Il ruolo dell’Egitto nella crisi di Gaza

L’ingresso a Gaza, il 21 ottobre scorso, dei primi convogli umanitari conferma che l’Egitto è in prima linea nello scontro che contrappone Israele ad Hamas dal 7 ottobre. Il presidente Al Sisi deve muoversi tra le pressioni israeliane e gli alleati statunitensi che sostengono l’accoglienza egiziana dei rifugiati palestinesi in Sinai; la difesa della sovranità nazionale del paese e il sostegno della sua popolazione ai palestinesi. A due mesi dalle elezioni presidenziali, la crisi in corso potrebbe facilitare la sua rielezione.

Passaggio di un convoglio umanitario verso Gaza al valico di frontiera egiziano di Rafah, 21 ottobre 2023.
Mohammed Assad/AFP

In un intervento seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il Primo ministro israeliano Benjamin Nethanyahu invitava i suoi concittadini alla prudenza: le voci secondo le quali i servizi segreti israeliani sarebbero stati messi in guardia dagli omologhi egiziani sull’imminenza di un’operazione di larga scala da Gaza erano, a suo avviso, infondate. Vere o false che siano, però, queste voci sottolineano il ruolo della cooperazione in termini di sicurezza bilaterale tra i due paesi, e ne mettono in risalto i limiti.

Innegabilmente, l’offensiva di Hamas può essere definita un successo tattico in virtù del suo “effetto sorpresa”. Il braccio armato del partito islamista palestinese ha agito in un giorno di riposo per gli israeliani, e nel momento in cui la maggior parte delle truppe militari erano concentrate negli altri territori palestinesi occupati (West Bank) e in particolare a Gerusalemme Est, a Jenin e a Nablus, entrambe in Cisgiordania. Questo attacco ha acceso prepotentemente la luce sulle defaillance dei servizi segreti israeliani, da sempre ritenuti “infallibili”. E richiede oggi una riflessione sui rapporti di forza esistenti tra i principali protagonisti delle negoziazioni per un cessate il fuoco di lungo periodo nella Striscia di Gaza, che interagiscono da molti anni: i servizi israeliani, quelli egiziani e naturalmente Hamas.

L’impasse dei negoziati per un cessate il fuoco

Dopo la vittoria alle elezioni politiche di Hamas nel 2006, e la sua presa di controllo della Striscia di Gaza l’anno seguente, l’enclave palestinese, posta sotto assedio israeliano da allora, è stata teatro di numerose guerre, in particolare nel 2008/2009, nel 2012, nel 2014 e ancora nel 2021, oltre che di quotidiani cicli di violenza. In modo quasi abituale, si sono scambiati lanci di razzi da una parte e dall’altra, che hanno portato a negoziati spesso risolti nell’arco di 24 ore, ma rilevatori di uno status quo molto fragile. La sequenza dei fatti è quasi un copione già scritto: questi negoziati – necessariamente indiretti – tra il partito islamista palestinese e il governo israeliano si svolgono con l’intermediazione dei servizi di intelligence egiziani, incaricati di gestire il “dossier palestinese” sin dai tempi della Seconda intifada dall’allora presidente Hosni Moubarak (in carica fino al 2011).

Le negoziazioni per i cessate il fuoco s’inscrivono in una gestione di breve periodo del conflitto tra Hamas e le autorità israeliane. I servizi segreti egiziani, profondi conoscitori della società di Gaza1, svolgono qui un ruolo di partner (sharīk) dal momento che la “pacificazione” a Gaza è presentata dal Cairo come una conditio sine qua non per la stabilità nella Penisola del Sinai.

La sicurezza nazionale egiziana è quindi direttamente legata all’evoluzione delle condizioni politiche e di sicurezza nella vicina enclave palestinese. L’attuale regime di Al Sisi ha presentato questo legame di causa-effetto in modo esplicito, esigendo dal partito islamista palestinese cooperazione nella “lotta contro il terrorismo” rispetto ai piccoli gruppi salafiti-jihadisti che operano a Gaza. In questi anni, la cooperazione di sicurezza con Hamas, ma anche con le autorità israeliane, sembrava stabile2. In cambio, Hamas ha sempre chiesto la rimozione dell’assedio per permettere la mobilità dei palestinesi di Gaza, ma anche la costruzione di infrastrutture e l’estensione della zona di pesca. Il partito islamista ha sempre rivendicato anche la liberazione delle migliaia di prigionieri politici detenuti in Israele. Nel 2011, lo scambio di prigionieri palestinesi in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, era stato attribuito all’intelligence egiziana, nonostante la lunghezza del negoziato (durato dal 2006 al 2011).

Anche se i servizi egiziani hanno giocato un ruolo centrale nelle relazioni tra Israele e Hamas, bisogna tuttavia riconoscere che il processo è in fase di stallo da qualche anno. Dopo l’ennesima offensiva militare israeliana del 2021, particolarmente devastante, Hamas – la cui popolarità nella Striscia di Gaza si è incrinata, e che si trova pressata da una popolazione disperata per la situazione umanitaria – ha richiesto un’accelerazione soprattutto per alleggerire la morsa dell’assedio. Invano, perché la politica interna israeliana ha preso il sopravvento e ha avuto la precedenza sui negoziati.

Divergenze di interessi tra israeliani ed egiziani

La cooperazione di sicurezza di lungo corso tra Israele ed Egitto, e le discussioni bilateriali, non hanno mai scalfito la diffidenza tra le parti. Ricordiamo che se il regime egiziano non considera Hamas una “organizzazione terrorista”, l’assimila al movimento dei Fratelli Musulmani, che affronta una repressione pressoché costante dall’epoca di Gamal Abdel Nasser (1956-1970), è acuita dal 2013 e dalla salita al potere di Al Sisi. Non esistono quindi relazioni diplomatiche ufficiali, cosa che spiega almeno in parte il ricorso nei negoziati a ufficiali dei servizi piuttosto che a figure diplomatiche.

Allo stesso modo, se le relazioni israelo-egiziane non sono mai state così cordiali come sotto il regime di Al Sisi, sembra che si sia creata una certa distanza dopo l’avvio del processo di normalizzazione tra Israele e alcuni paesi arabi3. Senza poterlo certamente dire apertamente, il regime teme che questi accordi possano relativizzare il ruolo dell’Egitto e le sue aspirazioni di leadership nella regione. Per quanto riguarda i negoziati per il cessate il fuoco, l’episodio dell’operazione “Diluvio di Al-Aqsa” del 7 ottobre testimonia questa relativa messa in disparte, con la sospensione dei contatti con i servizi segreti egiziani.

Il Qatar, coinvolto da tempo nei negoziati per il cessate il fuoco e che ospita i quadri politici di Hamas, è stato sollecitato dalle amministrazioni israeliana e statunitense per esercitare una mediazione, soprattutto per la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri israeliani. Parallelamente, la Turchia e l’Arabia Saudita si sono dette pronte a giocare un ruolo di intermediazione. Questo si spiega anche in ragione della posizione ambivalente del Cairo, direttamente coinvolto nelle discussioni sul cessate il fuoco. In effetti, la rimozione dell’assedio sulla Striscia di Gaza non è mai stata presa in considerazione/considerata dalle autorità israeliane se non attraverso la frontiera tra Gaza e l’Egitto, cosa che ha esacerbato i rapporti di forza tra negoziatori israeliani ed egiziani e contribuito allo stallo fra le parti.

La questione di uno scambio di terre o della cessione di una parte del Sinai per permettere un allargamento della Striscia di Gaza, è un tema ricorrente che è riemerso con prepotenza dopo l’offensiva israeliana e lo spostamento forzato di oltre 1milione di gazawi dal nord verso il sud della Striscia.

Già evocata durante gli anni di Mubarak, l’idea di sviluppare il nord del Sinai per trasformarlo in una zona industriale e creare un mercato per l’impiego dei gazawi era stata presentata anche al momento della pubblicazione della dimensione politica de “l’accordo del secolo” nel gennaio del 2020, concluso dagli Stati Uniti sotto la presidenza di Donald Trump. Il regime egiziano si è affrettato a smentire questo progetto, e non smette di ribadire in questi giorni il suo categorico rifiuto di cedere una parte del Sinai, in nome dell’integrità territoriale del paese. Di contro, dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza, molte tribù beduine influenti nella penisola si sono dichiarate a favore di un’accoglienza temporanea di persone sfollate palestinesi.

In questo contesto, si è sviluppato un braccio di ferro tra l’Egitto e Israele (sostenuto dall’amministrazione Usa), come testimonia lo stop alle esportazioni di gas israeliano verso il territorio egiziano dopo l’inizio dell’offensiva militare di Tel Aviv4. L’Egitto per il momento resta sulle sue posizioni: si rifiuta di aprire il valico di Rafah per permettere l’evacuazione dei palestinesi, e chiede invece la costituzione di un corridoio umanitario per il trasporto di aiuti nella Striscia di Gaza. Quindi, una circolazione a senso unico.

Dietro il dossier Gaza, il Sinai

Oltre alla delicata questione dei tunnel per il contrabbando costruiti tra l’Egitto e Gaza, e per la gran parte distrutti dall’esercito egiziano a partire dal 2013, il timore dei successivi regimi egiziani che gli abitanti della vicina enclave si riversassero sul loro territorio si è concretizzata almeno una volta dall’inizio dell’assedio, un episodio vissuto come un elettroshock al Cairo. Nel gennaio del 2008 migliaia di palestinesi avevano “rotto” l’assedio forzando la frontiera tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, riuscendo a penetrare in territorio egiziano, dove erano rimasti più giorni. Le autorità egiziani si erano trovate, all’epoca, travolte dagli eventi.

Ma la minaccia costituita dalla Striscia di Gaza per il Cairo è anche frutto di una strumentalizzazione che permette ad Al Sisi di giustificare la militarizzazione sempre crescente su quella parte della penisola del Sinai.

L’utilizzo da parte del regime egiziano di un concetto così condiviso come quello della “sicurezza nazionale” permette di giustificare tutto un insieme di misure securitarie. Le politiche di securitizzazione della penisola del Sinai hanno quindi provocato una maggiore riconfigurazione territoriale a discapito delle popolazioni civili, e consentito la costruzione di infrastrutture gestite dall’esercito egiziano. Nell’ottobre del 2014, nel nord del Sinai fu dichiarato lo “stato di emergenza”: l’area fu resa “zona militare” e le cose da allora non sono più cambiate. Di fatto inaccessibile per i civili, sul Sinai è oggi molto difficile avere informazioni: di tanto in tanto si viene a sapere che l’esercito ha condotto operazioni di distruzione massicce di abitazioni e negozi. Un rapporto di Human Right Watch (HRW) pubblicato nel 2019 denuncia i crimini di guerra commessi dalle forze armate egiziane5. Inoltre, la creazione di una “zona cuscinetto” lunga diversi chilometri alla frontiera con la Striscia di Gaza ha causato sfollamenti forzati, ma anche arresti arbitrari e uccisioni tra giugno 2013 e aprile 2018.

Una campagna elettorale “parassita”

Zona militare chiusa e ormai desertificata, il nord del Sinai è apparsa agli occhi degli israeliani come un’area utile alla costruzione di un campo profughi destinato ad accogliere i palestinesi provenienti dalla Striscia di Gaza a tempo indeterminato. Sin dai primi giorni del conflitto, gli aiuti umanitari di diversi paesi – tra cui la Giordania e la Turchia – sono arrivati nella città egiziana di Al Arish, per istituire un corridoio umanitario verso l’enclave palestinese.

La deportazione di massa di palestinesi di Gaza nel Sinai, che sarebbe considerata una “nuova Nakba”, sembra inaccettabile per gli egiziani. Il presidente Al Sisi ha suggerito agli israeliani di trasferirli, piuttosto, nel deserto del Negev6. Ma la costruzione di un campo profughi al confine con Gaza potrebbe essere presa in considerazione, a condizione che sia a titolo provvisorio in attesa del ritorno dei palestinesi a Gaza o della loro distribuzione nei paesi vicini. Una soluzione a cui in pochi credono, ma che permetterebbe di salvare le apparenze: pur comportando dei rischi per le autorità egiziane, potrebbe rivelarsi anche vantaggiosa. Il regime si trova infatti in una posizione delicata, notevolmente indebolito da una situazione economica e finanziaria disastrosa.

Le elezioni presidenziali egiziane, previste per il prossimo dicembre, sullo sfondo della collera diffusa per un’inflazione galoppante e una crisi del debito senza precedenti, rendono molto debole il potere di Al Sisi. La popolazione egiziana è molto vicina alla causa palestinese, e ha iniziato a mobilitarsi in un contesto di repressione nel quale le manifestazioni sono vietate. Il potere di Al Sisi è quindi in pericolo su molti fronti, ma potrebbe giocare la sua carta vincente ponendosi come garante della sovranità nazionale. La situazione, quindi, potrebbe permettere di serrare i ranghi intorno all’esercito e al capo di Stato in un panorama regionale instabile; di far dimenticare – almeno temporaneamente – i fallimenti e gli errori commessi dal regime, e di spostare l’attenzione della comunità internazionale fino alla rielezione di Al Sisi.

1L’Egitto ha amministrato la Striscia di Gaza dal 1948 al 1967 e gli agenti dell’intelligence la seguono da molto tempo.

2Dopo l’operazione “Aquila” del 2012 (concordata con Israele), il primo dispiegamento massivo di truppe egiziane nel Sinai dopo la guerra del 1973, la collaborazione in termini di sicurezza tra Tel Aviv e Il Cairo nella regione si è progressivamente intensificata, anche durante la breve presidenz di Mohammed Morsi (2012-2013).

3Nel 2020, sono stati firmati degli accordi di normalizzazione tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein. Prima dell’offensiva di Hamas, il 7 ottobre scorso, erano in corso negoziati per la normalizzazione tra Tel Aviv e l’Arabia Saudita, sotto l’egida degli Stati Uniti.

4Si veda «Knock-on effects for Egypt as Israel halts production of natural gas at Tamar field, deliveries via EMG pipeline», Mada Masr, 12 ottobre 2023.

5Si veda «Égypte : Graves abus et crimes de guerre dans le Sinaï Nord», HRW, 28 maggio 2019.

6«Israel-Palestine war: Sisi says Israel can transfer Palestinians in Gaza to Negev desert», Middle East Eye, 18 ottobre 2023.