Palestina-Israele. L’inevitabile fallimento degli accordi di Oslo

È ormai opinione comune tra i palestinesi ritenere che gli accordi di Oslo del settembre 1993 siano stati un totale fallimento. All’epoca c’era la speranza che gli accordi di pace avrebbero portato alla creazione di uno Stato palestinese indipendente dopo cinque anni di autonomia limitata, in realtà il processo di Oslo ha creato solo nuove dinamiche di potere all’interno dei territori palestinesi occupati. In occasione del trentennale degli accordi, proponiamo in italiano un’analisi inedita dello storico palestinese Maher Al-Charif.

Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat alla Casa Bianca, 13 settembre 1993.
(Photo Vince Musi/La Maison Blanche)

Il fallimento del processo di Oslo del 1993 è ormai sotto gli occhi di tutti e si può attribuire sostanzialmente a quattro punti cruciali che andremo ad esaminare in ordine di importanza:

➞ la totale assenza di volontà nel riconoscere i diritti nazionali del popolo palestinese da parte dei governi israeliani che si sono succeduti;
➞ la mancanza di imparzialità del mediatore americano nel corso dei negoziati;
➞ la debolezza del movimento nazionale palestinese;
➞ la recente serie di tragedie che ha colpito il mondo arabo che hanno messo in secondo piano la questione palestinese.

La visione israeliana di un conflitto che non può essere risolto

Per Israele quello con i palestinesi è un conflitto esistenziale che non lascia vie d’uscita. Grazie agli accordi di Oslo però, Israele è riuscito a risolvere un problema inestricabile che si è trovato ad affrontare dopo la vittoria della guerra del 1967: ritrovarsi a fianco del popolo palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, oltre ai palestinesi del 1948, rischiando di compromettere gravemente il suo carattere “ebraico”. Una riflessione già avviata nel 1967 con il progetto di Yigal Allon, all’epoca vicepremier, di creare un’entità palestinese formata da piccoli cantoni isolati con funzioni politiche limitate. Israele declinava così ogni responsabilità nell’amministrazione dei cittadini palestinesi.

Una scelta adottata anche da Yitzhak Rabin e Shimon Peres con la decisione di negoziare con la dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Uscita indebolita dalla crisi dell’invasione irachena del Kuwait nell’agosto del 1990, l’OLP era all’epoca alle prese con un boicottaggio a livello politico-economico. Tuttavia, la popolarità di cui godeva ancora nei territori aveva permesso all’Organizzazione di far accettare gli accordi di Oslo. La dirigenza palestinese aveva scommesso sul fatto che gli accordi di pace avrebbero, per la prima volta nella storia, sancito l’esistenza della nazione palestinese sul territorio della madrepatria. I vertici consideravano che la sovranità sarebbe stata progressivamente riunita, intravedendo la possibilità, dopo la fase transitoria di cinque anni, di uno Stato indipendente grazie agli accordi sull’autonomia.

L’Autorità palestinese (AP) non ignorava certo le difficoltà dei negoziati che si annunciavano sulle questioni relative allo status finale: Gerusalemme, i rifugiati, le colonie, le frontiere, le risorse idriche, ma per l’AP il fatto che Israele avesse accettato di mettere tali questioni all’ordine del giorno (dopo aver lungamente insistito per un ordine del giorno svincolato da impegni preventivi per ciascun negoziatore) equivaleva da una parte a un impegno degli israeliani, dall’altra prefigurava a grandi linee il futuro assetto1.

Malgrado le concessioni fatte dall’OLP – compresa la soppressione, durante la 21a sessione del Consiglio nazionale palestinese (CNP) tenutasi a Gaza dal 22 al 25 aprile 1996, degli articoli della Carta nazionale non in linea con lo scambio di lettere tra l’OLP e il governo israeliano del 9 e 10 settembre 19932 – la dirigenza palestinese non è riuscita a gettare le basi per un ritiro israeliano da tutti i territori occupati né a trasformare la giovane entità nazionale palestinese in un vero Stato indipendente con capitale Gerusalemme Est. Il rifiuto di Israele nel rispettare gli impegni presi, le nuove realtà imposte dai successivi governi, e soprattutto il protrarsi della colonizzazione, hanno creato le condizioni per una Seconda intifada, scoppiata alla fine di settembre 2000, per l’impossibilità da parte di Yasser Arafat e Ehoud Barak di arrivare, con i negoziati di Camp David del luglio 2000, a una soluzione sull’assetto definitivo.

Una lotta per la sopravvivenza

Risale all’inizio del terzo millennio un movimento “neo-sionista” di carattere nazionalista e religioso che ha diffuso in Israele l’idea che il conflitto con i palestinesi sia una lotta per la sopravvivenza che ha come unica soluzione la totale resa del popolo palestinese. Secondo la teoria neo-sionista, la società israeliana ha il compito di riavvicinare la giovane generazione allo “spirito combattivo del 1948”, rafforzando “la coesione nazionale”. Si tratta di nuovo movimento senza alcuna forma di dissenso rispetto alla società israeliana degli anni ‘90, si pensi, ad esempio, al filone dei “nuovi storici”, dei “sociologi critici” o anche al movimento del “post-sionismo”. Cresciuto di pari passo con il fallimento del movimento per la pace, ma anche grazie a un declino delle istituzioni democratiche, il neo-sionismo ha dato crescente importanza al carattere ebraico dello Stato, come testimonia il progetto di legge fondamentale “Israele è lo stato nazionale del popolo ebraico” avviato dal Parlamento, che considera l’autodeterminazione un diritto esclusivo del popolo ebraico, relegando in secondo piano lo status degli arabi palestinesi in Israele e legalizzando di fatto la discriminazione razziale esercitata contro di loro3.

Oltre a ignorare le condizioni di una pace giusta con i palestinesi, i leader israeliani hanno scatenato, in nome del neo-sionismo, quattro guerre contro la Cisgiordania e Gaza, nella convinzione radicata che il conflitto con i palestinesi sia di natura esistenziale, che non può avere altra soluzione se non la resa totale e incondizionata del popolo palestinese. A dichiararlo senza mezzi termini è stato Benjamin Netanyahu in un’intervista in esclusiva con alcuni scrittori israeliani organizzata dal giornale Haaretz. Alla domanda posta dallo scrittore e regista Etgar Keret sulla soluzione ideata dal premier per il conflitto in Medio Oriente, Netanyahu ha parlato a lungo della minaccia nucleare iraniana e dell’instabilità degli altri regimi della regione. Di fronte all’insistenza dello scrittore a volere una risposta alla sua domanda iniziale, il premier israeliano ha ammesso che “non stava facendo niente per risolvere il conflitto, perché il conflitto non può essere risolto.”4.

Per imporre la resa al popolo palestinese, i vari governi israeliani hanno cercato di piegarne la volontà di resistenza per impedire di portare avanti ogni futura lotta per i diritti nazionali. Un obiettivo dichiarato con l’invasione israeliana delle città della Cisgiordania nel marzo 2002, nell’ambito dell’Operazione “Scudo difensivo”. Durante l’offensiva, l’allora capo di stato maggiore israeliano, il generale Moshe Ya’alon, aveva dichiarato che si trattava di “imprimere profondamente nella coscienza dei palestinesi che sono un popolo sconfitto”. E proprio l’espressione “imprimere profondamente” è diventata nella propaganda israeliana sinonimo di mettere in ginocchio i palestinesi per infliggere una definitiva sconfitta morale, instillando in loro una cultura del terrore e della paura, oltre a un senso di profonda impotenza.

Yehuda Shaul, ex ufficiale dell’esercito israeliano che ha preso parte all’Operazione “Scudo difensivo”, ricorda le parole di Moshe Ya’alon in un articolo pubblicato su Le Monde dal titolo “Fingendo di difendersi Israele attacca”: “Moshe Ya’alon, ex capo di stato maggiore ora ministro della Difesa, ci ha esortato a ‘cancellare la coscienza palestinese’. In risposta, ci hanno mandato a intimidire e punire un’intera comunità. Erano operazioni fondate sulla convinzione che i civili si sarebbero astenuti dalla rivolta se fossero stati brutalizzati, oppressi e spaventati. In altre parole, una coscienza cancellata significava una coscienza spaventata”. Yehuda Shaul continua: “Nell’ambito di questa operazione di ‘prevenzione’, io e i miei amici abbiamo imparato a vedere ogni palestinese come un nemico e, in quanto tale, un obiettivo legittimo da attaccare. Quando siamo partiti in missione per ‘mostrare la nostra presenza’, il nostro obiettivo era quello di seminare il panico e disorientare la popolazione civile per far capire che era sotto il nostro controllo. Altre volte, per ‘prevenire’ il terrorismo abbiamo messo in atto una punizione collettiva contro dei palestinesi innocenti”5.

La faziosità degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti hanno grandi responsabilità sullo stallo del processo di pace in Medio Oriente. Dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2017, era lecito aspettarsi che il governo americano, dopo una semplice gestione della crisi, avrebbe liquidato i due nodi centrali della causa palestinese, vale a dire la questione di Gerusalemme e quella dei rifugiati. Nel giro di qualche mese, l’amministrazione americana ha infatti riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, trasferendo la sua ambasciata a Tel-Aviv. La Casa Bianca ha inoltre deciso di tagliare il suo contributo finanziario all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), che fornisce servizi a più di 5 milioni di rifugiati palestinesi. Una decisione in linea con gli appelli israeliani a liquidare l’Agenzia delle Nazioni Unite, creando i presupposti per una definitiva estromissione della questione dei rifugiati da ogni futura negoziazione. Per di più, dal governo americano sono arrivate minacce di bloccare i finanziamenti all’Autorità palestinese fino a quando i palestinesi non riprenderanno la strada dei negoziati secondo le condizioni stabilite dagli israeliani.

A dire il vero, l’idea di liquidare la questione era già stata avviata da George W. Bush. Al termine delle operazioni militari in Iraq il 30 aprile 2003, l’amministrazione Bush aveva presentato una road map con l’obiettivo di arrivare a “una soluzione al conflitto israelo-palestinese sulla base di due Stati6. Mentre la direzione dell’OLP aveva dato il suo consenso alla road map, il governo del leader del Likud Ariel Sharon presentava 14 riserve con il tentativo dichiarato di far fallire il processo di pace.

Più che denunciare tale ostracismo, l’amministrazione americana aveva preferito contraccambiare l’estrema destra israeliana con una lettera di garanzie presentata da George W. Bush il 14 aprile 2004 ad Ariel Sharon, che rappresentava un passo indietro rispetto a tutte le posizioni adottate dai vari governi dopo il 1967, sui rifugiati, le frontiere e le colonie. Dopo aver accolto favorevolmente, nella lettera, il piano di “disimpegno” israeliano dalla Striscia di Gaza che Sharon intendeva realizzare, e aver rinnovato il suo impegno per la sicurezza di Israele, il presidente americano aveva ritenuto che una soluzione giusta e onesta della questione dei rifugiati palestinesi fosse quella di creare uno Stato palestinese in grado di accogliere i rifugiati invece di trasferirli in Israele. Oltre al fatto che i confini sicuri e riconosciuti per Israele dovevano tener conto delle nuove realtà locali, compresi i grandi insediamenti, considerando irrealistica “l’ipotesi che il risultato dei negoziati finali portasse a un pieno ritorno ai confini dell’armistizio del 1949”7.

Dopo tre anni di blocco totale di ogni sforzo di pace, l’amministrazione Bush ha fatto finta di rilanciare il processo attraverso un’ultima iniziativa di facciata ad Annapolis il 27 novembre 2007, durante un vertice internazionale con l’obiettivo dichiarato di gettare “le basi per un nuovo Stato, uno Stato palestinese democratico che viva in pace e sicurezza al fianco di Israele”. Il metodo suggerito era quello di avviare subito dei negoziati bilaterali volti a raggiungere un accordo di pace e una soluzione di tutte le questioni in sospeso, compreso quelle cruciali8. Peccato che il processo di pace ripreso ad Annapolis era destinato a fallire, non solo per l’assenza di una reale volontà americana e di premesse serie per un accordo, ma anche perché Israele non aveva alcuna intenzione di risolvere le “questioni cruciali” del conflitto. L’amministrazione americana si era inoltre astenuta dall’esercitare pressioni sul governo del premier israeliano Ehud Olmert, che aveva annunciato la costruzione di migliaia di unità abitative, all’interno dei nuovi insediamenti, pochi giorni dopo il vertice9.

Dopo l’elezione del candidato democratico Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 2008, molti, nella regione e nel mondo, si erano illusi che fosse imminente una soluzione al conflitto arabo-israeliano, in particolare alla luce di una serie di iniziative “positive” prese dall’amministrazione Obama. Il segretario di Stato Hillary Clinton aveva annunciato l’impegno americano a operare in vista di una “soluzione a due Stati”. Il presidente stesso era andato anche oltre questa prospettiva nel famoso discorso tenuto al Cairo nel giugno 2009, in cui aveva dichiarato che “l’America non avrebbe voltato le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”, perché è “da oltre 60 anni che [i palestinesi] affrontano tutto ciò che di doloroso è connesso dell’essere sfollati”. Obama aveva anche assicurato che “gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace” e che “Gerusalemme sarà la casa sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme”10.

Solo pochi mesi dopo il discorso di Obama, l’amministrazione statunitense però faceva marcia indietro di fronte al neopremier del Likud Benjamin Netanyahu sulla richiesta di fermare gli insediamenti per favorire una ripresa dei colloqui con i palestinesi. Al contrario, Washington stava facendo pressioni sul presidente Mahmoud Abbas, perché accettasse di riprendere la strada dei negoziati “senza condizioni”. Così facendo l’amministrazione Obama non aveva tardato a proseguire sulla strada delle precedenti amministrazioni, vale a dire privilegiare la forma rispetto alla sostanza: la cosa importante era tenere artificialmente in vita “il processo di pace” senza garantire le reali condizioni del suo successo per raggiungere una pace giusta e duratura.

L’ultimo colpo di coda è stata “l’iniziativa” abortita presentata dal segretario di Stato John Kerry nel luglio 2013 per una ripresa dei negoziati israelo-palestinesi con l’obiettivo di raggiungere un accordo di pace finale in nove mesi, dopo la visita di Obama in Medio Oriente nel marzo dello stesso anno.11.

La debolezza del movimento nazionale palestinese

Dopo lo scoppio della Seconda intifada e la morte di Yasser Arafat in [circostanze misteriose], unico leader in grado di preservare la coesione del movimento nazionale palestinese, i rapporti di forza interni sulla scena politica hanno subito una trasformazione. Con il tempo, in particolare dopo il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza nel 2005, si è instaurata una dicotomia di poteri.

Nell’ottica di una linea politica che tende ad annettere il maggior numero possibile di territori palestinesi allontanando il maggior numero possibile di palestinesi, il governo Sharon aveva perciò elaborato un piano di “disimpegno” unilaterale dalla Striscia di Gaza, un territorio abitato da circa un milione e mezzo di palestinesi e solo 7.000 coloni, ripartiti su 21 colonie con un costo militare e finanziario troppo oneroso per il governo israeliano. Secondo il capo di gabinetto del premier, il piano in questione mirava “a impedire l’avvio di un vero processo politico con i palestinesi”, ostacolando “la costruzione di uno Stato palestinese” annullando alla base “la necessità di smantellare gli insediamenti (in Cisgiordania)12.

A dire il vero, il piano di “disimpegno” di Israele dalla Striscia di Gaza è stata una delle ragioni che hanno spinto la dirigenza di Hamas a rivedere la decisione di non partecipare alle elezioni tenute nell’ambito degli accordi di Oslo. Alla vigilia delle elezioni del gennaio 1996 per eleggere il Consiglio legislativo palestinese, Hamas aveva dichiarato di voler boicottare le elezioni, perché si tenevano “sotto il tetto degli accordi di Oslo”, negando il diritto di voto a 4 milioni di rifugiati palestinesi della diaspora, restringendo il diritto solo ai cittadini di Cisgiordania e Gaza. Hamas sottolineava le ripercussioni sulle prerogative di un Consiglio eletto che “non poteva che finire ostaggio dell’occupazione”13. Le dichiarazioni del governo Sharon, dopo la morte di Arafat, in merito al ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza hanno incoraggiato i leader di Hamas a partecipare alle elezioni parlamentari del gennaio 2006. Come sottolinea Ali Jarbaoui, docente di Scienze politiche all’Università di Bir Zeit, dopo la vittoria elettorale, Hamas si è trovata nella posizione di dover governare senza passare attraverso una fase preliminare14.

Nella politica palestinese, le elezioni hanno portato a un bipolarismo che ha ridotto ulteriormente lo spazio della sinistra che non è stata in grado di formare un terzo polo, per motivi congiunturali e strutturali, soprattutto per la sua incapacità di comprendere i cambiamenti all’interno della società dopo la nascita dell’AP. Si è creata un’economia di rendita, con assunzioni ipertrofiche negli apparati dell’autorità amministrativa e di sicurezza, insieme alla contrazione del lavoro salariato in Israele dopo la Seconda intifada. La sinistra non ha saputo inoltre analizzare il fenomeno dell’indebolimento dei corpi intermedi che tradizionalmente inquadravano l’attivismo di massa, come i sindacati dei lavoratori, le organizzazioni studentesche, le associazioni femminili, insieme al numero crescente di società e Ong che hanno saputo tirare dalla loro parte molti dirigenti della sinistra. Oltretutto, la sinistra non è riuscita a superare le sue contraddizioni interne e marginali per ritrovare un’unità interna, cosa che ha portato ad allinearsi ai due poli principali: Fatah e Hamas.

Dopo il no del governo israeliano a ridiscutere i dettagli del piano di “disimpegno” con l’AP, il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza nel settembre 2005 ha creato una situazione di insicurezza generale e disordine armato con vari tentativi di lancio di razzi verso Israele a cui l’esercito israeliano ha risposto con ampie offensive nella Striscia di Gaza. Di contro, Hamas ha sollecitato una serie di marce armate e parate militari, provocando ripetuti scontri con le forze di polizia palestinesi, sfociati in un conflitto generalizzato che si è concluso a metà giugno 2007 con un colpo di Stato militare di Hamas su tutta la Striscia di Gaza. Dopo il tentato golpe c’è stata una divisione geografica e politica tra la Cisgiordania e Gaza che ha lacerato l’unità del popolo palestinese e indebolito la sua lotta nazionale per la liberazione, lasciando campo libero a Israele per consolidare la sua occupazione15.

Con lo stallo politico seguito al fallimento del processo di Oslo e al golpe di Hamas, sono falliti anche gli sforzi per riformare l’AP con metodi più democratici, come promesso dal neopresidente Mahmoud Abbas, eletto nel gennaio 2005 con un programma di riforme che aveva ottenuto il 63% dei consensi. In fase di stallo sono anche gli sforzi per ricostruire l’OLP su nuove basi in grado di integrare Hamas e la Jihad islamica, oltre alla ricomposizione del Consiglio nazionale palestinese che poteva avere in pieno un ruolo in materia di controllo e legislazione per rinnovare il comitato esecutivo dell’OLP.

L’indebolimento dell’OLP come “unico ombrello politico” è andato di pari passo con le scissioni tra le tre componenti del popolo palestinese: il popolo della diaspora, quello dei territori occupati nel 1967 e quello dei territori occupati nel 1948. In particolare, c’è stato un netto declino del ruolo politico dei rifugiati della diaspora che ha portato a un senso di frustrazione e sconforto, oltre alla sensazione di essere stati abbandonati da un movimento nazionale che ha avuto scarsa considerazione dei loro diritti e della loro lotta. Di conseguenza, sono molti i rifugiati che si sono allontanati dalle organizzazioni palestinesi e dalla politica attiva. Con i tagli all’UNRWA per motivi finanziari, c’è stato un aumento dell’emigrazione dai campi palestinesi verso i paesi europei.

Le sconfitte del mondo arabo

I palestinesi erano convinti che con la nascita, a fine 2010, dei movimenti popolari in molti paesi arabi, anche la causa palestinese avrebbe riacquisito il suo carattere panarabo. C’era persino la sensazione di trovarsi all’alba di una nuova era che avrebbe portato in sé i germi, se non i germogli, di una profonda rivoluzione nei rapporti di potere con la promessa di un nuovo scenario, da cui sarebbe uscita vincitrice la causa palestinese, una volta che i popoli arabi avessero preso in mano i loro destini. Ma è risultato ben presto che la questione palestinese – salvo in rari casi in cui la bandiera palestinese sventolava durante le rivolte popolari – era assente dal discorso delle rivolte arabe, che in realtà erano movimenti spontanei fuori da ogni inquadramento da parte dei partiti politici panarabi o di sinistra. Rivolte a cui è mancato anche un programma politico chiaro, con riferimenti molto vaghi ai temi come libertà, giustizia e dignità. La questione palestinese è infine sparita dai media arabi, troppo occupati dalle notizie legate ai movimenti di protesta.

Movimenti che non hanno portato però cambiamenti radicali sul piano economico, sociale o politico, operando più una svolta confessionale, religiosa o etnica che ha provocato conflitti sanguinosi e messo in pericolo il tessuto sociale di molti paesi arabi, minacciandone la coesione e le strutture, oltre a intaccare un ordine ufficiale arabo già scosso da divisioni e in balia del peggior tracollo della sua storia, che ha trasformato l’intera regione in un campo di battaglia tra potenze regionali e internazionali con l’alibi della “guerra al terrorismo”.

Era logico che i leader israeliani sfruttassero questo disastroso scompiglio del mondo arabo per portare avanti il loro piano di liquidare definitivamente la questione palestinese, sbandierando una soluzione “regionale” che calpestava i diritti nazionali palestinesi, approfittando del fatto che non tutti avevano chiaro il vero pericolo che minacciava la sicurezza del mondo arabo, ossia Israele e la sua politica di aggressione e occupazione. Con la crescente influenza iraniana sull’intera regione, alcuni paesi arabi, in particolare del Golfo, hanno visto piuttosto nel vicino persiano il “principale pericolo” che li minacciava. Paesi che si sono mostrati disponibili, il più delle volte segretamente, ma a volte apertamente, a stringere alleanze con Israele, impegnandosi a favore di una normalizzazione dei rapporti per far fronte all’espansione iraniana16.

D’altro canto, le ricadute di questi movimenti popolari hanno pesato direttamente sulla situazione dei rifugiati palestinesi, in particolare in Siria. Dopo un periodo di stabilità durato quasi 65 anni, i campi hanno subito uno sconvolgimento totale nell’estate 2012. Tutte le dichiarazioni di neutralità pronunciate dall’OLP per proteggere i rifugiati non sono servite a nulla dopo che le fazioni “takfiriste” hanno colpito i campi profughi, in particolare quello di Yarmouk. Le violente battaglie scoppiate hanno causato oltre 1500 morti, con un esodo quasi del 15% dei palestinesi in fuga dalla Siria e un altro 15% che è rimasto all’interno dei campi mentre tutti gli altri venivano spostati in altre zone della Siria, soprattutto nella città di Damasco. Un censimento non ufficiale17 registra un ingresso in Libano di 53.715 rifugiati palestinesi provenienti dai campi siriani, la maggior parte accolti dai loro familiari nei campi presenti in Libano, in particolare nel campo palestinese di Ain el-Helweh, nel distretto di Sidone, o presso famiglie libanesi che hanno aperto le loro case o in strutture di accoglienza temporanea. Un flusso che si è arrestato solo nel maggio 2014 quando le autorità libanesi hanno adottato misure molto severe per vietare l’accesso nel territorio libanese ai palestinesi provenienti dalla Siria. In migliaia sono poi riusciti ad entrare in Giordania nonostante le misure draconiane adottate dalle autorità per impedirne l’accesso. Altri si sono stabiliti nella città di Zaatari dove c’è il più grande rifugio del mondo per i profughi siriani e il più grande campo profughi del Medio Oriente, senza rivelare la loro identità palestinese.

Infine, un certo numero di rifugiati palestinesi ha potuto beneficiare della decisione presa dalle autorità egiziane nelle primissime fasi della crisi siriana, di accogliere temporaneamente i rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria muniti di documenti, prima che l’Egitto revocasse tale misura, rendendo impossibile per i palestinesi salire su un aereo all’aeroporto di Beirut, per ordine del Cairo. Le cifre evidenziano anche l’arrivo a Gaza dall’Egitto di 250 famiglie di rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria. Alcune famiglie si sono avventurate sui barconi della morte nel mar Mediterraneo, o su rotte terrestri verso altri confini, mentre altre sono riuscite a ottenere l’asilo politico nei paesi europei, in particolare scandinavi, mentre i loro parenti venivano inghiottiti dalle acque18.

1Mahmoud Abbas, La voie d’Oslo (in arabo), Société de publications et diffusion, Beirut, 1994; p. 325-327 et 331-333

2L’OLP riconosceva il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza, mentre il governo israeliano si era limitato a riconoscere l’OLP come rappresentante dei palestinesi, senza alcun riferimento ad uno Stato palestinese.

3Amal Jammal, “Objectifs et signification du projet de loi fondamentale: Israël État national du peuple juif”, in Majallat al dirasat al filastiniyya (Revue d’études palestiniennes) Beirut, n° 101, 2015; pp. 7-13.

4Etgar Keret, “La pace spiegata a mio figlio”, Corriere della Sera, 11 luglio 2014

5Intervista a Le Monde, 23 luglio 2014.

6“Roadmap for a lasting two-State solution, based on the effective exercise of rights”, Washington, D.C., 30 aprile 2003, Majallat aldirasat alfilastiniyya, numero 55, estate 2003, p.157-162.

7Ibid., numero 58, primavera 2004; 170-172.

8Ibid., n. 72, autunno 2007; p. 175.

9Kathleen Christison, “Fin d’une ère noire: Palestine-Israël sous le mandat de G. W. Bush”, Ibid., n° 78, primavera 2009, pp. 99 -115.

10Discorso integrale di Barack Obama tenuto all’Università del Cairo sulle relazioni degli Stati Uniti con il mondo musulmano, Il Cairo, 6 giugno 2009.

11Conferenza stampa del segretario di Stato John Kerry, del ministro della Giustizia Tzipi Livni e di Saeb Erekat, capo della delegazione palestinese ai negoziati di pace, nel corso dei quali Kerry assicurava che “tutte le questioni saranno sul tavolo, con l’obiettivo di raggiungere una pace definitiva entro 9 mesi” (29 luglio 2013)”, Ibid., n° 96, autunno 2013, Sezione Documenti.

12Christison, “Fin d’une ère noire…”, op.cit., p. 105.

13“Mémorandum du Hamas du 17 août 1998 au sujet des accords d’Oslo cinq ans après leur signature”, Majallat al dirasat al filastiniyya, n° 36, autunno 1998, pp. 201-205.

14Ali Jarbaoui, “Embarras d’un coup d’État”, 31 gennaio 2006.

15“Le tournant palestinien après le retrait” (colloquio organizzato da Samih Chabib), Majallat al dirasat al filastiniyya, n. 64, autunno 2005; pp. 5 -22. Talal Okal, “La bande de Gaza après le retrait : transition des prisons ordinaires à la grande prison et à une agression encore plus féroce”, n. 64, pp. 175 -182.

16Le conflit israélo-arabe à la lumière des changements arabes et régionaux (in arabo), Jamil Hilal, Beirut, Instituto di studi palestinesi, 2013; Abou Saʽda, Moukhaimer Saoud, “Les changements au Moyen-Orient et leurs répercussions sur la question palestinienne”, Chouʾoun filastiniyya, Ramallah, n° 267, primavera 2017, po. 13 -22

17risale a fine gennaio 2013

18Nabil Al Sahli, “Les Palestiniens de Syrie et la tragédie de l’émigration et du déplacement forcé”, Majallat al dirasat al filastiniyya, n° 97, inverno 2014; pp. 139-149.