Gaza 2023

I palestinesi di Israele, una minoranza sotto pressione

I quasi 2 milioni di cittadini palestinesi di Israele subiscono pressioni sempre più forti da parte del governo. Gli attacchi del 7 ottobre hanno portato a ridefinire la loro posizione nei confronti della maggioranza ebraica, mettendo in discussione le diverse strategie in difesa dei loro diritti di popolo autoctono di fronte a uno Stato coloniale.

Palestinesi israeliani sventolano bandiere palestinesi durante una manifestazione in occasione della Giornata della Terra a Sakhnin, nel nord di Israele, il 30 marzo 2023
Ahmad Gharabli/AFP

La copertura mediatica della rappresaglia israeliana per l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 si è giustamente concentrata sulla difficile situazione dei civili di Gaza, sottoposti a bombardamenti di fronte ai quali si resta senza parole. La logica della vendetta e della disumanizzazione dei palestinesi messa in atto dall’offensiva israeliana tocca, però, anche i civili fuori dalla Striscia di Gaza. Una situazione che ha prodotto un livello di violenza inaudita sia da parte dei coloni che delle forze armate in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, colpendo anche, con minor frequenza, i cosiddetti palestinesi del “1948” o “dell’interno”, ossia coloro che possiedono la cittadinanza israeliana – comunemente indicati come “arabo israeliani” e che costituiscono circa il 20% della popolazione israeliana.

Lo status di questa popolazione – come il rapporto complesso con Israele – è stato a lungo dibattuto, soprattutto durante le elezioni. In particolare, è stato al centro dei recenti vicende costituzionali quando Israele ha cambiato la Legge Fondamentale “Israele Stato-Nazione del popolo ebraico” per enfatizzare il carattere ebraico dello Stato, nel 2018. La fase iniziata con il 7 ottobre ha segnato una nuova tappa, caratterizzata da una crescente pressione sui palestinesi dell’interno, ai quali viene chiesto di dimostrare maggiore lealtà nei confronti dello Stato di Israele. Da allora, infatti, qualsiasi dichiarazione o azione di solidarietà con i palestinesi di Gaza viene duramente repressa, come riportato in un recente rapporto di Adalah, Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, con sede a Haifa. Nel solo mese di ottobre, sono state almeno 161 le persone indagate, convocate dalla polizia, arrestate o incriminate. Gli arresti sono avvenuti spesso durante le manifestazioni di solidarietà con Gaza, come nel caso di Umm al-Fahm1 il 19 ottobre 2023, dove sono stati arrestati 12 manifestanti. Inoltre, sono 29 le persone incriminate sulla base della legge israeliana contro il terrorismo adottata nel 2016, che comporta pesanti pene per chi istiga alla violenza, per gli appartenenti ad organizzazioni terroristiche o per atti che possono attentare alla sicurezza nazionale.

Una crescente repressione

Secondo il sito web Arabs 48, tra il 7 e il 27 ottobre, sono stati 99 gli studenti arabi perseguiti nelle università e nei college israeliani. Di questi, 48 sono stati sospesi dagli studi. L’attivista per i diritti umani Mai Younis, che vive nel villaggio di Ara, è stata accusata di incitamento e solidarietà con Hamas. La cantante Dalal Abu Amneh è ora agli arresti domiciliari per aver postato sulla sua pagina Facebook la frase “non c’è vincitore tranne Dio”. L’attrice Maisa Abd Elhadi è stata accusata per un breve post sui social in cui cantava “Let’s go Berlin-style”, un riferimento alla distruzione del Muro di Berlino.

Con l’attuale campagna di intimidazione e persecuzione contro i palestinesi è stata annunciata anche l’introduzione di nuove misure di legge. Alla Knesset è stata presentata, e adottata in prima lettura, una proposta per modificare la legge antiterrorismo. L’emendamento presentato mira a criminalizzare la visualizzazione di contenuti multimediali definiti terroristici, con una pena fino a un anno di reclusione.

Di fronte alla violenza delle immagini del 7 ottobre, i palestinesi dell’interno si trovano in una situazione complessa, soggetti a ordini contradditori. Ognuno nel proprio intimo, ma con l’intera collettività, sembra cercare un difficile equilibrio tra il mantenere buoni rapporti con i cittadini ebrei e la solidarietà con i palestinesi di Gaza. Da questo punto di vista, si possono individuare tre diverse posizioni, che sono avvisaglie della difficoltà di trovare una propria collocazione.

Una scelta pragmatica

La prima è rappresentata dal partito islamista guidato da Mansour Abbas, leader del partito arabo-israeliano Lista Araba Unita. Convinto da tempo della necessità di mediare con Israele, il leader di Ra’am, ha quindi preferito adottare un approccio pragmatico impegnandosi nella politica israeliana, anche se ciò comporta la partecipazione a un governo di coalizione. Poco importa se sia un governo di destra o sinistra, ciò che conta è la possibilità di influenzarne le decisioni politiche, al fine di migliorare la situazione dei palestinesi del 1948.

Due giorni dopo l’attacco di Hamas, Mansour Abbas si è rivolto alla leadership di Hamas per chiedere il rilascio di tutti gli ostaggi. “Faccio appello ai leader delle fazioni palestinesi a Gaza per il rilascio di tutti i prigionieri. I valori islamici ci comandano di non imprigionare donne, bimbi e anziani”.

Nonostante la presa di posizione, la scelta del pragmatismo si trova probabilmente in una fase di stallo dopo il 7 ottobre. In effetti, le pubbliche manifestazioni di razzismo da parte dei partiti israeliani, oltre alla diffidenza verso i voti palestinesi, rendono difficile da immaginare un nuovo “governo del cambiamento” a guida dei due leader Naftali Bennett e Yair Lapid, che hanno integrato nella compagine di governo il movimento di Mansour Abbas.

Unire la sinistra

La seconda posizione è rappresentata soprattutto dal Partito comunista d’Israele (Maki) e i suoi alleati, che considerano il conflitto in corso a Gaza come un’estensione dello scontro interno tra l’ultradestra rappresentata dall’attuale governo di Benjamin Netanyahu e il Movimento Democratico. Il partito sta cercando di allargare la sua base popolare per includere ebrei e arabi che si oppongono alla guerra. Il deputato dell’alleanza chiamata Lista Comune Ayman Odeh, leader del partito che rappresenta questa linea politica, collega la guerra in corso alla contestata riforma della giustizia, spesso descritta come un golpe giudiziario. In un articolo pubblicato su Haaretz il 27 ottobre, Ayman Odeh ha dichiarato che “lo scopo del colpo di Stato era quello di espellere i palestinesi dalla Cisgiordania, eliminare i cittadini arabi, impedendo la creazione di uno Stato palestinese. Tutti obiettivi che stanno per essere raggiunti”.

I limiti di questa seconda posizione derivano dalla difficoltà di costruire un largo fronte ebraico-arabo in un contesto come quello attuale estremamente polarizzato. Come indicano i sondaggi, la tendenza dominante è quella di una svolta a destra della società israeliana, al di là delle critiche al governo e del fallimento dell’intelligence nel garantire la sicurezza nazionale. Di conseguenza, l’opzione politica proposta dal leader di Ra’am, Mansour Abbas, con il rifiuto di distinguere tra destra e sinistra, sembra essere al momento quasi più realistica.

I palestinesi, una minoranza indigena

Oltre a queste due posizioni politiche, ne sta emergendo una terza e più nota che, dal 7 ottobre, ha assunto un rilievo particolare perché sostiene che, da un punto di vista costituzionale, la minoranza palestinese sia un gruppo nazionale vessato dalle istituzioni statali. L’attivista, da poco rilasciato, Amir Makhoul ha detto ad Al Jazeera che l’establishment israeliano sta conducendo “una campagna di intimidazione contro 48 palestinesi per impedire che si ascolti il loro grido di rabbia contro la guerra e di solidarietà con i palestinesi della Striscia di Gaza”. Allo stesso modo, il centro per gli studi sociali “Mada al-Carmel” ha pubblicato un documento che sostiene la tesi che il governo israeliano stia “sfruttando lo stato di shock e di guerra, le crisi che ne derivano e il governo di emergenza che ha formato, per cancellare lo spazio politico che i palestinesi hanno usato per esercitare i loro diritti più elementari”.

Va ricordato il quadro legislativo, in particolare la Legge fondamentale israeliana del 2018 sullo Stato-nazione, che definisce Israele come uno Stato-nazione esclusivamente ebraico. Secondo la nuova Legge, tutte le risorse devono essere utilizzate a beneficio della maggioranza ebraica. In parallelo, le istituzioni non hanno adottato misure sostanziali per frenare il dilagare dei crimini nelle città e nei villaggi contro i palestinesi dell’interno, dove vive la maggior parte di loro. Nel corso del 2023, sono già state 199 le vittime di atti di violenza, che rientrano in una logica criminale legata alla natura coloniale dello Stato.

La stigmatizzazione dei palestinesi di Israele – un gruppo ampiamente descritto come pericoloso e sleale, una sorta di nemico in casa, è indicativa di una tendenza allarmante all’interno del quadro legislativo. La campagna di intimidazioni e violazioni ricorda il periodo di governo militare imposto alla popolazione dal 1948 al 1966. Un quadro normativo distinto che è rimasto in vigore anche molto tempo dopo il 1966. Solo nel 2000 il Tribunale militare di Lod, incaricato di emettere la sentenza, l’ha infine abolito. In questo contesto, la terza posizione traccia un parallelo con altre situazioni coloniali che emarginano, reprimono o cancellano le cosiddette minoranze nazionali o indigene. Una tendenza che cerca di evidenziare il carattere indigeno dei palestinesi e intende trovare in altre esperienze, ad esempio in Oceania o nelle Americhe, gli strumenti atti a mobilitarsi o anche meccanismi legislativi in grado di internazionalizzare la causa palestinese per creare normative che prevedano nuovi diritti.

È interessante notare che, nel suo rapporto del 2003, una Commissione d’inchiesta del governo israeliano sulla rivolta dell’ottobre 2000 (in cui ci furono manifestazioni a sostegno della Seconda intifada nei villaggi e nelle città palestinesi) usò i termini “minoranza nazionale” e “minoranza indigena” per definire i palestinesi. La Commissione concludeva:

In primo luogo, la minoranza araba in Israele è una popolazione indigena che si considera dominata da una maggioranza che non è tale. [...] La forte adesione all’eredità ancestrale di fronte alle sfide poste dalla maggioranza ebraica, che la minoranza palestinese considera una comunità di immigrati, ha uno status elevato nella coscienza collettiva. Un’equazione – minoranza “indigena” contro maggioranza “immigrata” – che rischia di aumentare le tensioni. In secondo luogo, la minoranza araba di Israele rappresenta una successione storica della maggioranza della popolazione della regione. [...] Anche durante l’espansione dell’entità ebraica durante il periodo del mandato britannico, il numero di arabi è sempre stato superiore al doppio del numero degli ebrei. E i disordini che li hanno resi una minoranza del 20% della popolazione del paese non sono stati facili da risolvere. Nella loro rivoluzione, i palestinesi hanno in parte espresso il loro rifiuto di essere chiamati “membri di minoranze” secondo il linguaggio delle istituzioni statali. In terzo luogo, questi disordini sono il risultato della grave sconfitta degli arabi nella loro guerra contro l’entità ebraica e lo Stato in cui si trovavano in posizione di minoranza che, in realtà e in virtù della sua presenza, costituisce un costante e tragico ricordo della loro caduta; o, per dirla con le parole di uno dei loro leader, “lo Stato è sorto sulle ceneri della società palestinese”. La creazione dello Stato di Israele, celebrato dal popolo ebraico come la realizzazione di un sogno secolare, implica nella sua memoria storica il trauma collettivo più brutale della sua storia: la “Nakba”.

A quel tempo, la Commissione d’inchiesta israeliana aveva definito i palestinesi cittadini di Israele attraverso criteri oggettivi: l’esistenza del gruppo prima della creazione dello Stato e la serie di eventi storici che hanno portato alla sua trasformazione in un gruppo non dominante. La Commissione aveva anche considerato dinamiche più soggettive: la crescente consapevolezza da parte dei suoi membri della loro identità nazionale, ma, senza grande sorpresa, aveva trascurato di collegarla al fenomeno coloniale.

Questa riflessione sull’autoctonia sembra talvolta attecchire, ad esempio durante le campagne elettorali o in caso di manifestazioni come nell’ottobre 2021, ma non trova facilmente una chiara espressione politica. La percezione di un razzismo profondamente radicato nelle istituzioni, che si traduce sempre più a livello legislativo, mette in discussione le strategie dei partiti politici, ma anche i limiti degli approcci, senz’altro critici, ma che operano a favore dell’integrazione.

Resta inteso che, dopo l’attacco del 7 ottobre, gli appelli a scatenare una “seconda Nakba” da parte dei politici israeliani devono essere presi sul serio perché riguardano sia chi vive in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, a Gaza (dove quasi il 70% della popolazione è in realtà composta da rifugiati del 1948) ma anche all’interno. C’è bisogno di una riflessione profonda per la difesa dei diritti che i palestinesi con cittadinanza israeliana, di fronte a logiche ed esperienze specifiche, possono promuovere, sostenendo l’impegno a internazionalizzare la questione palestinese e ponendo in risalto il carattere autoctono del popolo palestinese.

1Umm al-Fahm è una città israeliana che si trova nel Distretto di Haifa, con una popolazione di 45.000 persone, quasi tutte palestinesi con cittadinanza israeliana.