Saggio

L’Islam. Una così comoda griglia d’analisi del mondo musulmano

A proposito di « Un silenzio religioso. La sinistra di fronte al jihadismo », di Jean Birnbaum · Un silenzio religioso. La sinistra di fronte al jihadismo. Il libro di Jean Birnbaum ha ricevuto grande eco dai media, che hanno ampiamente ripreso le sue tesi. Una tale opera merita però un vero dibattito, che non ha ancora avuto luogo.

Ahermin/Deviantart, 2008.

In Francia, quando si tratta di parlare di Islam tutto inizia e tutto finisce con l’Algeria. Le relazioni tormentate di Parigi con questo paese e oltre 130 anni di colonizzazione hanno segnato la storia, la politica, la cultura, le idee della metropoli. Pertanto regolarmente, di fronte a notizie di attualità, « riscopriamo » la solidità di questo legame, che i testi di storia confinano al solo episodio coloniale. Ben lontano dall’essere un mero « affare di politica estera », è stato invece al centro della vita politica della terza e della quarta Repubblica, delle sue lacerazioni e dei suoi sconvolgimenti; ha profondamente segnato la vita intellettuale e la visione dell’Islam. In una parola, è inscritto nel tessuto stesso della storia nazionale.

Questa dimensione è talvolta assente, talvolta presente, nel libro di Jean Birnbaum Un silenzio religioso. La sinistra di fronte al jihadismo1 che tratta delle difficoltà della sinistra di pensare la religione. Assente, perché le parole «colonia» e «coloni» non sono usate che una sola volta. Presente, poiché un capitolo centrale per illustrare i suoi propositi è dedicato alla «generazione FLN» (Fronte di Liberazione Nazionale), quei francesi che si mobilitarono per l’indipendenza dell’Algeria, e che sono arrivati al governo negli anni Ottanta. Per riassumere l’intento dell’autore, costoro non avrebbero percepito la dimensione religiosa dell’insurrezione del 1954 :

Ciò che la sinistra ha sottostimato, una volta ancora, è la forza autonoma delle rappresentazioni religiose e della fede. Non ha preso coscienza che ovunque nel paese, tanto nel popolo quanto fra i maestri, la formazione coranica costituiva da molto tempo una «base inespugnabile».

Da qui le loro disillusioni.

La vendetta di Marx

Andiamo oltre l’idea di base che la « la generazione FLN » fosse al governo e ricordiamo che coloro che si opposero alla guerra d’Algeria sono stati, pressoché sino alla fine, una minoranza. Durante i primi anni di questa guerra senza nome non sono stati che una ristretta minoranza: coloro che vennero chiamati i “porteurs de valises”2. É vero che sfiorarono la questione della dimensione musulmana dell’insurrezione del 1 novembre 1954. E, secondo Birnbaum, sarebbe questa a spiegarne il fallimento o, quantomeno, il fatto che non abbia soddisfatto l’ideale che vi era stato proiettato.

Laddove l’indipendenza delle vecchie colonie, destinata ad emancipare gli oppressi dagli antichi pregiudizi, aveva spesso condotto in realtà al ritorno delle forze che facevano appello a un patrimonio religioso millenario.

Veramente? In Cina o in Vietnam, nel Sud Africa o in Messico, è stato questo patrimonio religioso ad aver trionfato, o piuttosto la preminenza di strutture “tradizionali”, non necessariamente legate alla religione? Quando studiamo i movimenti di liberazione nazionale che si sono sollevati in 5 continenti tra gli anni ’50 e ’70, vediamo che i loro programmi sono generalmente colmi di parole d’ordine rivoluzionarie, e scritti nella lingua — pressoché universale all’epoca — del marxismo. Il fondo dell’aria era rosso. Questi movimenti si richiamavano al proletariato internazionale e al socialismo. Il Partito Congolese del Lavoro faceva riferimento al marxismo-leninismo più ortodosso, così come il Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola (MPLA) e il Partito Socialista Yemenita pretendeva di costruire un « socialismo scientifico » in uno dei paesi più poveri del pianeta. Ovunque venivano scanditi slogan internazionalisti, innalzata la bandiera rossa, « rossa del sangue dell’operaio », si brandivano i ritratti di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Zedong. A cosa è dovuto dunque il fallimento di queste esperienze terzomondiste? Alla religione?

Non bisognerebbe invece leggere in queste sconfitte, più semplicemente, la vendetta di Marx, che nell’evoluzione delle società affermava il carattere primario dell’« infrastruttura » — vale a dire dei rapporti di produzione economica, delle « forze produttive » — rispetto alle « sovrastrutture » (politiche, ideologiche)? Si può costruire una società « avanzata » saltando le tappe dello sviluppo, o il socialismo potrà essere generato solo quando il capitalismo sarà arrivato al culmine della sua mondializzazione, delle sue contraddizioni? Allo stesso modo, possiamo rintracciare il risultato di un patrimonio coloniale condiviso, il peso della guerra fredda, il modello del partito unico visto come un fattore essenziale di sviluppo. E’ possibile trattare il tema del fattore musulmano oggi, senza tornare sull’intervento sovietico in Afghanistan ed il suo sfruttamento da parte degli Stati Uniti, che hanno gettato le basi di ciò che sarebbe diventato in seguito Al-Qaeda ?

Un tema controverso che Birnbaum non tiene in considerazione, avendo menzionato i « portatori di valigie ». Insieme a Francis Jeanson3, un certo numero di loro, disillusi sulla possibilità di una rivoluzione in Europa, videro nell’Algeria un futuro possibile, incluso quello della Francia. Più realista, senza dubbio perché era cresciuto in Egitto e conosceva meglio quelle società, il militante comunista e anti-colonialista Henri Curiel spiegò che una rivoluzione fatta prevalentemente dalle masse contadine non avrebbe potuto costituire un modello per il mondo sviluppato. Bisogna spiegare gli insuccessi del « modello algerino » attraverso l’Islam, o con il carattere profondamente tradizionale della società, paradossalmente rinforzato dalla sua destrutturazione barbara e da 130 anni di « civilizzazione », che hanno favorito il rafforzamento di ciò che era percepito dagli algerini come tradizione, una tradizione che gli avrebbe permesso di resistere alla volontà straniera di sradicarli ?

Altri fattori hanno contribuito alle sconfitte del Terzo mondo, dalla persistenza della dominazione economica del Nord ai tanti interventi occidentali contro i paesi di recente indipendenza; contro il presidente egiziano Gamal ‘Abdel-Nasser; contro i movimenti di liberazione del Sud Africa — tra cui il Congresso Nazionale Africano (African National Congress, ANC) di Nelson Mandela, definito « terrorista » da Margaret Thatcher o Ronald Reagan. Ma questi elementi non sono mai neanche menzionati dall’autore, che preferisce limitarsi al mondo della filosofia, delle idee pure, lontano dalla realtà un po’ sordida della politica e dell’economia.

Il « modello algerino »

Il futuro algerino non è stato sicuramente scritto né nel « grande rullo » del determinismo a cui credeva Jacques le Fataliste nel dialogo filosofico di Denis Diderot, né nel Corano. Non è stato stabilito all’indomani della Seconda guerra mondiale. Dai massacri di Sétif, Guelma e Kherrata l’8 marzo 1945, fino alla politica della « terra bruciata » coloniale, le autorità francesi hanno spinto verso la militarizzazione della rivolta per la quale l’Algeria continua a pagare un grave tributo, perché ha facilitato la vittoria, in seno al FLN, delle tendenze più militariste e più autoritarie a detrimento di quelle politiche. E se si menziona l’Islam, sarebbe bene ricordare che la versione dominante dell’Islam in Algeria nel 1954 differiva ampiamente da quella che si è poi imposta negli anni ’80 o ’90. All’epoca, molti villaggi algerini non avevano neanche una moschea, e il digiuno nel mese di Ramadan era ben meno rispettato di oggi. Non esiste « un » Islam, ma interpretazioni di testi in linea di principio immutabili, e tuttavia sempre interpretati da esseri umani raramente in accordo tra loro sul senso profondo della parola divina. E che giustificano pratiche molto diverse da un estremo all’altro di ciò che chiamiamo mondo musulmano.

Quanto alla questione delle donne, si è posta altrove negli stessi termini che in Algeria, senza che l’Islam avesse molto a che vedere con questo. Anche se il Fronte Popolare della Liberazione dell’Eritrea (FPLE), organizzazione marxista-leninista con influenze maoiste, contava un gran numero di combattenti donne, la vittoria ha poi portato ad una loro emarginazione4. E ancora, potremmo ricordare le guerriglie latino-americane, i cui vertici sono stati influenzati da un insieme di machismo e patriarcato, combinato ad un cattolicesimo ostile al diritto all’aborto. L’emarginazione delle donne — o il loro essere considerate oggetti sessuali — non è monopolio né dell’Islam né della religione, cosa che è stata dimostrata dagli stupri di massa usati come arma di guerra, ad esempio in Bosnia o in Congo. Un recente sondaggio Ipsos (dicembre 2015) sulla « cultura dello stupro » in Francia dovrebbe portarci ad una certa modestia nel trattare questo tema.

Non bisogna sottovalutare il ruolo dell’Islam in Algeria. Come sottolinea la sociologa Monique Gadant, troppo poco conosciuta, citata da Jean Birnbaum, l’Islam è anche un modo di affermare un’identità propria, di rompere con 130 anni di disprezzo e di oppressione.

Per i leader della rivolta, questa insistenza sulla rinascita islamica è un modo di rompere con la Francia, con la sua dominazione e il suo progetto di assimilazione, che implica la negazione costante della cultura algerina, a cominciare dal suo patrimonio spirituale.

L’Islam di tutte le resistenze

Potrebbe essere altrimenti ? L’Islam era stato al cuore di tutte le resistenze, dal Maghreb al Vicino Oriente, cosa che spiega il suo radicamento, quello che scosse Guy de Maupassant nel 1883, nel suo trattato intitolato «La provincia di Algeri» : « Gli arabi che credevamo civilizzati, che in tempi ordinari si mostrano disposti ad accettare i nostri costumi, a condividere le nostre idee, ad assecondare le nostre azioni, tornano improvvisamente, durante il Ramadan, selvaggiamente fanatici e stupidamente ferventi »5.

Le interpretazioni dell’Islam, è bene ripeterlo, sono state spesso contraddittorie, anche sul piano sociale. « C’è l’Islam dei poveri e l’Islam dei ricchi», sosteneva il presidente algerino Houari Boumediene. O, come spiegava il vecchio presidente burkinabé Thomas Sankara: « La Bibbia e il Corano non possono servire allo stesso modo colui che sfrutta il popolo e colui che è sfruttato6. » Pertanto la volontà di indipendenza si è espressa non solo in campo politico, ma anche in quello della cultura, nel rifiuto di replicare un modello occidentale presentato spesso come universale e « unico », negando la sua propria dimensione oppressiva rispetto alle aspirazioni progressiste che venivano da altre culture. Si trattava non tanto di « desacralizzare il potere profano »,, come ha scritto Birnbaum, ma di desacralizzare l’universalismo europeo per costruire le condizioni per ideali costruiti e inventati in comune. Il fatto di non mettere mai in discussione questo « universalismo », che ha ripetutamente nascosto i peggiori crimini - dalle imprese coloniali alla volontà di democratizzare l’Iraq - è il punto debole di quest’opera.

Un’ultima osservazione sul capitolo algerino. Sì, i militanti furono ingenui, come spesso accade: ma nondimeno, furono dal lato giusto della Storia. E se si entusiasmarono troppo, non fu perché mancavano di lungimiranza rispetto all’Islam — altrimenti bisognerebbe spiegare perché lo furono anche verso altre cause, come Cuba o il Vietnam.

Torniamo al punto principale enunciato da Birnbaum: l’incapacità della sinistra di prendere sul serio la religione. Condivido questo punto di vista, ma non il modo in cui il dibattito viene presentato. Prima di tutto, e contrariamente a ciò che sembra credere, il pensiero di Marx non si è limitato alle Tesi su Feuerbach (1844). Tutta la sua opera mostra l’interesse che riservava all’ideologia e alla sua relativa autonomia rispetto alle strutture economiche. Basta leggere Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte per convincersi della complessità del pensiero marxista, che non si riduce al determinismo economico.

L’essenzializzazione delle società musulmane

D’altra parte, in nessun passaggio vengono definiti né la sinistra né l’Islam, e ancor meno l’islamismo. È davvero possibile mettere sullo stesso piano movimenti come Hezbollah o Hamas, che si inscrivono in una specifica logica nazionale, e l’organizzazione dello Stato Islamico (Daesh)? Sì, l’istituzione religiosa di Al-Azhar (che, ricordiamolo, sostiene il potere del Presidente egiziano ‘Abdel-Fattah Al-Sisi (alleato della Francia) è un’organizzazione molto conservatrice. Per l’autore, le sue prese di posizione sono « l’ennesimo indizio della difficoltà di tracciare un confine netto tra l’Islam e l’islamismo ». Solo Al-Azhar rappresenta l’Islam ? Sarebbe il caso di fare dei collegamenti tra i regimi dittatoriali nel mondo arabo e la lettura dell’Islam più che conservatore che si è imposta a partire dagli anni 70. Durante gli anni della rivolta in Egitto, prima del 2011 e del colpo di stato del 3 luglio 2013, ci sono stati animati dibattiti sulla religione, il suo ruolo, e anche sull’ateismo, che hanno portato a veri e propri scontri in seno ad Al-Azhar tra i religiosi, confermando che la democrazia è il solo quadro che permette di combattere le idee reazionarie. Tuttavia, questa istituzione è stata ripresa in mano dal potere, che la usa a suo solo profitto, e sicuramente non per imporre una visione aperta dell’Islam.

Infine — e arriviamo ad un altro limite nei propositi dell’autore — l’Islam non determina che una piccola parte della vita dei musulmani nel mondo: non le imprese né le scuole (anche se ci sono corsi di religione), né gli eserciti, né la cultura funzionano esclusivamente secondo « leggi islamiche ». E se viene spesso affermato nelle Costituzioni che la shari’a è una delle fonti del diritto, rispetto alle fonti principali della legislazione ha poche conseguenze pratiche al di fuori del campo – pur molto importante – degli Statuti Personali. Sarebbe bene ricordare inoltre che la shari’a non è un codice giuridico definito, essendo a sua volta passibile di interpretazioni multiple e sottoposta al principio del « dubbio », che nell’ambito della giustizia gioca un ruolo maggiore7.

In breve, non bisogna « sovra-islamizzare » le società musulmane, né ridurle al fattore religioso. La comparazione tra la condizione delle donne in India e in Pakistan dovrebbe mirare a superare il divario musulmani/non musulmani, per riflettere piuttosto sul patriarcato.

Il dibattito nella sinistra e tra i marxisti rispetto alla religione non risale a ieri: se risorge, è a causa dell’Islam, essendosi il Cristianesimo abituato — sebbene in forme molto diverse da un paese all’altro — alle nostre terre europee laicizzate. Birnbaum si interroga sull’autonomia della religione rispetto alle nostre radici sociali, che vede come una prova dell’incapacità della sinistra a riflettere sul problema.

Ciò che dovrebbe stupirci, o almeno preoccuparci, non è che l’islamismo armato abbia delle radici sociali, ma piuttosto che manifesti una notevole autonomia rispetto ad esse.

L’autore cita, a sostegno della sua tesi, l’immensa diversità dei protagonisti dell’islamismo, in particolare di persone provenienti da classi e ambienti favorevoli, non necessariamente oppresse o frustrate. Tuttavia, quale movimenti contestatario di portata mondiale non ha conosciuto questa stessa diversità ? Occorre forse ricordare il ruolo di numerosi intellettuali – se non « borghesi » e aristocratici - nei grandi movimenti anarchici, socialisti o comunisti, da Jean Jaurès a Lenin, da Pierre Kroptokin a Fidel Castro...E la dimensione comunitaria dell’Islam che affascina Birnbaum è davvero riservata agli islamisti ? La ritroviamo, ad esempio, tra i commessi viaggiatori dell’Internazionale Comunista negli anni ’20, essendo anche loro « fratelli », per riprendere la formula di Régis Debray.

In cosa « l’autonomia della religione » rispetto alle questioni sociali, è più importante di quella di altre ideologie ? Birnbaum non risponde alla domanda, e sottostima totalmente le riflessioni di Marx che avevano messo ampiamente in luce l’autonomia delle ideologie rispetto alle infrastrutture. Nei suoi quaderni preparatori alla stesura de Il Capitale, e in quest’ultima opera (Libro I), afferma che il suo lavoro sull’Europa, l’India, la Cina o la stessa Russia avrebbe dovuto essere studiato in maniera specifica perché la loro storia non rientrava nel quadro degli « stadi successivi » dello sviluppo: società primitive, schiavitù, feudalesimo, capitalismo. Marx introduce poi il modo di produzione asiatico e torna sulle forme della proprietà collettiva che si sono mantenute in vita in questo paese (e ugualmente in Russia).8

« L’oppio dei popoli »

L’epoca è cambiata e il dibattito si pone in nuovi termini. L’emergere di movimenti religiosi nel mondo musulmano solleva sfide inedite. Le risposte da individuare non sono semplici ed è vero che la sinistra, « moderata » o « radicale », è confusa e fa fatica a ritrovarsi. Ma possiamo davvero sostenere che la sinistra osserva un « silenzio religioso » sull’Islam? Non sarà che, al contrario, l’ostilità verso questa religione accompagna da qualche decennio la crisi degli ideali socialisti e dei movimenti nazionalisti? Da oltre 40 anni quante sono state le coperture giornalistiche che hanno affermato l’impossibilità di parlare di Islam, che il soggetto fosse tabù ?9. Quanti articoli sono stati dedicati a denunciare « questo silenzio religioso » ?

Certo, dopo gli attacchi di gennaio o di novembre 2015 la maggior parte dei politici ha finto di attenersi ad un discorso « moderato », per questioni meramente tattiche, ad eccezione – e non è poco – di Manuel Valls10 e della sua guerra contro « l’islamo-fascismo ». La destra non ha adottato una posizione molto differente. Indipendentemente dal sottotesto, il discorso dei principali media ha replicato a ripetizione quello di numerosi intellettuali, specialmente di sinistra, descrivendo « l’islamismo » — una sorta di concetto « guazzabuglio » che tiene insieme i Fratelli Musulmani e Al Qaeda — e più o meno esplicitamente l‘Islam, come qualcosa che doveva « riformarsi, senza smettere di ripetere quanto fosse nemico del « nostro modo di vivere ». I responsabili degli attentati non erano forse quelli che volevano impedirci di criticare le religioni o di bere alcool nelle terrazze dei bar? Per correggere il suo Primo ministro che aveva parlato di « guerra di civiltà », il Presidente francese ha preferito dire che eravamo in uno « scontro per la civilizzazione »: la differenza tra le due formulazioni è che Valls considera i nostri nemici come parte di un’altra civilizzazione, e François Hollande, più semplicemente, come dei barbari.

La mancanza di visione della sinistra rispetto alla religione avrebbe creato un’indulgenza colpevole rispetto all’Islam, sostiene Birnbaum. Affrontando il dibattito sollevato dalla celebre candidata velata presentata dal Nuovo Partito Anticapitalista (NPA) alle elezioni regionali del 2010, ha scritto che coloro che non facevano distinzioni tra il velo e il perizoma erano « rappresentativi di una larga parte della sinistra » ! Quando è noto che la sinistra intellettuale e sindacale (francese) è stata all’avanguardia nell’esclusione delle giovani donne velate dalle scuole — e più ampiamente della loro marginalizzazione nella società — si resta basiti da una tale approssimazione dell’autore che afferma, inoltre, che

da quando l’islamismo si è imposto nel paesaggio politico internazionale, sono stati molti i militanti tentati da un’alleanza, fosse pure necessaria, con il diavolo. La pia speranza di poter eliminarli in seguito...

Tuttavia, solo piccole minoranze hanno davvero aderito a questa tesi (l’autore cita ampiamente Chris Harman, uno dei teorici del Socialist Workers Party britannico, la cui influenza in Francia è prossima allo zero). Si potrebbe dire che la sinistra parla sempre più di religione da quando ha scoperto questo nuovo avversario, l’Islam, più facile da combattere della disoccupazione o delle disuguaglianze, per non parlare della lotta contro il dominio della finanza che denunciava un tempo.

Birnbaum aggiunge :

Sappiamo cosa ne è stato (di questa alleanza). Ovunque l’islamismo ha trionfato, non è rimasto più nulla della sinistra, di tutte le sinistre, riformiste o rivoluzionarie.

Ma dove, al di fuori dell’Iran, l’islamismo avrebbe trionfato ? Potremmo citare il Sudan o il Pakistan degli anni dal 1978-1988 di Muhammad Zia Ul-Haq, e tuttavia la sinistra si oppose a quelle dittature sostenute dall’Occidente. L’autore conclude che è meglio militare nelle democrazie borghesi che sotto una dittatura islamista. Eppure nel mondo arabo, coloro che hanno schiacciato la sinistra non sono gli islamisti, ma piuttosto i poteri autoritari cosiddetti « laici ».

Bisogna quindi evitare di esaminare il corpus musulmano e il suo contenuto? No, a condizione – ancora una volta – di non essenzializzare i musulmani riducendoli alla loro appartenenza religiosa, di non ridurre la vita politica, sociale, culturale, la sua straordinaria diversità, ad un concetto come « Islam ». É più utile, quando si fa riferimento ai movimenti islamisti, uscire dalla griglia analitica puramente religiosa, per tentare delle comparazioni che abbiano senso. In un articolo pubblicato nel gennaio del 200011 il professore americano Dan Tschirgi tentava un parallelismo tra l’insurrezione delle Gamaa Islamiyya (Gruppi Islamici) in Egitto e il movimento zapatista, tra i modelli statali messicano ed egiziano, tra le regioni abbandonate dell’alto Egitto e il Chapas, tra lo spazio del religioso e del sacro. « Parallelismo, in questo caso, non vuol dire naturalmente equivalenza

Per un nuovo internazionalismo

Torniamo, in conclusione, sull’uscita dell’opera e la sua critica del diktat che si eserciterebbe in Francia: « Tutto ciò (azioni violente, organizzazione dello Stato Islamico, etc) non ha niente a che vedere con l’Islam. » Oltre al fatto, come abbiamo già detto, che la responsabilità dell’Islam viene ribadita senza sosta da una maggioranza di intellettuali e di media, Birnbaum sottolinea un’evidenza: tutti questi movimenti o azioni si compiono in nome dell’Islam. Quali conclusioni ne traiamo, dunque? Cosa diremmo se questa formula fosse applicata al marxismo? Le Brigate Rosse italiane, l’Armata Rossa giapponese, la Banda Baader, Pol Pot e gli Khmer Rossi, il Sentiero Luminoso in Perù avevano a che fare con il marxismo? Si riferivano tutti a Marx, e questo ci insegna qualcosa di davvero essenziale su questi movimenti? O piuttosto ci conferma semplicemente che il linguaggio dominante all’epoca era il marxismo, e che tutti vi facevano riferimento? Oggi, spesso, e non solo in area musulmana, la radicalizzazione avviene in nome dell’Islam. Stiamo assistendo ad una « radicalizzazione dell’Islam » o, come ha scritto il sociologo Alain Bertho12, ad un’ « islamizzazione della radicalità », formula ripresa da Olivier Roy e fortemente rifiutata da par Gilles Kepel?

Birnbaum ha creduto di vedere nella « conversione » di alcuni leader della sinistra del Maggio 1968 che « le impasse della rivoluzione sfociano direttamente nella ricerca di una redenzione. Perché la politica torna continuamente alla spiritualità, invece che provare a cacciarla, dopo averla scimmiottata ?» Ma chi sono le pecorelle di Benny Lévy convertite al Giudaismo ortodosso in Francia? E Alain Badiou, se scrive di San Paolo13, ha trovato l’illuminazione sulla via di Damasco ? Forse sarebbe stato più interessante indagare la ragione per cui molte donne e uomini di sinistra hanno rinnegato le proprie convinzioni, aderendo alla formula di Francois Furet, che Birnbaum riprende a suo vantaggio: « Noi qui condannati a vivere nel mondo nel quale viviamo. » Non è la rinuncia a tutte le utopie, prima fra tutte quella dell’uguaglianza e della difesa degli oppressi, che spiega questo ritorno del religioso?

« L’Islam sembra ormai, conclude l’autore – la sola spinta spirituale in cui l’universalismo surclassa l’internazionalismo della sinistra sociale e sfida l’egemonia del capitalismo mondiale. » Falso. Quell’Islam, nelle sue tendenze dominanti, non sfida affatto l’egemonia del capitalismo mondiale, al contrario ne accetta le regole. divenuto, in molti casi, un « Islam di mercato ». É lì che risiede la possibilità della sinistra di rifondarsi, restando fedele ai valori che ne hanno fatto un tempo la sua forza, comprendendo che il mondo è cambiato, che il socialismo sognato al tempo della grande industria non è più una soluzione, e infine che l’universale occidentale è moribondo, e bisogna inventare nuove forme di internazionalismo. Un internazionalismo che incorpori la ricchezza delle resistenze attraverso il pianeta, quali che siano le loro etichette, contro tutte le dominazioni, contro tutte le dittature, che siano teocratiche, atee… o laiche.

1Seuil, coll. Essais, gennaio 2016. — 240 p. ; 17 euros.

2In francese letteralmente i “portatori di valigie”, espressione usata per definire coloro che decisero di aiutare concretamente il FLN portando clandestinamente fondi in Algeria, ndt

3Anticolonialista, creatore nel 1975 della « Rete Jeanson, composta da militanti francesi, che operò come gruppo di sostegno al FLN durante la Guerra d’Algeria, prevalentemente trasportando fondi raccolti per il FLN e fornendo documenti falsi e nascondigli.

4Si veda Silvia Perez-Vitoria, « Les femmes d’Erythrée ne désarment pas », Le Monde diplomatique, Gennaio 1997.

5Nella sua conclusione di Al Sole (1881), che talvolta esprime una simpatia verso l’espropriazione degli indigeni : « E’ certo che la terra, nelle mani di questi uomini (i coloni) donerà ciò che non ha mai donato alle mani degli arabi; è altrettanto certo che la popolazione primitiva sparirà poco a poco; è indubbio che questa sparizione sarà molto utile all’Algeria, ma è raccapricciante che abbia luogo nelle condizioni in cui si sta verificando »

6Citato da Pierre Tevanian, « La haine de la religion, La Découverte, 2013.

7Intisar A. Rabb, Doubt in Islamic Law. A History of Legal Maxims Interpretation and Islamic Criminal Law, Cambridge University Press, 2015.

8Leggere Alain Gresh, « Marx et les marges du monde », Nouvelles d’Orient, 8 août 2001.

10primo ministro, partito socialista NDT

11« Des islamistes aux zapatistes, la révolte des “marginaux de la terre” », Le Monde diplomatique, janvier 2000.

12Les Enfants du chaos, La Découverte, 2016.

13Saint Paul. La fondation de l’universalisme, PUF, 1997.