Sudan. Nove mesi di guerra e pochissime speranze

È dall’aprile 2023 che lo scontro tra l’esercito regolare di Abdel Fattah al-Burhan e le milizie paramilitari delle Forze di supporto rapido (RSF) di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, mette a ferro e fuoco il Sudan, costringendo milioni di sudanesi ad abbandonare le proprie case, o a rifugiarsi all’estero. La situazione sta peggiorando nell’indifferenza della comunità internazionale.

Wad Madani, 16 dicembre 2023. Gli abitanti fuggono dai combattimenti tra l’esercito regolare e le RSF di Hemeti
AFP

Chiamiamoli Nassim e Ibrahim, nomi di fantasia per garantire l’anonimato. Prima della guerra, Nassim era uno studente celibe che viveva in un quartiere operaio di Khartoum con i suoi genitori, dipendenti pubblici di una classe media che sta lottando per mantenere uno standard di vita abbastanza dignitoso nonostante l’inflazione alle stelle. Studente del corso di master, Nassim faceva parte dello zoccolo duro del comitato di resistenza del suo quartiere, l’organizzazione di base della rivoluzione popolare del 2018-2019. Ma dopo il clima di euforia legato alla rivolta, Nassim si era un po’ allontanato dalla politica, deluso dal ritorno dei vecchi partiti alle prese con le loro faide e questioni personali.

Ibrahim ha qualche anno in più di Nassim ed è divorziato. Prima della guerra, ha collaborato con organizzazioni internazionali, agenzie dell’ONU e importanti Ong, a cui ha aperto le porte del suo paese, di cui conosce ogni angolo. Anche Ibrahim ha preso parte alla rivoluzione e alla grande promessa di ricostruire il Sudan, per farne uno Stato per tutti i suoi cittadini. Anche lui sta lottando contro una crisi economica devastante che ha dissanguato un intero popolo, fatta eccezione per l’élite predatoria del vecchio regime, ossia i Kaizan.

Fuggire da Khartum

Nassim e Ibrahim hanno tenuto duro di fronte alle vicissitudini del periodo post-rivoluzionario. Insieme ad altri milioni di sudanesi, hanno rischiato la vita per non arrendersi all’esercito regolare o alle milizie paramilitari. Non si sono tirati indietro neanche dopo il golpe dell’ottobre 2021, che ha visto le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF) uniti per mettere fine all’esperienza democratica. Eppure, gli alleati di ieri oggi si fanno la guerra. Dal 15 aprile, Abdel Fattah al-Burhan, comandante in capo dell’esercito, leader de facto del paese, è sostenuto dagli islamisti del vecchio regime contro Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemeti, a capo della Forze di supporto rapido (RSF), milizie paramilitari così potenti da diventare una sorta di doppio esercito.

Come per milioni di sudanesi, il 15 aprile 2023 ha cambiato i destini di Nassim e Ibrahim. Ibrahim è andato avanti e indietro con la sua vecchia auto sgangherata per evacuare prima la famiglia, poi gli amici più stretti, e infine dei conoscenti. Tutti in fuga dagli scontri a Khartoum, verso il confine egiziano o l’est del paese. La popolazione della capitale ha subito saccheggi, stupri e omicidi da parte dei miliziani del generale Hemeti, fedeli alle loro origini, parliamo dei terribili Janjawid della guerra in Darfur degli anni 2000, le milizie ausiliarie del regime di Omar al-Bashir. Per di più, gli abitanti di Khartum hanno subito anche i bombardamenti dell’artiglieria pesante e dell’aviazione dell’esercito regolare. Alla fine, anche Ibrahim ha lasciato Karthoum, diretto verso la città di Wad Madani, capitale dello stato di Al Jazira, una vasta provincia agricola a 185 km a sud-est della capitale sudanese.

La famiglia di Nassim è rimasta chiusa in casa per molte settimane. E quando il loro quartiere è caduto nelle mani delle Forze di supporto rapido (RSF), tutta la famiglia si è trasferita a casa di parenti alla periferia di Khartoum. Alla fine, i paramilitari sono arrivati anche lì. E così Nassim è partito verso sud-est, attraversando posti di blocco militari prima di fermarsi a Kosti, una città nello stato del Nilo Bianco (in arabo, al-Nil al-Abyad). Lì è riuscito a trovare una casa in affitto a buon prezzo. Una sistemazione decisamente migliore rispetto a quella di migliaia di sfollati ammassati nelle scuole o in rifugi precari.

Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) del 14 gennaio 2024, oggi sono sette milioni e mezzo gli sfollati all’interno e fuori dal paese. Tutti attraversano le stesse difficoltà: trovare un alloggio, recuperare i propri soldi dopo i saccheggi e il crollo degli istituti bancari, l’emergenza delle scuole chiuse da aprile, oltre alla quasi totale distruzione delle infrastrutture sanitarie... In poche parole, cercare di sopravvivere in un paese già impoverito e con poche risorse prima della guerra.

Le “ghost house”

A dicembre 2023, il quadro è apparso già chiaro: il paese è diviso in due, da est a ovest. I miliziani di Hemeti controllano gran parte della capitale, mentre l’esercito regolare è confinato in qualche base e nei quartieri di Omdurman. Gli uomini di Hemeti controllano anche la zona occidentale del paese, il Darfur, e parte della provincia del Kordofan. La cosa non sorprende, dal momento che le Forze di supporto rapido (RSF) vengono reclutate soprattutto tra le tribù arabe della grande provincia occidentale, e quindi conoscono perfettamente il terreno, cosa che ha permesso di conquistare le principali città senza grandi difficoltà.

Tutti i tentativi di ottenere un cessate il fuoco da parte dei comitati di pace, composti da leader religiosi e civili, sono falliti uno dopo l’altro. Va detto anche che l’avanzata delle RSF è stata favorita da una certa arrendevolezza da parte dell’esercito regolare che ha preferito ripiegare nelle proprie roccaforti.

Nelle zone controllate dalle RSF ci sono state delle gravissime violazioni dei diritti umani, sia commesse direttamente dagli uomini di Hemeti, sia dalle milizie arabe locali legate alle RSF da legami familiari o tribali. Guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, l’esercito regolare, in gran parte sostenuto dagli islamisti del regime di Omar al-Bashir, si è così trasferito a Port Sudan. Sono loro che controllano l’est e il nord del paese, la valle del Nilo, da dove provengono le classi economiche, militari e politiche dei governi che si sono avvicendati dopo l’indipendenza del paese. Come avveniva nel vecchio regime, nelle zone controllate dall’esercito regolare viene attuata una politica repressiva contro ogni avversario. Nel presente contesto, la sinistra, memore delle ghost house, le case di detenzione di cui l’ex governo ha sempre negato l’esistenza e nelle quali il regime rinchiudeva e torturava gli avversari politici, si è attivata di nuovo.

“Fino a metà dicembre, sembravamo prossimi a uno scenario come quello libico, con un paese diviso e guidato da due gruppi militari in guerra tra lotta, ognuno sostenuto da alleati stranieri: le RSF dagli Emirati Arabi Uniti e le Forze Armate Sudanesi dall’Egitto. Uno scenario che ora appare instabile”, secondo Kholood Khair, analista sudanese in esilio.

Il sospetto ritiro dell’esercito regolare

All’alba del 15 dicembre, gli uomini di Hemeti hanno sferrato un attacco alla periferia di Wad Madani, dove, come aveva fatto Ibrahim, erano accorsi centinaia di migliaia di abitanti di Khartoum. Da rifugio per gli sfollati, la città è diventata anche un centro di stoccaggio per gli aiuti alimentari e i medicinali.

Le forze regolari si sono ritirate quasi senza combattere. Il 18 dicembre, la città di Wad Madani era nelle mani delle RSF. Ci sono stati saccheggi, stupri, intimidazioni, atti di violenza simili a quelli avvenuti nel Darfur. “Nelle Forze sudanesi, ci sono ufficiali di medio rango furiosi per aver ricevuto l’ordine di lasciare la città senza combattere”, assicura Kholood Khair.

I vertici sono tutti islamisti, perché reclutati e addestrati sotto il regime dell’ex presidente Omar al-Bashir. È per questo che non discutono nel merito delle decisioni prese dallo Stato maggiore. Ma gli ufficiali inferiori si chiedono: perché tutti questi ordini che sembrano favorire le RSF? C’è il sospetto che Hemeti abbia corrotto alcuni ufficiali.

La caduta di Wad Madani è stato uno shock e, senza dubbio, uno spartiacque. È saltato il blocco verso Port Sudan a est, così come quello verso Sennar e Kosti a sud. Secondo l’ONU, circa 300.000 persone sono fuggite dalla città di Wad Madani nelle prime ore dell’offensiva delle RSF, e altre 200.000 nei giorni successivi. Ibrahim era uno di loro. È andato verso Sennar, più a sud:

Non avevamo altra possibilità vista l’avanzata delle RSF, le altre strade erano tutte interrotte. Era un caos totale. La gente era nel panico, perché tutti sono a conoscenza delle atrocità commesse dalle RSF a Khartoum e nel Darfur. Ci sono voluti più di due giorni per raggiungere Sennar, che è a 90 km!

Ibrahim ha aspettato che le truppe di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti avanzassero verso l’est e il sud. In realtà, un tentativo delle RFS c’è stato, ma questa volta le milizie sono stati bombardate dall’aeronautica militare. Per ora, restano quindi nelle posizioni conquistate. Ibrahim, invece, è andato prima nella città di Gadaref, poi a Port Sudan, in cerca di lavoro. Non ha ancora deciso se lasciare il paese o meno.

Sopprimere ogni tentativo di resistenza civile

Diversamente da Ibrahim, Nassim, dopo la caduta di Wad Madani, ha gettato la spugna. Con i genitori anziani e traumatizzati, e alcuni fratelli e sorelle a carico, Nassim ha finito per rassegnarsi all’esilio. Il primo spostamento della famiglia è stato dalla città di Kosti, nel sud, in direzione di Dongola, a nord di Khartoum:

Avevamo troppa paura che le RSF avessero bloccato la strada e che saremmo rimasti in trappola, restando a Kosti. Migliaia di persone hanno fatto come noi: sono tornate al nord finché era ancora possibile farlo.

A Dongola, hanno pagato dei passeurs per andare in Egitto. La via legale costava troppo, quella clandestina ancor di più, e raggiungere il Cairo era difficile perché era stato limitato notevolmente il passaggio. “Basta pagare i soldati egiziani”, hanno assicurato ancora i passeurs. Oggi Nassim si trova in Egitto.

Malgrado la situazione, altri hanno deciso di restare. Nelle zone controllate dalle RSF come in quelle controllate dalle SAF, ci sono organizzazioni rivoluzionarie, comitati di resistenza, comitati di quartiere, organizzazioni femminili, sindacati, che stanno tentando di far fronte a uno Stato ormai in bancarotta, ma subiscono ovunque una feroce repressione. Ecco cos’hanno in comune i generali Hemeti e al-Burhan. Anche se sono nemici, vogliono entrambi mettere fine alla rivoluzione. Ecco l’analisi di Kholood Khair:

Tutti e due sono convinti di vincere. Ed entrambi vogliono sopprimere ogni tentativo di resistenza civile prima di conquistare il paese. In caso contrario, sanno bene che il loro potere sarà troppo debole. E così entrambi usano il paravento della guerra per sopprimere ciò che resta della rivoluzione. Medici, giornalisti, attivisti vengono assassinati, arrestati, imprigionati, torturati. Da una parte e dall’altra.

La velleità di un accordo spazzato via in fretta

In questo caos, c’è una scena che ha destato sorpresa: quella di Hemeti che stringe la mano ad Abdallah Hamdok, ex primo ministro durante la breve parentesi democratica, da settembre 2019 a ottobre 2021. Oggi, l’ex capo del governo è a capo della coalizione delle forze democratiche, detta Taqaddum. Creata ad Addis Abeba nell’ottobre 2023, la coalizione riunisce partiti politici, sindacati e organizzazioni della società civile che hanno avuto un ruolo durante la rivoluzione. La coalizione si propone di arrivare a un cessate il fuoco tra le fazioni in conflitto ma, soprattutto, avere garanzie per il periodo postbellico.

Il 2 gennaio, Taqaddum ha quindi firmato un accordo con una delle due fazioni. Su X (ex Twitter), l’ex presidente Abdallah Hamdok si è dichiarato soddisfatto della “piena disponibilità delle RSF per un cessate il fuoco immediato e incondizionato, oltre a garantire misure di protezione per i civili, agevolare il ritorno a casa dei cittadini, distribuire aiuti umanitari e cooperare con la commissione d’inchiesta”.

Appena pubblicato il post, Taqaddum ha cominciato a ricevere durissime critiche dal Partito comunista sudanese, da una parte del Partito Ba’th, dai leader del Partito della Nazione, noto anche come Partito Umma, dagli attivisti rivoluzionari e perfino dai comitati di resistenza... Dagli schieramenti politici opposti, anche gli islamisti del vecchio regime sono andati su tutte le furie, cosa che ha spinto il generale al-Burhan a rifiutare qualsiasi incontro, sia con Taqaddum che con il generale Hemeti. Per Kholood Khair, questo dimostra quanto sia divisa la popolazione civile:

Taqaddum ha perso credibilità firmando un accordo con il generale Hemeti, malgrado tutte le atrocità commesse dalle RSF. E non solo non vengono menzionate, ma sono addirittura smentite dal loro portavoce! Alcuni, all’interno della coalizione, credevano di poter controllare Hemeti una volta al potere. Un’incredibile ingenuità! Ma significa anche che questi politici non hanno imparato nulla in questi ultimi anni.

Nel frattempo, nessuna delle promesse contenute nella dichiarazione di Addis Abeba, tanto decantata da Abdallah Hamdok, ha visto una concreta attuazione. Secondo alcune testimonianze, la vantata ripresa della “vita normale” a Wad Madani da parte delle RSF starebbe avvenendo sotto la minaccia delle armi, con i medici costretti a tornare al lavoro e i commercianti ricattati.

Ma le strette di mano hanno permesso ad Hemeti di acquisire ancor di più una buona reputazione. E così il generale è stato accolto come un interlocutore affidabile e importante in varie capitali africane, durante un tour che lo ha portato da Pretoria a Gibuti passando per Nairobi, Kampala e Kigali, dove si è recato al Memoriale del genocidio1...

“Anche se riuscisse ad avanzare verso est e verso nord, prendendo Port Sudan e controllando l’intero paese, non vincerebbe la guerra”, è quanto prevede Kholood Khair. “[Hemeti] Dovrà affrontare gruppi armati in ogni regione”. Le Forze sudanesi distribuiscono armi alla popolazione della Valle del Nilo nel tentativo di difendere città e villaggi. E a chiunque non accetterà mai di vedere un uomo del Darfur al governo del Sudan.

Le vecchie contrapposizioni tra il centro, la valle del Nilo, l’antico regno di Kush, mitizzato dalle élite sudanesi che hanno governato dall’indipendenza, e le periferie, soprattutto la regione del Darfur, non sono terminate con lo scontro armato. Al contrario, sono riemerse con forza. E in Sudan non ci sono cucchiai abbastanza grandi per cenare con troppi diavoli.

1Il Memoriale del genocidio di Kigali è stato istituito per commemorare il genocidio dei Tutsi in Ruanda nel 1994. Vi sono sepolti i resti di oltre 250 000 vittime. [NdT].