Dossier

La sinistra nel mondo arabo tra passato e presente

Orient XXI lancia un dossier sui movimenti di sinistra nel mondo arabo, con uno spazio dedicato anche ai movimenti in Turchia e Iran.

Parafrasando il celebre incipit del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx ed Friedrich Engels (1848), possiamo ammettere che lo “spettro del comunismo” non si aggira granché per il mondo arabo. Allo stato attuale, le “sinistre plurali” arabe hanno un aspetto più simile a delle rovine, più o meno ben conservate: eredi di un comunismo filosovietico in crisi di modelli dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, di una tradizione socialdemocratica ancora viva nel Maghreb, ma non in Medio Oriente, o figlie delle “nuove sinistre arabe” radicali della seconda metà degli anni ‘70. Dalla crisi siriana che si è aperta nel 2011 all’islam politico, le sinistre arabe sembrano spesso non avere nulla in comune tranne il filo conduttore del sostegno alla causa palestinese.

L’ultima repubblica socialista del mondo arabo, lo Yemen del Sud, è finita nel luglio 1994 con lo scontro per una sanguinosa unificazione con il vicino Yemen del Nord. La brillante ascesa delle “nuove sinistre” arabe degli anni ‘70, a volte ispirate dal maoismo e, in misura minore, dal trotskismo, è stata da tempo ostacolata da un autoritarismo post-indipendenza a lungo trionfante, da strategie di contro-insurrezione sostenute da Israele e dagli inglesi (come, ad esempio, in Oman durante la ribellione marxista nel Dhofar) o dall’ascesa di un Islam politico che ha ripreso, fin dalla fine degli anni ’70, la tendenza antimperialista della sinistra.

L’epopea nazionalista del popolo palestinese in Giordania e in Libano aveva mobilitato centinaia di combattenti marocchini, tunisini, iracheni ed egiziani, la maggior parte dei quali membri di formazioni marxiste, in una vera e propria Brigata Internazionale della Palestina nel corso degli anni ‘70. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si era legata a doppio filo con la sinistra libanese guidata dalla figura del leader druso Kamal Jumblatt (1917-1977), del Partito Comunista Libanese (PCL) o dell’Organizzazione di Azione Comunista in Libano (OACL): una storia, però, finita tragicamente nell’estate del 1982, durante l’invasione israeliana del Libano. Col tempo, l’utopia islamista ha preso il sopravvento sul modello di città socialista, ma, soprattutto, i modelli di sviluppo terzomondista del passato sono stati sostituiti dall’ideale mercantile di un’economia di rendita all’interno di un sistema monarchico, un vero e proprio “stadio Dubai del capitalismo”, per usare la felice espressione del compianto teorico dello sviluppo urbano e sociogeografo americano Mike Davis (1946-2022)1.

Reminiscenza delle sinistre arabe?

Fine della storia? Sicuramente sconfitta, anche se qualche spettro della sinistra araba si aggira ancora. Dopo la caduta del presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali nel gennaio 2011, un fragile Fronte Popolare formatosi attorno alle grandi famiglie della sinistra radicale tunisina ha dato luogo per un certo periodo a un vero e proprio movimento elettorale. Il Forum Sociale Mondiale di Tunisi nel marzo 2013 è stata una rara occasione per creare un contatto tra molti movimenti arabi progressisti e la nuova sinistra no global. Il nasseriano Hamdin Sabahi ha ottenuto il 20% dei voti degli egiziani alle elezioni presidenziali del 2012, arrivando terzo e mobilitando sindacalisti e attivisti di sinistra egiziani. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) sopravvive ancora in uno scenario politico palestinese dominato da Fatah e Hamas, con un recente invito, che ha infiammato la Cisgiordania, a intraprendere la lotta armata e un’insurrezione contro i coloni israeliani e le truppe di occupazione israeliane. Il Partito Comunista Libanese ha mobilitato i suoi sostenitori durante il grande movimento sociale dell’autunno 2019 con la richiesta di abolire il sistema confessionale, mentre il movimento di cittadini ha chiesto uno Stato guidato da una figura integerrima della sinistra libanese, ossia Charbel Nahas – ex ministro del Lavoro – che ha offerto ai giovani ribelli del 2019 un programma economico e politico generale per far uscire il Libano da una terribile crisi finanziaria: programmi che però sono stati bocciati alle elezioni parlamentari del maggio 2022.

Negli ultimi anni, questi brevi momenti di risveglio politico dei movimenti progressisti sono stati accompagnati da un vero e proprio memoriale della sinistra araba, qualche volta fazioso, altre accademico. Oggi non mancano opere accademiche di qualità sulle ormai vecchie “nuove sinistre” arabe degli anni ‘60 e ‘70 o sulla storia dei partiti comunisti. Sono sempre di più, sostenute da una giovane generazione di ricercatori arabofoni che si discosta dalla tendenza accademica a insistere sull’“autoritarismo”, l’“islamismo” o le (quasi defunte) “transizioni democratiche”2. Ma è agli “anziani” che spetta il compito della memoria: è in voga, il genere autobiografico che permette agli ex leader dei principali partiti di sinistra di tramandare alle giovani generazioni di oggi una memoria militante troppo fragile3.

Temi ancora oggi attuali

C’è sicuramente uno scarto tra questa inflazione di memorie militanti, che portano con sé anche la loro parte di nostalgia rivoluzionaria, e una debolezza strutturale, e non più solo ricorrente, della sinistra nel mondo arabo. Ma è una questione logica. La vecchia generazione, che è stata interprete e testimone delle grandi lotte sociali e antimperialiste degli anni ‘60 e ‘70, si sta lentamente estinguendo; anche se vuole lasciare una certa eredità dietro di sé. Non è un’idea così astratta: nella critica dell’imperialismo, dell’autoritarismo e del confessionalismo, le sinistre arabe sono state spesso all’avanguardia.

La lettura di classe del passato oggi può essere ancora valida in un mondo arabo in cui le disuguaglianze sociali crescono sempre più. La questione del debito finanziario estero dei paesi arabi, della dipendenza militare e della vendita di armi con le “grandi potenze” o la gestione delle frontiere marittime per arginare l’immigrazione clandestina verso l’Europa occidentale sarebbero utili a riprendere il discorso sulle borghesie compradores4 locali. L’attuale impotenza delle sinistre arabe contrasta tristemente con l’attualità dei suoi temi chiave: l’antimperialismo e l’anticolonialismo, la lotta contro l’autoritarismo e le lotte femministe, la de-confessionalizzazione dei sistemi politici, la sovranità nazionale e la giustizia sociale.

Una crisi di modelli

Perché, allora, nel mondo arabo c’è un tale stato di debolezza delle forze di sinistra? Ci sono, naturalmente, ragioni strutturali: la principale è senza dubbio la caduta del blocco socialista all’inizio degli anni ‘90, ma non è l’unica. A crollare non è stato solo un modello (relativo) – il Partito Comunista Libanese era stato critico nei confronti di alcune posizioni sovietiche sul Medio Oriente sin dal suo secondo congresso nel luglio 1968 – ma anche una manna finanziaria e militare ormai scomparsa. Non c’è niente di strano, perché la caduta del comunismo a Mosca è stata sentita in maniera altrettanto dolorosa dai partiti comunisti dell’America Latina e dell’Europa occidentale.

A monte, però, c’è anche un’altra crisi di modelli: la spinta propulsiva del maoismo e della lotta di liberazione nazionale vietnamita, entrambi modelli delle “nuove sinistre” arabe, si è esaurita alla fine della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (PCRG) e del conflitto sino-vietnamita del febbraio 1979. Il socialismo arabo si stava scontrando con le divisioni baathiste dell’Iraq e della Siria, mentre l’ideale socialista di sviluppo di Nasser si era concluso con la presidenza di Anwar Sadat (1918-1981)5, che aveva firmato un trattato di pace con Israele nel marzo 1979.

Mentre si assisteva al fallimento degli ideali socialisti alla fine degli anni ‘70, la rivoluzione iraniana del febbraio 1979, seguita dall’ascesa di Hezbollah in Libano e delle correnti islamo-nazionaliste nella Palestina occupata, hanno preso facilmente il posto di un antimperialismo caro alla sinistra, facendole concorrenza sul proprio terreno ideologico e strategico. È come se il secolo breve, descritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm (1917-2012)6, nel mondo arabo non fosse finito nel 1989, ma tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80.

L’islamismo, una questione irrisolta

Oltre a queste ragioni strutturali, in cui affonda la crisi della sinistra araba per un lungo arco temporale, ci sono anche una serie di fattori congiunturali, legati a contraddizioni più o meno importanti. Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno riaperto la strada alle forze di sinistra nel mondo arabo. Ma ci sono state due questioni su cui si sono prontamente divise: l’islam politico e la crisi siriana.

Fin dalle origini del comunismo arabo, l’islam rappresenta una questione irrisolta: i comunisti arabi sono stati spesso accusati dai loro oppositori religiosi di essere degli irriducibili atei. Non mancano le riflessioni e gli scritti di pensatori marxisti arabi sull’eredità culturale e filosofica islamica, dal palestinese Bandali Saliba Jawzi (1871-1942)7, al libanese Hussein Mroueh (1908-1987), ex studente di studi religiosi all’Università sciita di Najaf in Iraq, che ha lasciato in eredità una monumentale opera sulle tendenze materialiste nella filosofia araba e islamica – purtroppo, mai tradotta.

Ma più che l’Islam, è l’islamismo la questione irrisolta per la sinistra araba. Le successive vittorie del movimento tunisino Ennahda alle elezioni per un’assemblea nazionale costituente nel novembre 2011, e poi del candidato dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, alle elezioni presidenziali egiziane del giugno 2012, hanno sancito per un certo periodo l’egemonia di un islam politico di governo, che talvolta ha esaltato i meriti delle vecchie democrazie cristiane tedesca e italiana, o del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’AKP turco del presidente Recep Tayyip Erdoğan. In Tunisia, i socialdemocratici di Ettakatol (Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà) hanno sostenuto senza esitazioni una coalizione con il movimento Ennahda dal 2011 al 2014. Tuttavia, l’assassinio di Chokri Belaïd, leader del Partito unito dei patrioti democratici (Watad), il 6 febbraio 2013, ha messo la sinistra radicale e marxista tunisina contro Ennahda. In Egitto, il colpo di Stato del generale Abdel Fattah Al-Sisi del luglio 2013 è stato letto in due modi diversi dalla sinistra egiziana e, al di là di questo, da quella araba: Che fare? Opporsi al colpo di Stato in nome della difesa dei diritti democratici, o, al contrario, scommettere su un movimento popolare critico nei confronti dei Fratelli Musulmani, sostenendo una deriva autoritaria?

Per tutti gli anni 2010 e 2020, la questione dell’alleanza con gli islamisti ha continuato a tormentare le sinistre arabe: il Partito comunista iracheno ha stretto un’alleanza elettorale con il religioso sciita Muqtada al-Sadr nel maggio 2018, su un programma comune per combattere la corruzione e riformare lo Stato iracheno; la coalizione, però, è durata poco in Parlamento. In quanto minoritaria, la sinistra araba si sente intrappolata nella questione islamica: bisogna creare un’alleanze tattica con gli islamisti su ciò che li unisce, vale a dire la lotta contro l’imperialismo (americano), il colonialismo (israeliano) e, talvolta, la difesa dei diritti democratici di fronte a regimi monarchici o autoritari? O bisogna rompere in maniera sistematica con i movimenti religiosi sulla questione della laicità, dei diritti delle donne o del confessionalismo?

Pro o contro Damasco?

La seconda controversia che ha diviso, all’inizio degli anni 2010, la sinistra araba è stata la crisi siriana. Dal Maghreb al Mashrek8, negli ultimi anni la sinistra araba è stata spesso accusata dai Fratelli Musulmani di aver sviluppato una tendenza autoritaria nei confronti di Bashar al-Assad. Nella stessa Siria, la sinistra si è divisa in vari tronconi: il Partito della Volontà Popolare di Qadri Jamil e il Partito Comunista Siriano (Unificato) si sono alleati con il regime baathista, mentre il Partito Popolare Siriano Democratico di Riyadh al-Turk (ex Partito Comunista-Ufficio Politico Siriano), invece, ha preso una posizione netta sul movimento di protesta. Nel resto del mondo arabo, si è consolidata una certa solidarietà con il regime di Damasco, con l’eccezione, spesso, di piccole formazioni trotskiste legate al Segretariato Unificato della Quarta Internazionale (SUQI).

Dietro la crisi siriana, non c’è solo la questione dell’autoritarismo: ci sono anche divergenze sulla natura degli imperialismi contemporanei. Per alcuni, c’è un solo imperialismo: quello americano, e c’è alcun paragone possibile con la Cina, la Russia o anche l’Iran, sia in termini di dominio e in campo militare su scala internazionale, sia in termini di egemonia finanziaria e culturale. Per altri, il sostegno russo, iraniano o persino cinese alla Siria di Bashar al-Assad rappresenta chiaramente l’ascesa di nuovi imperialismi. L’esperienza del “confederalismo democratico” dei curdi del Partito dell’Unione Democratica (PYD) nel nord della Siria non ha mai incontrato il favore della sinistra araba: sospettati di essere troppo vicini agli americani, ai curdi viene anche rimproverato dai movimenti progressisti, ancora molto legati al paradigma nazionalista arabo, di voler spartirsi la Siria – il tutto in uno scenario regionale fortemente frammentato da Stati-nazione iracheni e libici.

È per questo che oggi la sinistra araba appare così debole e divisa. Occorre, però, sottolineare che la loro crisi si inserisce anche nel contesto di “una destrizzazione del mondo” e di una crisi globale della sinistra: la perdita di spinta, se non la totale scomparsa di un vasto movimento no global che ha avuto il suo periodo di massimo splendore negli anni 2000, è solo un segnale tra gli altri. Ciò non significa, come cerca di dimostrare il presente dossier, che la sinistra non abbia più nulla da dire sul mondo arabo e sulla geopolitica regionale, e che la sua eredità sia perduta o che non ci sarà chi ne raccoglierà il testimone. La ricostruzione dei movimenti sindacali nel mondo arabo o l’assunzione delle istanze ecologiche (come, ad esempio, in Libano dopo la “rivolta dei rifiuti” del 2015) rappresentano, d’ora in avanti, dei cantieri aperti per la sinistra araba. Ma, per il momento, l’unico punto in comune tra le varie sinistre arabe fortemente indebolite resta la questione palestinese, l’unica su cui non si sono divise: è come se la spinta anticoloniale a sostegno della causa palestinese fosse ancora oggi l’unica questione a creare un orizzonte comune nel mondo arabo.

1Mike Davis, “Fear and money in Dubai”, New Left Review, 2006

2Laure Guirguis, The Arab Lefts. Histories and Legacies, 1950s–1970s, Edinburgh University Press, 2022; Laura Feliu et Ferran Izquierdo Brichs, Communist Parties in the Middle East. 100 Years of History, Routledge, London, 2019.

3Georges Battal, Ana al-Shuyû’i al-wahîd (“Je suis le seul communiste”), Dar al-Mada, Baghdad, 2019. Georges Battal était un ancien membre du bureau politique du Parti communiste libanais.

4Qui inteso come classe borghese senza autonomia materiale e soggiogata agli interessi del capitale esterno. [NdT].

5Sull’affermazione nazionalista che ha motivato l’adesione ideologica al marxismo sotto Nasser, poi andata progressivamente attenuandosi sotto Sadat, si veda Gennaro Gervasio, Da Nasser a Sadat. Il dissenso laico in Egitto, Jouvence, 2007.

6Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, 2014

7Autore di A History of Intellectual Movements in Islam (1928). Cfr. Simone Sibilio, Nakba. La memoria letteraria dola catastrofe palestinese, Edizioni Q, p. 86. Si veda anche Camera D’Afflitto I., Cento anni di cultura palestinese, Carocci, 2007, pp. 35-6

8Il Mashrek, detto anche Mashriq o Mashreq, è l’insieme dei paesi arabi che si trovano a est rispetto al Cairo e a nord rispetto alla penisola arabica. [NdT].