Festival

Tunisi. Al Nawaat Festival, la parola d’ordine è resistenza

Come ogni anno, Nawaat, uno dei pochi magazine tunisini indipendenti, ha tenuto nella capitale la terza edizione del suo festival. Se il tema inizialmente previsto per quest’anno era il femminismo, la cronaca della guerra in corso a Gaza ha spinto la redazione ad ampliare la rassegna per rendere omaggio alle diverse forme di resistenza.

Don Pac, artista tunisino, in concerto al Nawaat Festival il 16 dicembre 2023
© Nawaat.

Dal 15 al 17 dicembre, si è tenuta a Tunisi la terza edizione del Festival Nawaat, dal nome del blog militante tunisino fondato nel 2004, e che ancora oggi resta una delle poche realtà indipendenti del paese. Inoltre, fa parte, come Orient XXI, della rete di media indipendenti sul mondo arabo.

Per tutta la durata dell’evento, Nawaat ha aperto a centinaia di persone i suoi splendidi locali, già proprietà di Wassila Bourguiba, seconda moglie dell’ex presidente della Repubblica Tunisina Habib Bourguiba, non lontano dal centro cittadino. In programma c’erano tavole rotonde e spettacoli di danza all’aperto, un viaggio nella scena hip-hop con il collettivo Room 95, la riscoperta degli archivi cinematografici palestinesi e passeggiate tra le opere del fotografo Chehine Dhahak.

La mostra personale di Dhahak, dal titolo Vagabondage, ritorna sul tema del vagabondaggio. Attraverso una serie di scatti rubati, solitudini urbane, scene di emarginazione, la mostra è letteralmente un’esplorazione visiva tra centro e periferia, che isola l’istante, proprio come fa con le figure di contorno che qui incarnano il “terzo posto”1. Un anonimato che tende a sottrarsi allo sguardo e che restituisce la vita del vagabondaggio. I titoli “Easy rider”,” Tree of life”, “A kind of blue”, “Just do it” restituiscono un’istantanea, attraverso lo humour noir, dei corpi e delle marginalità di una Tunisia post-Rivoluzione.

Corpi politici

Per Durante tutto il festival, dedicato al tema della resistenza, il tema dei corpi è stato centrale. Corpi che resistono, anche contro loro stessi, nello spettacolo di danza Bon deuil!! di Feteh Khiari e Houcem Bouakroucha, con l’accompagnamento musicale di Ayoub Bouzidi. A volte sofferenti, altre complici, i giovani danzatori contemporanei cercano una via di fuga dal loro stato/Stato, portando in scena sia le aspirazioni rivoluzionarie che le delusioni collettive. Il corpo pensa/cura le frustrazioni, anche le più politiche. Tuttavia, nella piscina vuota del Nawaat dove si svolge lo spettacolo, i giovani tunisini non cadono nella disperazione. Trovano riparo nel cuore/coro. Un caustico ottimismo come allude già il titolo della performance.

È proprio l’ottimismo che permette a vari artisti di trovare uno spazio di espressione grazie al Festival, dopo i tagli del ministero degli Affari Culturali tunisino, e una situazione regionale che incide sulla vita artistica della città. Nel cortometraggio sperimentale Memories of concrete, il regista Yasser Jridi filma, all’interno del mercato centrale di Tunisi, il duro lavoro e le contraddizioni della vita quotidiana, oltre alle mancate promesse di democrazia. Anche qui si tratta di corpi in movimento, animati da spezzoni di dialoghi e immagini surreali.

Ma il Festival non poteva non tener conto della tragedia in corso nella Striscia di Gaza. È così che si è messo in luce il collettivo Giornate del cinema della resistenza. Creato in seguito all’annullamento delle Giornate Cinematografiche di Cartagine, la prassi del collettivo è organizzare proiezioni all’aperto. Le ultime si sono svolte in solidarietà con la Palestina sul muro dell’Istituto francese di Tunisi, oggi tappezzato di graffiti filo-palestinesi contro la colonizzazione e contro Macron. In occasione del Festival, il collettivo è stato invitato a presentare i film al piano interrato dell’edificio.

In programma c’era anche la proiezione di un’intervista con Ghassan Kanafani, scrittore e intellettuale, membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) scomparso nel 1972 a seguito di un attentato israeliano, che pone al centro della questione israelo-palestinese la ricerca di giustizia. Nell’intervista, Kanafani rifiuta il termine “conflitto”, scegliendo invece quello di “movimento di liberazione nazionale per i diritti”. È stato dato risalto anche al regista Hani Jawharieh (morto nel 1976 mentre filmava la resistenza), uno dei fondatori della Palestine Film Unit2. Nel film Scenes from the occupation in Gaza di Mustafa Abu Ali, girato nel 1973, gli abitanti di Gaza sono già i più temuti dall’esercito israeliano; infatti, dall’occupazione della Striscia nel 1967, sono stati oltre 10.000 i palestinesi gazawi fatti prigionieri, alcuni con condanne a 300 anni. Oltre alle umiliazioni quotidiane, il film mostra come fossero già all’epoca presenti dei piani di evacuazione della popolazione di Gaza verso il Sinai e in Cisgiordania. Infine, il docufilm Femmes palestiniennes (1973) della cineasta e fotografa libanese Jocelyne Saab permette di cogliere il fervore delle combattenti fedayn (o fida’iyat, in questo caso). In una scena del documentario, girato mezzo secolo fa, una di loro dice che sono anche “gli Stati Uniti e la Francia a farci la guerra”. L’emancipazione delle donne dall’occupazione, ma anche dal patriarcato, sarà raggiunta attraverso la lotta armata?

La memoria della resistenza non ha lasciato fuori gli Amazigh3. Nel suo film, nella sezione Realtà Virtuale, Les amazighs: Mémoires perdues (prodotto dal Nawaat), Mohamed Arbi Soualhia cerca di preservare la memoria collettiva degli Amazigh, la comunità berbera. Tra i villaggi di Zraoua e Tamezret, il regista documenta sia l’architettura fatta di tunnel scavati nella roccia che la lingua tamazight, di fronte all’esodo delle popolazioni indigene per ragioni politiche o climatiche.

La questione dei femminicidi

Il Festival è stato incentrato anche sulla condizione delle donne, tra violenza e resistenza. Il Nawaat si è aperto ricordando il femminicidio di massa a Gaza, che ha provocato oltre 6.500 vittime dall’inizio dell’offensiva, senza parlare della terribile situazione degli ospedali che ha impedito a 50.000 donne di partorire in condizioni dignitose.

Nabila Hamza, sociologa e membro del comitato esecutivo dell’Associazione delle donne democratiche tunisine (ATFD) sottolinea che, dal 2022, la violenza contro le donne si è quadruplicata, con 27 vittime assassinate. Anche se non esiste un equivalente preciso del termine “femminicidio” in arabo, l’ATFD ha lanciato ufficialmente un progetto di mappatura - La Tunisia delle donne uccise - che si propone di sensibilizzare sull’entità del problema del femminicidio. L’associazione ha inscenato un finto tribunale elencando le vittime “per onorare la memoria di quelle donne e raccontarne la storia”.

Come in ogni altro luogo, le forme di violenza contro le donne sono diverse. A commetterle sono soprattutto parenti, in particolare mariti o ex coniugi, fino ad arrivare alla cyber-violenza. Il fenomeno è soprattutto politico e sociale, e riguarda l’intera società. Perché, come sottolinea Nabila Hamza, l’assassinio è il risultato di un “continuum di violenza” inascoltato sia dai parenti che dalle autorità.

Tuttavia, come insiste Sondés Garbouj, psicologa specializzata in violenza di genere, esiste una legge del 2017 sulla violenza contro le donne. Accolta favorevolmente dalle organizzazioni internazionali, la legge non è ancora entrata in vigore per mancanza di risorse e scarso senso di responsabilità, sia da parte dei cittadini che dei funzionari pubblici. Ma se la legge vuole essere in linea con il femminismo di Stato dell’ex presidente Habib Bourguiba, non affronta però problemi sociali fondamentali come le disuguaglianze economiche, a cominciare dalle questioni di successione4.

Una storia straziante

Per la giornalista Rim Saoudi, “se la società è malata, è anche a causa di come viene raccontata dai mezzi di informazione” la questione di genere, relegata tutt’al più alla sezione di cronaca, e mai come una priorità da affrontare. Una tendenza aggravata dalla banalizzazione di espressioni inappropriate tipiche della cultura machista come “delitto d’onore” o “crimine passionale”, che sono prive di senso e non riflettono in alcun modo la natura possessiva e morbosa delle violenze.

Infine, dopo le dichiarazioni razziste e xenofobe del presidente Kaïs Saïed che hanno scatenato un’ondata di violenza contro le persone migranti subsahariane in Tunisia all’inizio del 2023, sono state ancora una volta le donne immigrate le più esposte. La testimonianza della camerunense Edwige è stato il momento più toccante del dibattito. Dopo aver subito più volte violenza durante il viaggio, perfino dalle guardie di frontiera algerine e tunisine, oggi subisce a Tunisi lo sfruttamento economico, oltre a quotidiani episodi di razzismo. Inoltre, per lei continuano le aggressioni sessuali, soprattutto da parte dei tassisti.

Il Festival ha visto in scena anche i corpi che danzano sulle sonorità eclettiche dell’artista tunisino Don Pac, con il suo primo album Fashion WeAk che si snoda tra echi tradizionali e frammenti blues, afro, hip-hop e reggae. È stata però la cantante Widad Mjama a rendere ancor più elettrica l’atmosfera sotto la pioggia battente. Ispirandosi alle grida tradizionali delle cheikhat5 della regione di Abda nel Marocco occidentale e ai loro canti ribelli del XII secolo, la pioniera del rap femminile marocchino ha presentato il suo nuovo brano Aita mon amour in coppia con il compositore tunisino Khalil Hentati (EPI), per scuotere corpo e anima, combattendo i pregiudizi di genere con la sua voce.

La lotta di Nawaat, portata avanti da un team di giornalisti/e impegnati/e e di volontari/e, per mantenere uno spazio di libertà ed espressione manterrà le sue promesse. Siamo certi che questa cultura della resistenza continuerà fino alla prossima estate, alla nuova edizione del Festival che creerà sicuramente lo spazio militante e artistico della gioventù tunisina.

A fine 2023, la rete di media indipendenti sul mondo arabo ha rilanciato le sue attività con un incontro di redattori e redattrici a Parigi con la partecipazione a un workshop sulla libertà d’espressione in Nord Africa. Per la prossima primavera è prevista una serie di pubblicazioni, da parte di tutti i media della rete, sulla salute mentale nella regione.

1Concetto proposto dal sociologo urbano Ray Oldenburg, nel suo libro The Great Good Place, che indica gli spazi informali dove si svolge la vita pubblica. [NdT].

2La “Palestine Film Unit” nacque alla fine degli anni ’60 con l’obiettivo di collocare la Palestina nella lotta anticoloniale globale. [NdT].

3Il termine amaziɣ è quello che attualmente viene preferito per designare se stessi da parte dei berberi del Nordafrica. [NdT].

4Attualmente la legge tunisina che regola le questioni di successione è ispirata al diritto islamico e prevede che, a pari grado di parentela, gli uomini ereditino il doppio delle donne salvo casi particolari. [NdT].

5Le cheikhat sono donne che cantano e danzano, ma indica anche le artiste che scelgono il mestiere di danzatrici popolari. Aita in arabo significa “grido”, “richiamo”, “invocazione”, ed è un genere musicale tradizionale diffuso in larghe zone del Marocco da nord a sud. [NdT].