Focus Gaza-Israele

Attacco per alcuni, difesa per altri. Una sentenza occidentale

Concepito ed eseguito come un’operazione militare, l’attacco guidato dalle Brigate Ezzedin Al Qassam di Hamas dalla Striscia di Gaza il 7 ottobre è stato qualificato come attentato terroristico, in Europa come in Israele. Immediato il parallelo con l’11 settembre e il Bataclan, che rende attuale una divisione razziale della sofferenza dei corpi, della violenza legittima e del diritto alla resistenza, sulla base di cosa sia o meno assibilabile all’Occidente.

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“È l’11 settembre di Israele, e Israele farà tutto il possibile per riportare i suoi figli e le sue figlie a casa”. Pronunciata 3 giorni dopo l’offensiva lanciata da Hamas e da altre fazioni armate palestinesi contro Israele, questa dichiarazione dell’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, è una buona lezione di retorica.

Prima di tutto, l’espressione “schiaffo”: “l’11 settembre” evoca il crollo materiale e psicologico delle sicurezze di cui credevano di godere gli Occidentali, il ricordo doloroso della violenza, lo scandalo dell’ingerenza straniera nei propri contesti nazionali. E poi, in risposta a questo dolore, il tono paternalistico e bellicoso di uno Stato sicuro della sua forza, capace di proteggere i suoi figli da un corpo estraneo che non ha più nemmeno bisogno di essere nominato. Ma c’è davvero bisogno di identificare un nemico da abbattere? Dopo il 2001 ci siamo adagiati sul termine vago e indistinto, talmente abusato, di “terrorismo” che neanche l’ambasciatore nomina più. Una parola che non ha più alcun significato e che rinvia esclusivamente al sentimento provocato in colui che la utilizza.

Condannare la violenza per legittimare la propria

Al di là della sua formulazione, ecco la prima informazione chiave che emerge dalla dichiarazione dell’ambasciatore d’Israele all’ONU: nel 2023 non c’è più bisogno di parlare di terrorismo per mobilitare il sistema semantico della “guerra mondiale contro il terrore” coniato da Bush nel 2001. Parlare dell’11 settembre di Israele è al tempo stesso condannare la violenza dell’altro e legittimare la propria; è giustificare una dichiarazione di guerra dal momento che il terrore è emerso dal campo avversario. Dopo il 2001, molti autori hanno adottato la tesi di uno “scontro di civiltà”, di una guerra – contro il popolo afghano prima, quello iracheno poi – che è l’inevitabile conseguenza della vittoria dei valori occidentali sull’Islam, nella lotta per l’egemonia mondiale.

Veicolata attraverso la retorica securitaria, anti-immigrazione e islamofobica dei nostri leader, questa spiegazione ignora le origini comuni delle tradizioni cristiane e musulmane e le molte caratteristiche che le uniscono piuttosto che opporle. Lo dimostra Talal Assad, antropologo specialista di Islam, nel suo libro “Attentati suicidi. Una questione antropologica” che analizza il discorso sul terrore in reazione alle narrazioni contraddittorie dello scontro di civiltà.

In questa dicotomia divenuta ormai abituale tra Islam e Occidente, terrore e guerra, Assad sottolinea l’emergere di un meccanismo discorsivo nuovo dell’imperialismo, emerso nel 2001, nel quale la guerra (oggi la resistenza armata, come nel caso dell’Ucraina) diventa appannaggio degli Stati occidentali, intransigenti nel far rispettare la giustizia, legittimati nella loro collera.

Secondo l’autore, questo armamentario morale è un esercizio psicologico: l’obiettivo è dimostrare che lo Stato occidentale ha una coscienza e che le sue decisioni sono basate sulla ragione, mentre il «terrorismo» è un mero sfogo di provocazione distruttiva. Qualunque siano le motivazioni politiche del terrorista, egli pratica la violenza in modo irrazionale e si dedica alla morte, in particolare al suicidio.

Pressoché sconosciuto in Occidente, Talal Assad altrove è considerato un riferimento imprescindibile dell’antropologia del XX secolo, e il suo breve saggio del 2007 mostra un’incredibile attualità all’indomani dell’offensiva di Hamas in Israele. Sovrapponendo l’operazione del 7 ottobre agli attentati suicidi alle torri gemelle del World Trade Center, Israele ha infatti compiuto una manovra abile, assimilandosi a una potenza occidentale e relegando il suo aggressore – che non è qui neanche più nominato – alla compagine terrorista. Israele è stato sorpreso dalla violenza sul suo territorio, essendo però egli stesso fondato su una violenza sistematica e totale che pratica colonizzazione e apartheid. Facendo appello alle radici psicologiche della narrazione sul terrorismo, Tel Aviv ha rimosso come per miracolo i suoi precedenti di violenza e colonizzazione.

Inoltre, l’idea di un 11 settembre israeliano ha rimosso un parametro fondamentale dell’attacco del 7 ottobre: i combattenti di Hamas non avevano vocazioni suicide, e si sono mossi come soldati di un gruppo armato, organizzato, che ha agito in modo strategico con obiettivi prima di tutto militari. L’operazione non si è limitata alla dimostrazione di forza del 7 ottobre: si inscrive in un progetto di riconquista territoriale razionale, che riguarda anche la giustizia e la morale. Poco importa in fondo che si pensi che quella terra sia dovuta o meno ai palestinesi, il fatto è che il nemico di Israele – Hamas, le altre fazioni della resistenza che hanno partecipato all’operazione e più in generale l’alterità araba che infesta quel territorio – rientri perfettamente nella definizione moralizzatrice e imperialista di “terrorismo”.

Un’amnesia emotiva

Nel discorso sul terrore, l’oratore è in definitiva colpevole di tutto ciò di cui accusa il suo nemico terrorista. Ossessionato dal suo stesso dolore, dal suo «terrore», invita coloro che dovrebbero essere sotto processo a lasciarsi trasportare da un’emozione amnesica e a riunirsi in quella che Assad chiama una «contro-società» basata sulla guerra al terrorismo. Le soggettività occidentali s’impongono e l’avversario cessa di essere soggetto, diventando una sorta di mostro senza nome né volto, senza altra funzione che quella di provocare paura in Occidente.

In questo annientamento delle soggettività altre, il discorso sul terrore produce un analogo discorso sulla sofferenza, poiché la sensibilità dell’avversario si ritrova limitata dal dolore della stessa “contro-società”. La guerra provoca certamente sofferenza, ma la reazione antiterroristica legittima l’uso della violenza attraverso un discorso di necessità umanitaria - nel 2001 si doveva salvare lo stile di vita americano, così come nel 2023 si deve preservare il diritto degli israeliani a vivere come si aspettano, cioè, in realtà, quello di insediarsi su una terra che non gli appartiene e di fare festa a pochi chilometri di distanza da quella prigione a cielo aperto che è il territorio di Gaza.

L’ermeneutica della sofferenza che produce la “contro-società antiterrorista” conduce quindi a un discorso paradossale che invita alla violenza tanto quanto la condanna, con la complicità di un panorama mediatico schiacciato su narrative puramente emozionali da una parte, genocidarie dall’altra. Due pesi e due misure che si risolvono in una violenza subita dagli israeliani, fatta oggetto di considerazioni prettamente sentimentali, mentre i palestinesi sono evocati unicamente per la violenza che hanno prodotto. Il ricorso sistematico di Israele al discorso sul terrore finisce per squalificare tutte le forme di resistenza all’oppressione, condannando tanto i combattenti armati che i civili. Da notare anche che la retorica del terrorismo è selettiva: grazie alla sua funzione unificatrice, si applica alle popolazioni musulmane sospettate di islamismo, ma non agli ucraini, che in quanto assimilati agli occidentali, hanno accesso a una violenza legittima per resistere all’invasore.

Sovrapporre Israele ed ebraismo

Dopo aver decostruito la tesi dello “scontro di civiltà” nel suo primo capitolo ed essersi concentrato sulle soggettività “terroriste” e le ragioni che conducono a commettere attentati suicidi nel secondo, Talal Assad dedica un terzo e ultimo capitolo a “l’orrore” di fronte al terrorismo. La definisce come una perdita di punti di riferimento che va oltre la comprensione e il discorso. È generato dalla rottura dei limiti imposti dalla società, ad esempio dall’irruzione della morte al di fuori degli spazi e dei rituali che la incorporano. L’antropologo sottolinea che l’orrore è innescato in particolare dalla rivelazione nel crimine di un’opposizione tra civiltà e barbarie, che non offre al colpevole alcuna speranza di redenzione.

Prendiamo l’esempio dei colpevoli di mass shooters (sparatorie di massa) negli Stati Uniti, che compiono stragi nelle scuole. In quel caso non si parla di attentati, ma di sparatorie, perché essendo i colpevoli assimilati alla cultura occidentale e ai suoi valori, riserviamo loro il diritto a una violenza razionale. Hanno anche il diritto al pentimento e alla riabilitazione sociale, come nel caso di quell’uomo che, al termine della sua condanna a vent’anni di carcere per aver aperto il fuoco in una scuola di New York nel 2004, è diventato da un giorno all’altro una celebrità sul social network TikTok... con video di prevenzione della violenza delle armi. I combattenti palestinesi, relegati alla violenza auto-distruttrice del terrorismo suicida, sono invece raggruppati in una massa barbara irrazionale dalla quale non ci si può attendere alcun discorso – non è per caso che il ministro della Difesa israeliano li abbia definiti “animali umani” – cioè, esseri brutali, irrazionali e privi del linguaggio.

L’Europa non ha atteso le dichiarazioni israeliane per rievocare l’immaginario del terrorismo. L’11 settembre è divenuto un “Bataclan israeliano” nel discorso mediatico e politico, e Israele, da molto tempo eretto a modello securitario, è diventato l’attore in grado di “assicurare la protezione di tutto il pianeta”, sconfiggendo indistintamente combattenti e civili palestinesi. Sono state queste le parole di Muriel Ouaknine-Melki, presidente dell’Organizzazione ebraica europea, per cui è lecito domandarsi in che modo renda un buon servizio agli ebrei d’Europa incoraggiando la politica identitaria, suprematista e conservatrice che sovrappone l’ebraicità al progetto coloniale dello Stato di Israele, nutrendo di fatto l’antisemitismo che pretende di combattere. Ai microfoni di BFMTV il 9 ottobre ha proposto una fine analisi: “Hamas è Daesh”. Brillante illustrazione della funzione confusa della mobilitazione dell’immaginario terrorista e della stringente attualità delle tesi di Talal Assad.