Primavere arabe

Sovvertire il fallimento del presente. La rivoluzione egiziana tra esperienza collettiva e memoricidio

In occasione dell’anniversario dell’inizio della rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011, ripubblichiamo un articolo firmato da Gennaro Gervasio, docente ed esperto di movimenti sociali e di protesta nel mondo arabo e cofondatore della piattaforma OrientXXI Italia. Un’analisi approfondita che fa il punto su ciò che resta dell’utopia di piazza Tahrir alla luce dei profondi cambiamenti della società egiziana nonostante la rivolta si sia scontrata contro il muro della contro-rivoluzione.

Una coppia di manifestanti mostra dei cartelli di protesta in piazza Tahrir, 1 febbraio 2011.
Essam Sharaf/Wikimedia Commons

Tre anni fa, in occasione del decimo anniversario della rivolta che poi sarebbe diventata la “rivoluzione di gennaio” del 2011, si sono moltiplicati scritti e dibattiti online e qualche volta in presenza per “celebrare” il decennale. A dare una scorsa veloce ai suddetti interventi, e senza alcuna pretesa di precisione statistica, sembrano prevalere due modi di sentire, due parole: nostalgia e fallimento.

Sono entrambi sentimenti diffusi non solo tra i milioni di egiziane ed egiziani che hanno vissuto in prima persona i giorni e le notti più memorabili della propria vita (almeno finora), ma anche per moltissimi che dall’interno o dall’esterno del paese, hanno “tifato rivolta”, accompagnando idealmente o fisicamente il percorso dei rivoluzionari.

Le immagini di piazza Tahrir occupata dai manifestanti e dalle loro tende nel 2011 l’avevano resa un’icona libertaria che aveva superato velocemente i confini egiziani, imponendosi, almeno per diciotto giorni, come una possibilità, forse utopica, non solo di abbattere il regime del vecchio dittatore Hosni Mubarak, al potere dal 1981, ma anche di ribaltare i rapporti sociali, economici, di genere, nel paese del Nilo. Erano forse aspettative troppo alte. Eppure, in quei giorni, così come nei mesi successivi, l’impossibile, l’impronunciabile era apparso all’orizzonte e la realizzazione dello slogan “pane, libertà e giustizia sociale”, reso noto globalmente anche da un famoso brano di Rami Essam1, era sembrata apparire un obiettivo forse non immediato ma nemmeno chimerico.

Più che ripercorrere questo decennio in dettaglio, però, è forse opportuno soffermarsi quanto meno su qualche giuntura chiave di questo processo storico e politico che ha visto le speranze di cambiamento infrangersi contro il muro della contro-rivoluzione, allo scopo di cercare cosa è rimasto dell’utopia di piazza Tahrir.

Le ragioni di una sconfitta

Nel tentativo di spiegare le cause di quella che appare una sconfitta della Rivoluzione, anche i più acuti analisti, come Gianni Del Panta, cui si deve l’unica monografia scientifica2 in italiano sul tema, o Asef Bayat, autore di quello che a oggi resta uno dei saggi più convincenti3 sulle rivolte arabe, hanno puntato il dito sui limiti e le responsabilità dei manifestanti, spesso alla loro prima esperienza politica. Bayat parla apertamente di mancanza di una vera visione rivoluzionaria dei “giovani di piazza Tahrir”.

È innegabile che, dopo l’euforia dei diciotto giorni, dopo il “momento rivoluzionario” in cui tutto sembrava possibile, si erano rapidamente palesati i segnali di una strisciante contro-rivoluzione, nata dal matrimonio d’interessi tra l’élite militare, che aveva “scaricato” il vecchio rais per salvare il proprio ruolo nel processo di transizione, e i Fratelli Musulmani, che erano saltati sul carro di un movimento rivoluzionario che non solo non avevano innescato, ma che anzi, avevano inizialmente avversato.

Tutte le forze che erano scese nelle strade e piazze del paese in nome del cambiamento – studenti, lavoratori, gruppi politici già organizzati e semplici cittadini che per la prima volta scoprivano il protagonismo politico e con esso il valore della lotta – si sono dovute confrontare con la suddetta alleanza e con le mille voci della propaganda pseudoliberale, reazionaria, conservatrice, che, d’intesa con l’esercito e i suoi alleati temporanei islamisti, li spingeva ad “abbandonare le piazze” e così a lasciar fare alla vecchia e nuova élite, il cui obiettivo era quello di rallentare e canalizzare il processo di cambiamento.

Molte osservazioni critiche sono state già fatte e si potrebbero ancora fare sulle difficoltà ed errori del movimento delle piazze nel concretizzare e quindi imporre un programma rivoluzionario. Ma ciò, oltre a essere alquanto ingiusto rispetto a una generazione cresciuta senza alcuna dialettica democratica, dimostrerebbe anche una superficiale conoscenza della storia contemporanea egiziana, dove le ondate rivoluzionarie – dal 1919 in poi – hanno prodotto effetti e conseguenze, non sempre desiderati, nel medio e lungo periodo. Certamente, la precaria alleanza tra la casta militare, depositaria dei meccanismi del potere dal 1952 e del cosiddetto “stato profondo” (al-dawla al-‘amiqa), e l’organizzazione politica islamica che faticava a trovare le misure di quel sistema (nizām) che l’aveva tenuta ai margini per oltre ottanta anni, era destinata a prendere in mezzo proprio i protagonisti della Rivoluzione.

Nel 2012, la risicatissima e contestata elezione a presidente della repubblica di Muhammad Morsi, un esponente non di primo piano della Fratellanza, sembrava preconizzare una ricomposizione pacifica del suddetto conflitto con la Fratellanza al governo e l’esercito dietro le quinte. Tuttavia, gli errori, più o meno gravi, degli islamisti, soprattutto nell’allargare la propria base di consenso e ridurre la polarizzazione socio-politica nel paese, e l’“allergia” o “antica sfiducia” di parte del campo politico e culturale egiziano nei confronti dell’Islam politico, hanno dato inizio alla crisi che avrebbe portato al fallimento di una già difficile transizione verso la democrazia.

“Abbasso, abbasso il governo dei militari!”

Sicuramente, se c’è stato un vero errore, o grave peccato d’ingenuità da parte del campo rivoluzionario, è stato quello di partecipare al fianco di forze apertamente contro-rivoluzionarie al “movimento del 30 giugno” che avrebbe portato alla deposizione di Morsi con un colpo di stato guidato dal capo dell’esercito e attuale presidente al-Sisi il 3 luglio 2013.

Se c’è stato un fallimento, allora le cause di quest’ultimo vanno senz’altro cercate nel non avere voluto o saputo riconoscere i veri nemici del cambiamento, in nome di una convergenza anti-islamista minima e superficiale. Eppure, per capire cosa resta dei sogni del 2011, bisogna partire proprio da quella fatidica estate del 2013, nella quale l’esercito si è ripreso le piazze che solo poco più di un anno prima avevano invocato la caduta del governo provvisorio militare adottando lo slogan, oramai proibito yasqot yasqot hokm el-‘askar (“Abbasso, abbasso il governo dei militari!”).

L’incapacità, che a volte è stata di vera e propria complicità, del campo “progressista”, ivi inclusa buona parte della sinistra4, di denunciare i massacri dei manifestanti pro-Morsi di cui l’esercito si è macchiato nell’estate del 2013, il tentativo tanto grottesco quanto goffo di difendere la matrice rivoluzionaria di un evento squisitamente restauratore e liberticida, restano gli errori più gravi dei giovani e meno giovani rivoluzionari d’Egitto. Se di colpa si può parlare, è stata quella di avere consegnato i loro sogni e le loro speranze a quel groviglio opaco di poteri, con a capo il nuovo “faraone” al-Sisi, che li avrebbe poi divorati.

Gli arresti arbitrari, le sparizioni forzate, gli atti di giustizia sommaria, il ritorno della tortura come pratica di stato, risalgono proprio a quella estate del 2013 e non si può fare a meno di notare che alcuni – egiziani e non – di coloro che oggi s’indignano giustamente per la carcerazione illegale dello studente Patrick Zaki dell’università di Bologna, o che chiedono verità e giustizia per Giulio Regeni5, in quei giorni tragici difesero l’operato di quel regime che aveva avuto il suo battesimo nel sangue di centinaia di civili egiziani.

“Non siete ancora stati sconfitti”

Dal colpo di stato a oggi, la macchina della repressione, alimentata dalla paranoia basata sulla consapevolezza che, contrariamente a ciò che pensava la corte del vecchio Mubarak, il popolo d’Egitto è capace di ribellarsi e di rovesciare i tiranni, ha rinchiuso nelle carceri6 circa sessantamila cittadine e cittadini per presunte minacce alla sicurezza dello stato, facendone sparire o costringendone all’esilio moltissimi altri, servendosi dell’abusato slogan della “lotta al terrorismo”.

In un tale quadro, con le piazze svuotate di politica, gli storici caffè chiusi, ben prima dell’attuale crisi pandemica, perché considerati ritrovo di pericolosi sovversivi, appare naturale che nostalgia e senso di fallimento possano avere la meglio tra i protagonisti della stagione rivoluzionaria, soprattutto se si considera che alcuni di essi, come il noto attivista laico ‘Alaa ‘Abd al-Fattah, sono in prigione da anni, e molti altri sono stati costretti all’esilio7.

Oltre a muovere una vera e propria guerra al dissenso8, sia esso reale e organizzato o soltanto virtuale, il regime di al-Sisi, che continua a godere del complice supporto del governo del nostro paese e dell’Europa in nome di una sempre meno dimostrabile necessità strategica, si è impegnato fin da subito nel tentativo di cancellare o inquinare la memoria collettiva della Rivoluzione. Nella narrazione contro-rivoluzionaria, diffusa da numerosi corifei nei media asserviti al regime, vengono esaltati il “movimento del 30 giugno” e il ruolo dell’esercito, nel contempo riducendo la grande rivolta popolare a un evento generatore di caos e responsabile dell’ascesa al governo dei Fratelli Musulmani.

Di fronte a questo tentativo di “memoricidio” di massa, il ricordo vivo della vittoria, più che il rimpianto, la nostalgia o il senso di fallimento, è l’unica arma che può soccorrere le centinaia di migliaia di cittadine e cittadini che erano scesi nelle strade e nelle piazze in nome di ideali universali di libertà e giustizia sociale, e soprattutto tutti coloro che pagano il prezzo di avere non solo creduto nella Rivoluzione ma di averla vissuta, fino alla sua involuzione autoritaria e liberticida.

In un bel saggio9, la studiosa e attivista egiziana Alia Mossallam, residente a Berlino dal 2017, propone, fin dal titolo, l’apparente ossimoro di “temporaneità permanente” come possibile strada per riappropriarsi con orgoglio della memoria collettiva e singolare della Rivoluzione, come tentativo, per citare un vecchio lavoro di Slavoj Žižek10, di sovvertire l’apparente fallimento del presente. E non si può non sottolineare, per comprendere quanto questa memoria sia fondamentale per trasmettere a chi sta vivendo la realtà della contro-rivoluzione fuori e dentro le prigioni d’Egitto, il monito con cui Alia Mossallam conclude il suo scritto, dopo aver citato una lettera ricevuta dal carcere da ‘Alaa ‘Abd al-Fattah: “Il momento della sconfitta non può durare per sempre, mentre lotta e possibilità di cambiamento continueranno”11.