Yemen

Dietro gli attacchi Houthi, una precisa strategia politica

A dispetto delle apparenti somiglianze con gli atti di pirateria nella regione nei primi anni 2000, gli attacchi dei miliziani Houthi alle navi commerciali nei pressi dello stretto di Bab el-Mandeb costituiscono un fenomeno differente. Dietro alle loro azioni, infatti, c’è una precisa agenda politica, che si inserisce in un quadro geopolitico regionale e internazionale profondamente mutato.

Il cacciatorpediniere americano USS Carney colpisce dei missili Houthi, 21 ottobre 2023.
Wikimedia Commons

Al largo del porto yemenita di Hodeida, dalla fine dello scorso novembre è ancorata la Galaxy Leader, una nave cargo adibita al trasporto di automobili. Pagando poco meno di 1 dollaro, in appena dieci minuti di motoscafo la si può raggiungere e visitare, come se fosse un’installazione artistica.

Tuttavia, l’arte o un sottostante investimento in cultura c’entrano poco: la Galaxy Leader, battente bandiera delle Bahamas e noleggiata da una compagnia giapponese all’uomo d’affari israeliano Abraham Ungar, era in navigazione dalla Turchia all’India quando è stata assaltata a bordo di un elicottero da una decina di ribelli Houthi, che in breve tempo hanno preso in ostaggio l’equipaggio di 25 persone e l’hanno condotta nelle proprie acque, trasformandola poi in una vera e propria attrazione turistica.

Un’azione dimostrativa spettacolare, ripresa in diretta e postata sui social dagli stessi Houthi - i miliziani del cosiddetto “Asse della Resistenza”, guidato dall’Iran, che Teheran è forse meno in grado di controllare, in primis perché titolari anche di una agenda propria, con cui aspirano a governare l’intero Yemen - dai quali è arrivata la più imprevedibile delle reazioni all’assedio israeliano su Gaza.

Un salto di qualità, rispetto ai missili “in solidarietà ai palestinesi”1 che gli Houthi avevano iniziato a lanciare verso Israele e verso le navi mercantili sin dal 19 ottobre, sempre con l’obiettivo dichiarato di dissuadere Tel Aviv dal bombardare Gaza. Da quel momento i media internazionali hanno ripreso a parlare di pirateria, un fenomeno che in quella parte di mondo da qualche anno sembrava ridimensionato, se non addirittura estinto.

La decisione degli Houthi di esporre la Galaxy Leader al pubblico è tuttavia anche il segno di una fondamentale differenza, per esempio rispetto alle azioni dei pirati somali a cavallo tra i due millenni2, o quelle al largo delle coste dell’Africa occidentale3.

Differenza ulteriormente certificata dall’assenza di una tipica richiesta di riscatto, sostituita in modo inedito da una richiesta politica: la fine dell’assedio israeliano su Gaza, che implicitamente conterrebbe anche un riconoscimento internazionale de facto degli Houthi. Pur non chiamando in causa il tipico dilemma legato all’inopportunità di rafforzare economicamente dei sequestratori col pagamento di un riscatto, questa richiesta politico-umanitaria è stata nei fatti rigettata.

Il conseguente aumento degli attacchi yemeniti nei confronti di petroliere e navi commerciali nei pressi dello stretto di Bab el-Mandeb ha quindi dapprima costretto centinaia di esse a pagare assicurazioni molto più costose, e altrettante ad allungare enormemente le propria rotta, circumnavigando l’Africa anziché passare per il Mar Rosso (sul quale passa circa il 15% del commercio globale per via marittima), con danni finanziari per una sessantina di paesi; poi, ha indotto gli Stati Uniti a lanciare il 18 dicembre l’operazione Prosperity Guardian, assieme a una ventina di paesi, per tentare di proteggere le navi commerciali dagli attacchi; infine, a partire da inizio gennaio 2024, a bombardare a più riprese, insieme al Regno Unito, le postazioni degli Houthi in Yemen, che in ogni caso hanno attaccato nel nuovo anno almeno altre 6 navi commerciali.

Quello posto dagli Houthi sarebbe tecnicamente un problema di pirateria ma allo stesso tempo le soluzioni adottate in passato per contrastarla sembrano oggi inadeguate, proprio perché gli Houthi, malgrado alcune similitudini, sono tutt’altro che dei classici pirati: per postura, motivazioni ed obiettivi.

Le differenze con gli attacchi nel Golfo di Aden

All’inizio degli anni ‘90 la guerra civile in Somalia, conseguente alla caduta del governo federale di Siad Barre, aveva lasciato le macerie di uno Stato fallito, affacciato sui quasi 3 milioni di chilometri quadrati dell’Oceano Indiano occidentale: una delle zone più pescose al mondo, nonché un’area marittima nella quale in qualunque momento di qualunque giornata dell’anno naviga circa il 40% dell’intera flotta commerciale mondiale.

Ricalcando in un certo senso la dimensione “romantica” di cui sono stati portatori i pirati dell’Atlantico nel 1650-1750, i primi pirati somali attivi al largo delle loro coste agivano sostanzialmente per necessità, talvolta addirittura per fame, e non senza poter addurre delle legittime recriminazioni: le loro azioni erano infatti dirette contro i grandi pescherecci che, sfruttando il vuoto di potere a Mogadiscio, pescavano illegalmente nelle acque territoriali somale. I pirati somali attaccavano battelli privi di scorta armata a bordo di piccole imbarcazioni, dotati di armi leggere, e chiedevano puntualmente un riscatto, senza mai segnalare alcuna istanza politica.

Si era probabilmente in quella che lo studioso Edward Lucas4 nel 2013 ha definito la prima fase del “ciclo della pirateria”, ovvero quella della “pirateria di sussistenza”, nella quale gli stessi abitanti di zone costiere, in grave difficoltà economica, alimentata dall’instabilità politica, compiono attacchi contenuti nei confronti di piccole imbarcazioni prive di difese, come rimedio alla propria condizione di indigenza.

La povertà e l’assenza di prospettive avrebbero giocato un ruolo fondamentale, se è vero che in quegli anni lo stipendio medio annuale in Somalia era di circa 650 dollari all’anno, mentre un singolo attacco poteva fruttare ad un pirata quasi 10mila dollari. Non è forse un caso che il picco delle azioni di pirateria nei pressi del Corno d’Africa sia stato raggiunto nel 2008, lo stesso anno di una dura crisi economica in Somalia, che tuttavia non può essere slegata da quello che gli esperti considerano l’acceleratore principale della pirateria, ossia l’instabilità politica ed il vuoto di potere sulla terraferma. Una convinzione rafforzata ad esempio dal fatto che durante i 6 mesi di governo delle Corti islamiche in Somalia non vi furono attacchi.

L’accumulazione di proventi dei vari riscatti apre poi alla seconda fase, quella della “pirateria di profitto”, in cui i pirati si organizzano meglio e danno vita a gruppi più strutturati, in grado di portare a termine assalti coordinati contro navi più grandi.

È ciò che è successo in particolare nei primi dieci anni del nuovo millennio: decine di gruppi organizzati hanno nel tempo escluso o fagocitato i “pirati della sussistenza”, venendo a formare dei veri e propri network organizzati, attirando anche il finanziamento o il sostegno interessato dei gruppi criminali attivi sulla terraferma, come i jihadisti di Al Shabab. Questo mentre la comunità internazionale, scottata dall’intervento del 1994, abbandonava la Somalia al suo destino.

Secondo Stuart Yikona5, dal 2007 inizia una fase altamente “concorrenziale” nel mondo della pirateria, aspetto che contribuisce alla sempre maggiore sofisticazione dei metodi e all’estensione stessa della minaccia marittima: se nel 2007 l’attacco più lontano avviene a 800 chilometri dalle coste somale, nel 2010 i pirati arrivano a condurre operazioni fino a 3600 chilometri dalla terraferma. Sono gli “anni d’oro” della pirateria: secondo la Banca Mondiale, tra il 2005 e il 2012 il totale dei riscatti pagati ai pirati somali ammonta a circa 400 milioni di dollari, tanto da spingere Peter Leeson6 della George Mason University a proporre nel 2009 la “privatizzazione del Golfo di Aden”, attraverso la quale dividersi i costi della sua “securizzazione”.

La terza fase del “ciclo della pirateria”, secondo Lucas, è quella in cui i pirati acquisiscono potere politico e la sovranità su un territorio, sviluppando anche la capacità di allearsi con attori statali. Si tratta della fase alla quale i pirati somali non sono mai giunti, anche perché, a partire dal 2002, gli Stati Uniti danno vita alla Combined Task Force 150, insieme ad una trentina di nazioni, per contrastarne le azioni, a cui nel 2008 si affiancheranno l’operazione Atalanta, guidata dall’Unione Europea, e dal 2009 la Ocean Shield, a guida Nato.

È anche l’unico periodo nel quale ha luogo un inedito coordinamento informale tra la Marina americana, russa e cinese. Fondamentale poi, per la drastica diminuzione degli attacchi nella seconda decade del nuovo millennio, è anche la decisione di gran parte delle navi mercantili di dotarsi di personale armato a bordo, in grado di fungere da deterrente. Dal 2016 al 2022 gli attacchi sono stati quindi praticamente azzerati, tanto che l’International Maritime Bureau declassa il grado di rischio nel Golfo di Aden, che passa da essere considerata “High Risk Area” (Hra) ad “Hightened Security Area” (Hsa).

Un nuovo contesto geopolitico regionale

Il contesto geopolitico regionale, nel frattempo, cambia. In Yemen, uno dei paesi affacciati su questi 3 milioni di chilometri quadrati d’acqua, il conflitto civile iniziato nel 2011 vive una svolta tre anni dopo, quando i ribelli Houthi (anche noti col nome di Ansarullah), sostenuti dall’Iran ma attivi in modo autonomo dal 1992, prendono il controllo di una vasta porzione di territorio nazionale, tra cui la capitale Sana’a, e riescono a resistere all’offensiva militare a guida saudita che inizia nel 2015.

Gran parte delle risorse in mano agli Houthi vengono investite nel comparto militare, permettendo loro di assurgere in breve tempo al ruolo di milizia di primo piano all’interno dell’Asse della Resistenza, alle prese con gli anni di una presidenza Trump poco interventista in generale ma molto attiva in operazioni mirate contro di esso, prima tra tutte l’assassinio ne 2020 del generale iraniano Qassem Soleimani.

Il paradosso di un movimento germinato in uno dei paesi più poveri al mondo, che vede passare di fronte alle proprie coste un quinto dei beni di consumo e del petrolio che concorrono al benessere materiale dell’Occidente, inizia a detonare in questo periodo: il contesto di caos ed instabilità politica attorno agli Houthi sembra ricalcare quello della Somalia negli anni ’90, ma i ribelli yemeniti fino allo scorso anno si concentrano perlopiù sul proprio territorio, e sui tentativi di estendere il proprio potere su tutto lo Yemen.

La prima e la seconda fase del “ciclo della pirateria”, in Yemen, non hanno nemmeno luogo. Alle loro prime operazioni marittime di “disturbo” delle petroliere e delle navi mercantili – certamente mutuate dai Guardiani della Rivoluzione iraniana (IRGC), che da decenni usano piccole imbarcazioni e motoscafi per allontanare dalle proprie acque o dissuadere navi perlopiù americane nello Stretto di Hormuz – gli Houthi è come se si ritrovassero di fatto già nella terza: sono molto equipaggiati, poco inclini alle negoziazioni finanziarie, controllano già un territorio e sono alleati dell’Iran.

Una duplice agenda politica

Le recenti operazioni non possono quindi essere trattate come un mero problema di pirateria, come in parte è sembrato negli ultimi mesi, e pongono dilemmi molto più ingombranti di quelli sollevati qualche anno fa dai pirati somali. Anzitutto perché agli Houthi manca la caratteristica motivazione economica che normalmente muove i pirati, sostituita da una duplice agenda politica: il riconoscimento del proprio ruolo di attore statale da una parte, e dall’altra supportare gli obiettivi dell’alleato iraniano.

Altre due rilevanti differenze sono costituite dall’utilizzo di armamenti molto più abbondanti e sofisticati, tra cui imbarcazioni veloci, droni, elicotteri e missili a corto raggio, di fronte ai quali la presenza di uomini armati a bordo dei mercantili appare superflua; e la difficoltà, oggi come oggi, vista l’evoluzione del contesto globale, di un coordinamento tra le Marine di Stati Uniti, Cina e Russia.

È altrettanto improbabile che una intensificazione dei bombardamenti in Yemen - particolarmente serrati tra il 12 e il 17 febbraio, ma ai quali gli Houthi hanno risposto abbattendo anche un drone americano7 abbia la capacità di fungere da deterrente, arrivati a questo punto. È anzi molto più probabile, come accaduto negli anni dei bombardamenti sauditi, che ciò finisca per rafforzare gli stessi Houthi in termini di consenso interno e pan-arabo, il tutto mentre un prolungamento delle tensioni sul Mar Rosso indurrebbe altre navi a ricalibrare le proprie rotte, con conseguenze disastrose per i costi dell’energia.

Lo si è peraltro visto nei giorni scorsi, quando è emerso che Djibouti, paese situato sulla sponda opposta allo Yemen, ha rigettato la richiesta di Washington di installarvi rampe missilistiche per colpire gli Houthi: nel corso di una intervista alla Bbc, infatti, il primo ministro di Djibouti, Abdoulkader Kamil Mohamed8, ha ribadito come gli Stati Uniti debbano “accontentarsi” delle batterie Patriot MIM-104, già dispiegate nel paese con funzioni di difesa delle installazioni militari americane. Il ministro degli Esteri djiboutiano, Mahmoud Ali Youssuf, ha da par suo rifiutato di condannare gli attacchi degli stessi Houthi nel Mar Rosso, definendoli anzi un “legittimo sollievo per i palestinesi”.

Non c’è, tuttavia, solo una questione legata al rafforzamento politico degli Houthi. È utile, in questo senso, gettare una luce sulle differenze che, per esempio, sussistono tra questi ultimi e la principale milizia-partito alleata di Teheran, cioè Hezbollah in Libano.

All’esatto contrario del movimento libanese, che mantiene un certo grado di segretezza sui propri armamenti, anche rispetto a quelli risalenti a 15 anni fa, gli Houthi hanno messo ben volentieri in mostra il loro arsenale di droni, missili anti-nave, missili balistici e missili cruise di fabbricazione iraniana, alcuni dei quali, come i Paveh, in grado di raggiungere anche la stessa Israele (sebbene non molto precisi, come si è anche visto alcuni giorni fa, quando un loro missile ha colpito una nave greca diretta al porto iraniano9 di Bandar Imam Khomeini).

Lo Yemen, a differenza del Libano o degli stessi Territori occupati palestinesi, è dal punto di vista strategico una base di lancio ideale per i missili: perché il rischio di una guerra è molto più basso, vista la distanza da Israele, come è più basso il rischio di sconvolgere delicati equilibri interni (come in Libano ma anche in Iraq) in caso di una sua esplosione, vista la predominanza degli Houthi in Yemen, la loro abitudine e capacità di resistere ad assedi militari, e il già evidente disfacimento del tessuto sociale del paese. Dal punto di vista tecnico, tuttavia, lo è meno, proprio per il combinato disposto di scarsa accuratezza dei missili, efficienza delle difese israeliane e distanza tra i due paesi.

In breve, come ha ricordato l’analista esperto di armamenti iraniani dell’International Institute for Strategic Studies, Fabian Hinz10: un movimento come Hezbollah, attivo ai confini di Israele, può sperare di superare le difese israeliane puntando sulla quantità, mentre ciò sarebbe più complicato per un movimento situato nel lontano Yemen.

Come si è visto negli ultimi mesi, tuttavia, per gli Houthi è assai più conveniente e agevole concentrarsi su obiettivi marittimi, anziché terrestri, ed è ciò che bisogna aspettarsi nei prossimi mesi. Lo si capisce da una sproporzione, cioè il possesso - grazie alla fornitura iraniana - di almeno una decina di diversi sistemi missilistici anti-nave, tra cruise e balistici, che risponde in modo piuttosto razionale al fatto che gli Houthi sono soggetti a blocco navale, che hanno intenzione di contrastare. Non certo da soli: è verosimile che l’Iran, avendo fornito armamenti di questo tipo, addestrato ed ispirato gli stessi alleati Houthi nelle azioni di “guerriglia marittima” contro navi che possono essere utilizzate come “carta negoziale”, intenda replicare nello stretto di Bab el-Mandeb la strategia messa in atto già da anni nello Stretto di Hormuz.