Gaza 2023-2024

La “Generazione Z” e la Palestina. Come gli attivisti sui social media stanno cambiando il giornalismo per sempre

Oggi la logica dei media sembra essersi invertita e sono i social network, tradizionalmente associati alle fake news, ad essere sempre più spesso chiamati a verificare e controllare i media tradizionali. È forse troppo presto (e troppo ottimista) vederla così. Tuttavia, laddove la logica dei clic, anziché quella degli standard della professione, sembra aver contaminato completamente l’economia dei media mainstream, si osserva come una nuova generazione esperta di comunicazione digitale stia cambiando lo scenario.

All illustrations by Zena El Abdalla

Il panorama mediatico globale non è mai stato così in tumulto come negli ultimi 100 giorni. L’offensiva israeliana su Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre ha provocato una scossa tellurica nelle dinamiche di diffusione delle notizie, con conseguenze su più livelli che qui tenteremo di esaminare.

“Abbiamo un problema con TikTok”, ha affermato Jonathan Greenblatt, direttore dell’Anti Defamation League, in un audio reso noto i primi di novembre, lamentando la diffusione di “propaganda antisemita”. “La questione non è tra destra e sinistra”, ha continuato. “Ma tra giovani e meno giovani”.

La candidata repubblicana Nikki Haley ha affermato che seguire i video di TikTok renderebbe le persone “ogni 30 minuti il 17% più antisemite e più pro-Hamas”.

Nella narrazione mediatica sta emergendo un nuovo attore: la “Generazione Z”, o “Generazione TikTok”, un movimento spontaneo e senza leader di giovani che si muovono come mediatori, traduttori e distributori di notizie, in risposta a ciò che percepiscono come propaganda e fake news diffuse dai media mainstream nella copertura degli attacchi su Gaza, della violenza nei territori palestinesi occupati e nel sud del Libano.

I giovani utenti dei social media, alcuni dei quali hanno più follower dei programmi televisivi statunitensi più seguiti, stanno chiaramente rifiutando la narrazione che li dipinge come “simpatizzanti dei terroristi” per il solo fatto di opporsi alla guerra, o che li accusa di antisemitismo solo per essere anti-sionisti.

TikTokers like rainmarias, nuggets_on_a_roof, and naleybynature count hundreds of thousands of followers and their videos can reach millions of views
TikTokers like rainmarias, nuggets_on_a_roof, and naleybynature count hundreds of thousands of followers and their videos can reach millions of views

TikTokers come rainmarias, nuggets_on_a_roof e naleybynature contano centinaia di migliaia di follower e i loro video possono raggiungere milioni di visualizzazioni.

La disinformazione, la copertura mediatica stereotipata e distorta rispetto alla questione palestinese non è una novità, ma la gravità degli eventi recenti, la varietà delle risposte e la posta in gioco hanno scatenato un livello completamente nuovo di sforzi multipolari concertati per controllare la narrazione mentre la guerra si svolge in tempo reale.

Controllo della narrazione e contro-strategie

Diversi report pubblicati recentemente dalle principali organizzazioni per i diritti umani, di monitoraggio dei media e di advocacy hanno sottolineato che Meta, Google e X hanno censurato sistematicamente i contenuti a sostegno della Palestina. Utenti da oltre 60 paesi hanno segnalato queste attività anomale, tra cui la scomparsa di post e la sospensione di account.

Gli utenti dei social media sono sempre stati molto consapevoli di queste tattiche, inclusa la pratica diffusa dello “shadow-banning”, uno strumento di censura utilizzato per togliere priorità e visibilità a contenuti sensibili o controversi senza tuttavia un divieto formale di pubblicazione (che sarebbe soggetto a misure legali). Lo “shadow-ban”, la disabilitazione o il blocco degli account, hanno colpito molti utenti che tentavano di criticare le azioni israeliane.

Shadowbanning, account disabled or blocked, hit many social media users trying to criticise Israel's actions.
Shadowbanning, account disabled or blocked, hit many social media users trying to criticise Israel’s actions.

Immediatamente sono emerse strategie di hackeraggio e aggiramento di questi blocchi: dal postare selfie, animaletti o “thirst trap” (post che mirano ad attirare gli utenti attraverso contenuti seduttivi) con l’hashtag #algobreak, al nascondere l’hashtag #IstandWithPalestine dietro uno screenshot, fino ad includere quello opposto – #IstandWithIsrael – nei loro post, hanno sfruttato il fatto che questo è il tipo di contenuti che Meta e altre piattaforme hanno interesse a pubblicizzare, anche se non rispecchia le opinioni degli stessi utenti che li hanno postati.

Gli Zoomers, o “Generazione Z” (persone che hanno tra gli 11 e i 27 anni) e, in parte, i Millennials, hanno imparato meglio e più velocemente delle generazioni precedenti che, più che l’interesse pubblico, sono la logica e il valore monetario dell’attenzione e dei click a riflettersi sull’agenda delle notizie e sulla produzione di storie. Inoltre, rispetto alle generazioni più anziane, sono più allenati a individuare la differenza tra un’informazione genuina e corretta e le campagne di costruzione del consenso.

Per fare un esempio, crescendo con una persona come Georainbolt1 una personalità dei social media specializzata in giochi di geo-localizzazione, che appare casualmente sul vostro feed, è probabile che veniate a conoscenza, anche se accidentalmente, della disponibilità e dell’accesso a immagini satellitari open source di alta qualità e a strumenti di geo-localizzazione digitale all’avanguardia. Per questo, sarà molto più difficile convincervi che uno dei più finanziati e tecnologicamente avanzati eserciti del mondo non sia in grado di distinguere tra gli obiettivi civili e quelli militari.

La “Generazione Z” è spesso ben preparata e veloce nel creare e confezionare contenuti multimediali e quindi più capace di individuare tecniche e strategie di propaganda degli addetti ai lavori. Essendo cresciuti all’apice del neoliberismo, questi giovani hanno imparato a essere trattati come consumatori e non come cittadini titolari di diritti, e si comportano di conseguenza. Poiché l’affidabilità, la coerenza e la competenza costituiscono una moneta preziosa sui social media, i giovani non vogliono passare per sprovveduti, vittime incoscienti del lavaggio del cervello (così come del pink e del greenwashing).

L’attrice israeliana che si finge infermiera araba, tradita dal suo accento sbagliato; la ragazza del Festival Nova data per morta e trovata poi viva in una clinica di Gaza; i 40 bambini decapitati e “cotti in forno”; le immagini delle manifestazioni a favore dell’esercito israeliano a Gerusalemme generate dall’intelligenza artificiale; gli adolescenti israeliani travestiti parodicamente da madri di Gaza in lutto tra le macerie; i vecchi filmati e i vecchi documenti di guerra presentati come immagini originali dei crimini di Hamas... sono solo alcuni esempi di bufale e manipolazioni narrative messe in atto dal 7 ottobre, che sono state smascherate su Instagram e TikTok grazie agli utenti dei social media della “Generazione Z”. E questa “industria spontanea” del debunking può influenzare anche i media tradizionali.

Ogni volta che un pezzo di propaganda raggiuge i media mainstream, viene ridicolizzato con facilità da un esercito di creatori di contenuti, maghi dei meme e shitposters, account specializzati in contenuti satirici, con l’obiettivo di spostare i dibattiti e smascherare la propaganda.

Un esempio recente è stata la traduzione errata da parte della BBC di un’intervista a un prigioniero palestinese liberato. Dopo che Respond Crisis Translation, che si definisce “un collettivo di attivisti linguistici”, ha confermato che la traduzione non era corretta, la conseguente shitstorm sui social media ha costretto la BBC a dare spazio a un chiarimento e a delle scuse. In tutti questi casi, sono stati gli utenti dei social media ad adempiere al ruolo di watchdog e di monitoraggio del sistema mediatico che le istituzioni indipendenti, pubbliche o sovranazionali avrebbero dovuto svolgere.

Quando sono i ragazzini a comportarsi da adulti

Nel corso dell’ultimo decennio, man mano che le piattaforme dei social media consolidavano il loro potere, i media tradizionali le hanno accusate di scarsa affidabilità come fonti di notizie non verificate, posizionandosi in opposizione e rivendicando il ruolo di commentatori esterni “oggettivi” e garanti della verità; a volte, invece, hanno seguito questa logica ma cedendo poi nel riportare come eventi degni di nota contenuti critici diffusi sui social media e divenuti virali.

In anni recenti, nel contesto del conflitto israelo-palestinese, un numero significativo di storie non pubblicate e il debunking di notizie false si sono imposti nel ciclo mediatico mainstream grazie alla capacità di diffusione su Twitter (ora X), Instagram e più recentemente TikTok. Ad esempio, durante le espulsioni forzate dal quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, nel maggio 2021, i post virali sui social media che documentavano le atrocità e le manifestazioni di solidarietà da parte di celebrità molto famose come la modella Bella Hadid, hanno contribuito a catapultare gli eventi nelle agende dei media globali.

Dopo 100 giorni, nonostante gli sforzi multilaterali (e multimilionari) per fermare la circolazione di questo tipo di contenuti; nonostante la “assuefazione all’indignazione”, i licenziamenti, le campagne diffamatorie, le interazioni e il numero di diffusioni rispetto alle notizie da Gaza sono ancora alte. La dedizione dei creatori di contenuti solidali con la Palestina sembra essere nutrita sia dal desiderio di essere parte di una comunità, sia dal genuino interesse nel combattere propaganda e disinformazione. Il riconoscimento che arriva dal semplice atto di condividere non ha prezzo. Ciò che spinge gli utenti a contribuire al fact-checking e alla verifica delle notizie per smantellare la propaganda israeliana grazie al loro tempo e alle loro capacità di ricerca non è una motivazione economica o una retribuzione monetaria: cosa che rende estremamente più difficile controllare questo impulso.

Così come la fake news dei 40 bambini decapitati ha accelerato l’escalation dopo l’attacco del 7 ottobre, il debunking virale di molte false notizie originate da account vicini all’esercito israeliano potrebbe mitigare i danni, facendo lentamente pressione sui responsabili della diffusione di falsità e, a loro volta, spingendo politici e rappresentanti pubblici a cambiare posizione.

Un esempio sono le brutali prese in giro, divenute virali su TikTok, dei filmati dell’esercito israeliano che mostravano una “lista dei combattenti di Hamas” all’interno di un ospedale di Gaza, smontata semplicemente mostrando che si trattava dei turni dei medici in base ai giorni della settimana, con post accompagnati dalla caption “pensavano che 313 milioni di persone nel mondo che leggono e parlano l’arabo non l’avrebbero capito? #ArabTikTok”.

Un post virale su Instagram del 7 dicembre scorso mostra alcuni giornalisti di Gaza diventati famosi sui social media attraverso una finta copertina della “persona dell’anno” della storica rivista “Time”: Bisan Wisam, Motaz Azaiza, Plestia Alaqad, Hind Khoudari, Aboud Batah, Ahmed Hijazi, Saleh Jarafawi, Wael Dahdouh e Yara Eid sono stati messi sulla finta copertina non solo per il loro coraggio e professionalità, ma anche per la loro eccezionale popolarità, in un panorama mediatico mainstream tradizionalmente restio a dare spazio a fonti locali arabe e riluttante nel riconoscere come imparziale il lavoro giornalistico di professionisti arabi e musulmani.

Eppure, sono soprattutto i media tradizionali a dare eco in modo acritico alla Hasbara2 dell’esercito israeliano e a diffondere notizie sensazionalistiche non verificate, dando a malapena spazio a scuse e correzioni e al necessario riconoscimento di standard sotto la media nel processo di produzione dell’informazione. Il danno è stato già fatto: l’escalation stessa della guerra è stata in parte giustificata dai resoconti di eventi che in seguito si sono rivelati inventati.

Oggi, quindi, la logica dei media sembra essersi invertita e sembra che siano i social media, prima così associati alle fake news o all’hate speech, ad essere sempre più spesso chiamati a verificare e controllare i media tradizionali. È forse troppo presto (e troppo ottimista) vederla così. Tuttavia, laddove la logica dei clic, anziché quella della professionalità, sembra aver contaminato completamente l’economia dei media mainstream, si può sperare che i giovani esperti di tecnologia contribuiscano a frenare queste tendenze fuorvianti.

Quando giornalisti veterani di mezza età e prevalentemente occidentali agiscono come adolescenti arrabbiati – come il giornale tedesco che ha attaccato Greta Thunberg per il suo supporto “opportunista e furbo” alle vittime civili in Palestina – un nuovo modo di verificare le notizie e contrastare la propaganda si rende necessario.

Se figure pubbliche e consolidate del giornalismo usano le proprie piattaforme per intimidire e farsi gioco di una ragazza con la sindrome di Asperger e per invocare la deportazione di massa dei migranti arabi, la nota retorica paternalista del “creare consapevolezza” e “educare le giovani generazioni” ai “valori europei” della coesistenza e del rispetto dei diritti umani inizia a suonare stridente.

Una recente aggiunta alla lista degli influencer giovani e popolari è Lama Jamous, una bambina di 9 anni che vive a Gaza e vuole diventare una giornalista, e che racconta la sua esperienza quotidiana della guerra in tempo reale. In un post del 19 dicembre scorso, intitolato “La sofferenza delle persone a Gaza”, ha condiviso gli ultimi aggiornamenti aggiungendo “voglio che la guerra finisca, e che possiamo tornare alle nostre case in pace”. In questo scenario, sono i bambini che si stanno comportando da adulti.

I resoconti delle fonti israeliane sottolineano la crescente preoccupazione di Netanyahu per il crescente sostegno popolare alla causa palestinese, che si è rafforzato grazie alle imponenti manifestazioni, alle azioni dirette, alla condanna ufficiale da parte di politici, rappresentanti delle Nazioni Unite, celebrità e altre figure pubbliche.

Grazie agli sforzi concertati di una rete molto eterogenea e frammentata di individui e collettivi in tutto il mondo, le onnipresenti piattaforme attraverso cui miliardi di persone si connettono e comunicano quotidianamente stanno inavvertitamente facilitando una serie di slittamenti paralleli nella qualità delle narrazioni mediatiche dominanti e nei filtri attraverso cui le leggiamo. I sistemi di OSINT (Open Source Intelligence) sono in ascesa, e non solo come piattaforme organizzate ma come pratiche spontanee e orizzontalmente distribuite.

Milioni di persone seguono – e credono a – Bisan, una delle più popolari e giovani giornaliste di Gaza3 non perché sia percepita come “obiettiva”, o perché i suoi video sono lucidi e brillanti; ma piuttosto perché sta testimoniando e facendo esperienza diretta di questa tragedia sulla sua pelle, senza filtri, ogni giorno, e senza la familiare (anche se inquietante) compostezza dei conduttori «imparziali» dei notiziari occidentali.

1Nickname di Trevor Rainbolt o “Il ragazzo di Google Map”, campione di un gioco online chiamato “Geoguessr” nel quale attraverso le immagini satellitari di Google Map si deve indovinare dove è stata ripresa l’immagine, NdT.].

2In ebraico letteralmente “spiegazione”, è una politica centrale e organizzata dei governi israeliani volta a giustificare attraverso la propaganda qualsiasi azione dello Stato di Israele, [NdT.].

3Bisan Owda, giornalista, è seguitissima sul suo account Instagram @wizard_bisan1. Le sue testimonianze video da Gaza sono diventate famose, così come la loro tradizionale apertura: “Ciao a tutti, qui è Bisan da Gaza. Sono ancora viva”.