Cultura

Khaled Khalifa, quando il dissenso è letterario

L’improvvisa scomparsa dell’autore siriano Khaled Khalifa ha scioccato il mondo letterario arabo e internazionale, la comunità accademica, quella degli appassionati e solidali alla causa siriana. Se ne va a soli 59 anni stroncato da un infarto uno dei più apprezzati scrittori arabi ed uno dei più significativi interpreti del dramma del suo popolo.

Khaled Khalifa
Foto Ap

Khaled Khalifa era uno scrittore diverso, a suo modo unico. Nonostante la straordinaria notorietà raggiunta a livello internazionale grazie all’ampia circolazione dei romanzi, capaci di penetrare in profondità e con elaborate impalcature narrative le complesse dinamiche della storia siriana passata e recente, interpretava il suo mestiere come un operaio o un artigiano, un fabbricante di storie per la gente. In sua compagnia si veniva calati in un tempo antico, catturati dalle parole di un cantastorie in una piazza gremita o attorno al tavolo di un’osteria illuminata da fioche luci e dallo scintillio degli occhi umidi dei presenti.

Mescolare tragico e comico

Khalifa sapeva mescolare tragico e comico, greve e ironico, perché la follia abbattutasi sulla sua terra, svuotata dei suoi abitanti, e trasformatasi in teatro di guerre altrui, non poteva essere adeguatamente trasmessa e tantomeno compresa senza l’obbligata alternanza di registri e toni. Lontano dai salotti dell’alta letteratura, dagli ambienti istituzionali e dalle maniere artefatte delle élite culturali, Khalifa non suggeriva la sensazione di sentirsi del tutto a suo agio su un palco o sotto la luce dei riflettori. Eppure, quando il palcoscenico lo calcava e prendeva parola, il tempo si fermava e ci trascinava nell’immaginifico viaggio nel microcosmo dei personaggi delle sue opere – spesso saghe familiari – e in quello del tempo reale, passato o presente, della Siria: la sua Damasco, città di elezione e la sua Aleppo, città della sua formazione, con i suoi villaggi e paesaggi, molti di questi, oggi, ridotti a luoghi della memoria.

Khaled era diverso. Era uno scrittore di umili origini mai tradite dai suoi scritti, dalla sua vita in letteratura, dal modo di relazionarsi con il pubblico, con colleghi e addetti ai lavori.

I rapporti umani intrattenuti costituivano il midollo osseo delle storie che narrava. La sua poetica era radicata nell’etica dello scambio con il lettore e nell’esigenza di trasferire conoscenze e verità sottaciute, sul presente e il passato del suo paese. Un paese vittima di racconti parziali o incompleti, dallo scoppio della rivolta del 2011, osservato solo attraverso il filtro della geopolitica, e a lungo ingabbiato nel cieco binarismo: regime di Asad/gruppi jihadisti. E in mezzo niente. In mezzo invece c’era una buona fetta di popolo, che come altrove nel mondo arabo rivendicava diritti, libertà d’espressione, giustizia sociale, una nuova vita politica dopo aver visto per oltre quarant’anni una sola famiglia al potere. Rivendicava il diritto a riempire di nuovi volti e voci quello che l’oppositore politico Riad al-Turk definiva il “regno del silenzio”, di cui lo stesso Khalifa ritrarrà bene i connotati nel suo quarto libro Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città (2013), che ripercorre il trentennio di potere ba’athista sotto Asad padre.

Un “terzo spazio”

Un “terzo spazio” trascurato dai racconti dominanti dei media, indistintamente relegato a strumento della politica estera delle forze anti-regime. Uno spazio abitato dalla maggior parte degli intellettuali costretti all’esilio, molti dei quali già protagonisti, nei primi anni Duemila, di una precedente ondata di proteste nota come la Primavera di Damasco.

Ma Khaled Khalifa era diverso. Non si era arreso, in quanto voce di dissenso, all’idea ineluttabile dell’esilio. Aveva scelto di tornare a vivere a Damasco, perché considerava la Siria il suo paese, che mai avrebbe abbandonato, come non si abbandona una persona cara gravemente ferita. E dall’interno ha continuato a narrarla, nonostante la censura imposta agli scrittori come lui invisi al regime, il pericolo rappresentato da ogni parola sospetta. Conosceva bene la censura. L’aveva sperimentata già all’epoca degli studi universitari ad Aleppo quando la rivista Aleph da lui fondata venne chiusa dal regime. E poi i suoi libri, colmi di espliciti riferimenti a temi tabù ed eventi storici rimossi dal discorso pubblico nazionale, come il massacro di Hama del 1982.

Una delle sue più ricorrenti battute, accompagnata dalla sua fragorosa risata, era che in Siria si conoscevano personalmente gli impiegati dell’ufficio della censura, a cui con toni confidenziali si chiedeva il motivo di quell’atto. Per le sue posizioni, nel 2012, le forze di polizia gli procurarono la frattura di un braccio.

Nel 2016 tenne in Italia un ciclo di presentazioni del suo più noto romanzo L’elogio dell’odio, edito da Bompiani nel 2011 ma pubblicato nel 2006, in cui si ricostruisce lo sfondo delle tensioni sociali presenti in Siria sin dagli anni Ottanta e la crescita dei movimenti fondamentalisti. Chi aveva letto Elogio dell’odio non sarebbe rimasto troppo stupito dai successivi rivolgimenti. In quei giorni l’interesse per la vicenda siriana era notevole.

Khalifa non perdeva occasione di denunciare i crimini del regime e di Daesh, ma anche il vuoto dei proclami politici sulla Siria e la retorica dei diritti umani davanti alla morte e all’esodo di migliaia di suoi connazionali. La guerra civile in Siria infuriava ormai da anni, Aleppo era già stata distrutta, Daesh controllava buona parte del Paese e nel Nord-Est si era formata un’entità autonoma governata dalle forze curde. Il fronte dell’opposizione ad Asad si era sgretolato da tempo; nonostante ciò, perduravano le mobilitazioni popolari. La Siria era ormai controllata da forze che parlavano lingue sconosciute ai numerosi posti di blocco presenti nel Paese.

Come poter ancora scrivere dopo Aleppo

Come raccontava Khalifa, l’arabo locale si confondeva al russo, al persiano, al dialetto libanese, al turco; mentre altrove imperversava il suono delle lingue dei miliziani islamisti provenienti da ogni dove. Una situazione paradossale che fa da sfondo al successivo romanzo, Morire è un mestiere difficile, in cui persino la morte e la sepoltura dei propri cari diventa un’ardua impresa, e in cui ritrae la surreale frammentazione del territorio e della vita siriana in guerra.

Nel suo ultimo libro disponibile in italiano Nessuno ha pregato per loro Khalifa compie un ulteriore scavo nella storia siriana ricostruendo la vita di Aleppo di inizio ‘900 e il rapporto tra spazio urbano e rurale. Nel romanzo l’alluvione che annienta il villaggio di Hosh Hanna, trasformerà la vita dei due protagonisti superstiti, che assurgeranno a voci contro l’oblio e la perdita di un mondo.

Khalifa in un’intervista recente riprendeva l’annosa questione del ruolo della letteratura dinanzi all’orrore della perdita. Come misurarsi con il fardello della cancellazione del proprio paese, del tempo e dello spazio della propria esistenza? Quanto a lungo avrebbe potuto la scrittura fare da scudo contro la minaccia dell’abisso? La domanda “come poter ancora scrivere dopo Aleppo”, che richiama la sentenza di Adorno – scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico – resterà un doloroso interrogativo lasciato in eredità da una voce unica della narrativa araba di oggi.

SCHEDA BIO

Nato nel 1964 nella provincia di Aleppo, Khaled Khalifa è autore di sette romanzi e diverse sceneggiature per il cinema e la televisione. In italiano sono stati pubblicati da Bompiani L’elogio dell’odio (2011, trad. di F. Prevedello), Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città (2018, trad. di M. Avino), Morire è un mestiere difficile (2019, trad. di M. Avino), Nessuno ha pregato per loro (2021, trad. di E. Chiti).