina con una transizione dall’animazione alla realtà, che ci fa vedere il massacro reale, rappresentato nel film da una donna palestinese che grida in arabo parole apparentemente intraducibili, dato che non c’erano sottotitoli inglesi per quel grido al cinema teatro di Ann Arbor nel Michigan – dove guardai il film nel 2008, all’inizio del mio dottorato (guarda caso, la donna invitava la telecamera a filmare il massacro e mostrarlo all’estero affinché tutti vedessero).

Ricordo ancora l’inizio del film. Ricordo le immagini animate dei sacchetti di patatine vuoti e dei cani randagi che abbaiavano per le strade di Beirut. Non dimenticherò mai quanto sia stato doloroso guardare quel film perché cancellava la guerra che aveva formato la mia sofferenza psicologica di bambina di 6 mesi; l’invasione e la successiva occupazione israeliana del Libano meridionale che mi ha impedito di vedere i miei nonni fino all’età di due anni, che ha fatto da cornice alla mia infanzia. La mia guerra.

Acclamato come un film contro la guerra, Valzer con Bashir è riuscito a riumanizzare il soldato israeliano cancellando nello stesso tempo qualunque espressione di sofferenza da parte libanese e palestinese, rendendoli irrappresentabili e indecifrabili nel discorso sul trauma. Una totale incapacità di riconoscere, narrare e rappresentare la sofferenza palestinese causata dal massacro di Sabra e Chatila.

Paradossalmente, Valzer con Bashir (2008) attesta questa “assenza” di trauma e questa indifferenza alla violenza in una scena in particolare, altra “storia vera” di un giornalista israeliano al seguito dell’esercito israeliano durante l’invasione di Beirut nel 1982, che si mostra scioccato alla vista dei libanesi che osservano l’invasione e i bombardamenti dai balconi invece di nascondersi nei rifugi. Ancora una volta, il film rappresenta i libanesi come esseri sostanzialmente e quasi naturalmente indifferenti e imperturbabili di fronte alla violenza.

Se non il trauma, può la resilienza riumanizzare?

Si potrebbe interpretare la rappresentazione che il film fa dei libanesi sul balcone a guardare l’invasione come una forma di resilienza, o sumud, una forma psicopolitica palestinese di determinazione, di resistenza alla violenza, all’oppressione15 e all’occupazione coloniale16 nella vita di tutti i giorni17. Sumud è stato un imperativo nonché parte integrante della resistenza palestinese e della sopravvivenza della comunità nel corso degli anni e rientra nella conoscenza della Nakba, una conoscenza viscerale e intergenerazionale su come sopravvivere al genocidio israeliano.

Sumud può rappresentare adeguatamente lo sforzo per la sopravvivenza in contesti oppressivi e coloniali e mettere in luce il ruolo agentivo delle comunità. Tuttavia, la resilienza, come duplice aspetto del trauma – cioè, se non si è traumatizzati allora si è psicologicamente resilienti e quindi non si risente della violenza vissuta – è capace di disumanizzare, poiché rappresenta i palestinesi come soggetti puramente eroici, la cui sofferenza, ancora una volta, rimane invisibile e non rappresentata.

Forse un esempio di come sumud, se ideologizzato, possa disumanizzare i palestinesi, è offerto dal commento18 sessista del caporedattore del quotidiano libanese Al-Akhbar, Ibrahim Al-Amin, secondo cui le donne palestinesi incinte possono riprodurre le popolazioni massacrate nell’arco di due mesi. Sebbene Al-Amin abbia ricollegato il suo commento alla risolutezza dei movimenti di liberazione, questa forma di disumanizzazione fa tristemente eco al modo in cui Israele si riferisce ai corpi e alle menti dei palestinesi riducendoli a barbari che non provano sofferenza. Un altro esempio è il crescente interesse della ricerca psicogenetica nello studio e la comprensione della resilienza dei rifugiati siriani e palestinesi in Libano, per cui sumud diventa quasi una forma acquisita di differenza.

Se dovessimo considerare la riumanizzazione come il punto di partenza del nostro modo di comprendere la sofferenza, né il binario del trauma né quello della resilienza risultano delle strutture adeguate a questo processo.

Nelle mie precedenti riflessioni sulla violenza, la sofferenza e la guarigione dopo l’esplosione al porto di Beirut19, ho affermato di volermi allontanare dal binarismo trauma/resilienza per dedicarmi alle modalità di sopravvivenza e di ricostruzione, nonché all’empatia apocalittica: una forma radicale di affetto alla fine del mondo. Queste riflessioni, ispirate dal lavoro della scrittrice di fantascienza afroamericana Octavia Butler, volevano essere un appello a reimmaginare e ripensare cosa significa essere umani, oltre a porre la sofferenza come fulcro dell’umanità. Hanno indagato cosa significa sopravvivere20 e guarire in tempi radicali, con il complesso panorama emotivo che ne consegue, fatto di felicità21, senso di colpa, profondo lutto, indolenza22, morte nell’anima23, disgusto e qahr (قهر ).

Qahr (قهر ): non esiste un equivalente della parola araba qahr. Nel dizionario è tradotta come “rabbia”, ma non è esattamente rabbia. È rabbia fatta cuocere a fuoco lento, con aggiunta di ingiustizia, oppressione, razzismo, disumanizzazione, e lasciata mantecare per un secolo. A un certo punto provi ad esternarla ma nessuno ti ascolta. Allora si radica nel tuo cuore, si insedia nelle tue cellule. Diventa la tua impronta genetica. E si trasmette di generazione in generazione. Finché un giorno, ti scopri incapace di respirare. Ti si riversa addosso e ti chiede di farla uscire. Tu piangi. E il ciclo si ripete. Khadija Dajani

Riumanizzazione e decolonizzazione: rompere con il globale, ricostruire il locale

Mentre più di diciotto “stati umanitari” si sono mossi per definanziare l’UNRWA24, e mentre il genocidio va avanti da ormai quattro mesi, scrivo anche animata da un certo desiderio di rottura con le strutture globali che sono militarizzate, parte integrante della comunità umanitaria globale, eppure incapaci di spiegare la sofferenza nei contesti di colonialismo. Il mio desiderio di spazi di guarigione intimi e locali è viscerale; spazi in cui condividere la nostra esperienza del dolore derivante dalla violenza israeliana, della perseveranza e della tenacia nel sopravvivere, la nostra capacità di rendere la vita importante in spazi invivibili, e infine la nostra conoscenza del lutto e del cordoglio.

Questi sono gli spazi intimi e locali della riumanizzazione che possediamo, da soli e insieme. Riumanizzare i palestinesi significa rompere con il globale piuttosto che rimanere “connessi” pur conservando un sentimento di disillusione che, lo so, riecheggia in molti di voi, come se vivessimo su due pianeti diversi. Riumanizzare significa lavorare intimamente sulle nostre conoscenze locali, sia dei corpi che delle menti.

Scrivendo questo pezzo, mi è venuta in mente un’intervista che ho realizzato in Tunisia nel 2022 con il dottor Ahmad Dieb, nell’ambito della mia ricerca sul progetto di psichiatria e medicina post-coloniale in Medio Oriente e Nord Africa. Dieb, medico chirurgo tunisino coinvolto nel progetto di arabizzazione della medicina e della psichiatria dopo il colonialismo francese, ha curato e fondato il primo museo della medicina araba in Tunisia.

Durante l’intervista, condotta in arabo classico, Dieb mi ha raccontato dei suoi viaggi in diversi Paesi della regione araba per individuare i vari strumenti chirurgici utilizzati nella medicina araba, la cui storia precede di gran lunga la medicina europea, e le cui numerose invenzioni e conoscenze sono andate perdute o si sono frammentate a causa del colonialismo. Quando non riusciva a individuare gli strumenti originali o non riusciva a trovare i fondi per recuperarli, Dieb ne realizzava una replica basandosi su documenti storici. Si è cimentato persino nella pittura, ricreando, con l’aiuto di pittori professionisti, molti dipinti storici raffiguranti la medicina araba.

Rimasi colpita dalla sua dedizione e dall’atto di amore di un medico il cui ruolo era istintivamente quello di far rivivere la storia della medicina araba. Gli chiesi perché un medico dovrebbe prendersi la briga di riprodurre gli antichi strumenti e dipinti della medicina araba, quasi fino a diventare lui stesso scultore o pittore.

Rispose ad alta voce, il suo dolore era così tangibile che ne fummo entrambi commossi: “لكي الملم شتات نفسي”

“Per rimettere insieme i pezzi di me stesso”.

Toccata da quella risposta, mi chiesi allora quale valore politico e morale avesse questo progetto di arabizzazione della psichiatria e della medicina nel ventunesimo secolo, essendo considerato piuttosto conservatore e isolazionista nel suo ritorno alla conoscenza autoctona.

Oggi posso vedere chiaramente che il lavoro del dottor Dieb consiste proprio nel ridare visibilità alla conoscenza e alla cultura. Posso capire visceralmente perché questo medico si dia così tanto da fare, e mi immedesimo nuovamente in questo momento decoloniale in quanto operatrice della salute mentale impregnata di competenze europee e nordamericane, con l’anima frammentata oggi in mille pezzi.

Mentre Israele, sostenuto dalle potenze occidentali, è impegnato nell’epistemicidio – altro processo di disumanizzazione che annienta intere conoscenze e modi di essere e di appartenere – il lavoro di Dieb è in sé un’opera di riumanizzazione e riecheggia potentemente l’appello dei medici Abu Sitta e Marya.

Questi momenti di decolonizzazione precedenti riguardano il lavoro di ricomposizione dell’anima e del sé, un atto di riumanizzazione psicologica, politica e comunitaria. Sono momenti di rottura e insieme di ricostruzione, un distacco intimo e privato, una ricostruzione senza. Senza comunità internazionale, senza dover tradurre il proprio dolore, senza lottare per apparire visibile, senza dover fornire prove.

Mentre ripensiamo che cosa significa riumanizzare a livello emotivo e psicologico, mentre ci ritiriamo nei nostri spazi intimi e viscerali, ci chiedo di sganciarci dal binario globale della sofferenza per focalizzarci maggiormente sul lavoro di riparazione e recupero da cui siamo circondati in questi tempi radicali, e prestare attenzione al suo effetto complesso e contraddittorio.

Da soli e insieme, portiamo questo dolore all’esterno e riumanizziamolo.