Diario da Gaza 8

“Coco, la tua vignetta ci ritrae come dei selvaggi”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Rafah, 19 marzo 2024. Persone ispezionano i veicoli distrutti nel corso dei bombardamenti israeliani durante la notte.
SAID KHATIB / AFP

Mercoledì 20 marzo 2024.

La notte tra lunedì e martedì è stata terribile, una notte di sangue sulla città di Rafah.

Dei pesanti bombardamenti hanno causato la morte di 15 persone, per lo più donne e bambini.

I bombardamenti sono cominciati nel pomeriggio, intorno alle 17, molto vicino a dove viviamo. I bambini – quelli di mia moglie Sabah, che considero come miei figli, e nostro figlio Walid – erano molto spaventati. Walid, che ha due anni e mezzo, si è svegliato durante la notte. Mio figlio reagisce sempre allo stesso modo: applaude quando sente un’esplosione. Gliel’ho insegnato io quando vivevamo ancora a Gaza City, quando c’erano bombardamenti ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, o quando si rompevano le vetrate dell’edificio dove vivevamo. Lo facevo per fargli credere che le esplosioni facessero parte di uno spettacolo, che fossero fuochi d’artificio.

E così, quando lunedì sono iniziate le esplosioni, Walid ha applaudito, e mi ha guardato negli occhi, perchè applaudissi insieme a lui, come facevamo prima. Così l’ho guardato con un sorriso e ho applaudito anch’io. Stessa cosa di notte, quando ci sono stati i bombardamenti intorno alle 2 del mattino. Ho fatto il mio solito sorriso da clown, e la cosa ha funzionato. Ma non funziona con gli altri bambini, che hanno tra i 9 e i 13 anni. Soprattutto con il più grande, Moaz, che ha molta paura delle bombe. È venuto accanto a me: dormiamo tutti nella stessa stanza, su dei materassi, uno accanto all’altro. Gli ho detto: “Non ti preoccupare, è un rumore lontano...”. Ma con lui è più difficile mentire, perché capisce quello che sta succedendo. Ho cercato di convincerlo che a noi non succederà. E allora mi ha chiesto:

— E quando il rumore sarà vicino? Saremo noi il prossimo bersaglio? La prossima casa sarà la nostra?
— Ma no, perché dovrebbero prenderci di mira? Per quale motivo? Noi non c’entriamo niente con tutto questo.
— Sì, ma anche tutti quelli che sono morti, non c’entravano niente.

“Mio figlio continua a guardarmi poco convinto”

Degli amici di Moaz sono morti nello stesso modo, e tutta la famiglia è morta sotto le bombe. Persone che non c’entravano nulla con le fazioni, l’ala militare di Hamas, o con la politica. Ogni volta che cerco una giustificazione, mio figlio mi risponde con i fatti. L’unica cosa che posso dire a Moaz è: “Non preoccuparti, Dio ci protegge, non succederà nulla. Tra qualche anno, rideremo di tutto questo. Diremo: “Ti ricordi quando ti sei svegliato e avevi paura?”.

Il problema è che non sempre riesco a convincerlo. La cosa peggiore è quando mi dice: “Però hanno già ucciso dei giornalisti, e anche tu sei un giornalista”. In quel caso non riesco a tranquillizzarlo. E allora gli dico:

Non preoccuparti, sono un giornalista, ma non sono certo una star. Di solito puntano ai nomi famosi, mentre io sono solo un piccolo giornalista. Cerco solo di fare il mio lavoro. Non sono così famoso da essere un bersaglio. Non rappresento un pericolo per gli israeliani.

Ma Moaz continua a guardarmi poco convinto.

Sto cercando di controllare la mia paura, e un po’ anche quella di mia moglie. Ma non riesco a controllare quella dei bambini. Loro vedono tutto. Non posso nascondere quello che sta succedendo. Lo vedono che sono sempre connesso per cercare notizie. Non parlo mai davanti a loro di quello che è successo, dei massacri, delle morti. Anche quando le bombe sono cadute vicino a casa nostra, ai ragazzi non ho detto che c’erano stati morti e feriti. Ma non sono piccoli come Walid. Hanno degli amici nel quartiere, commentano le notizie, non c’è niente che gli sfugga. La loro paura è costantemente alimentata dai massacri. E so che dopo la guerra, se ne usciremo vivi, ci sarà tanto lavoro da fare per questi bambini, e soprattutto per Moaz. Quando vede suo padre applaudire e ridere, Walid pensa che il pericolo si possa più o meno gestire e che, in qualche modo, è al sicuro perché il suo papà è lì accanto a lui.

“Non posso proteggere i miei figli dalla morte”

Ci sarà molto da fare per questi bambini di Gaza, che sono forse un milione, perché i loro genitori non sono in grado di proteggerli. Anch’io mi sento impotente. Proteggerli significa non solo trovare un rifugio, ma una casa in muratura invece di una tenda. Bisogna dire ai bambini di non avere paura, che siamo accanto a loro. Sanno che, anche se sono vicino, non vuol dire che non possa morire, angosciarmi o essere ferito. Può funzionare con Walid, ma non con gli altri. I grandi sanno che la presenza fisica di un genitore non li protegge.

Cerco di fare di tutto per i miei figli, trovare un posto dove possano stare più o meno al sicuro, un posto che li protegga dal freddo, dalla pioggia e dal vento. Ma non sono in grado di proteggerli dalla morte, non posso salvarli dall’essere presi di mira dagli israeliani. Mi sento così impotente, ed è questo che mi spezza il cuore quando esco la mattina per andare al lavoro o per cercare beni di prima necessità come acqua e cibo. Quando guardo negli occhi di Walid o in quelli dei bambini di Sabah, vedo tutte le immagini che ho visto, da giornalista, negli ospedali o nei luoghi che sono stati bombardati. Verrà a trovarmi in ospedale o all’obitorio, a dirmi addio senza capire che non ci sono più? Oppure, sarò io ad andare all’obitorio o sotto le macerie, sperando che se ne vada in pace?

Non mi piace parlare di queste cose, ma è una storia che ritorna sempre, di continuo. È successo a così tanta gente, perché non a me? Perché non a mio figlio o alla mia famiglia? Non c’è un perché con gli israeliani. Parlano di “danni collaterali”, ma i danni collaterali possono riguardare una o due persone, al limite anche 100 persone, ma non 30.000. Questa è solo una cieca vendetta. Ecco la loro logica: saluti un tizio di Hamas e diventi un bersaglio, stringi la mano a uno di Hamas e diventi un bersaglio, il tuo vicino è di Hamas, sei anche tu un bersaglio. Tuo fratello appartiene ad Hamas, e allora anche tu sei un bersaglio. E non solo tu, ma tutta la tua famiglia.

Solo che Hamas è dappertutto. Hamas è tuo fratello, tuo figlio, tuo cugino. Hamas è un tuo collega. Prego Dio quando esco di casa e lo ringrazio quando torno a casa, quando vedo che la mia famiglia è ancora sana e salva, e lo sono anch’io.

“La fame comincia ad arrivare anche a Rafah”

Un’altra arma che non viene considerata è la fame. Walid si è svegliato affamato. Mi ha detto: “Baba [papà], voglio mangiare jaja”. “Jaja” per lui è il pollo, viene dalla parola araba “dajaj”. Gli ho detto che non c’era nessun “jaja”, e così gli ho dato un po’ di cetriolo e un pomodoro, ma lui ha detto: “No, no! Jaja!”. Non la smetteva di piangere. Poco prima, aveva guardato uno dei suoi cartoni animati preferiti su YouTube, e c’era un bambino che mangiava del pollo.

Mi lamento che mio figlio non abbia il pollo, ma almeno ha delle scatolette. Ci sono molti bambini dell’età di Walid nel nord della Striscia, che non hanno nulla da mangiare. E la fame sta cominciando ad arrivare anche a Rafah. Se guardo la foto di Walid prima e dopo l’offensiva israeliana, vedo una bella differenza. Lo stesso vale anche per gli altri miei figli.

In quel momento, ho visto una vignetta di Coco1 pubblicata su Libération, in cui si vedono delle persone che corrono dietro ai topi durante il Ramadan, per mangiare. Suppongo che la vignetta volesse denunciare la carestia a Gaza. Però voglio dirti una cosa Coco: è decisamente poco professionale quello che hai fatto.

La tua vignetta ci ritrae come dei selvaggi che mangiano topi, mentre aspettano l’iftar2 per farlo. Anche volendo considerare lo humour nero, non ti è venuto in mente che bisognava parlare anche di tutto il resto? Nella tua vignetta non fai vedere quelli che stanno dietro a tutto questo, che impediscono di far entrare i sacchi di farina e che stanno uccidendo 2,3 milioni di persone. Se non sai cosa sta succedendo a Gaza, è un problema serio. Se lo sai, è anche peggio.

“La tua vignetta ci umilia”

Non siamo dei selvaggi. Siamo esseri umani, ma veniamo massacrati e bombardati. Abbiamo perso tutto. Abbiamo perso i nostri figli, i nostri genitori, le nostre imprese, i nostri posti di lavoro. Abbiamo perso tutto, ma abbiamo sempre mantenuto la nostra dignità. E la tua vignetta tocca la nostra dignità, umiliandoci.

Nella redazione di Libération, sanno molto bene cosa sta succedendo a Gaza. È vergognoso che l’abbiano pubblicata. Non capisco perché debbano sempre umiliarci. Ci umiliano quando veniamo bombardati. Ci umiliano quando lasciamo le nostre case per essere sfollati al sud o in qualche altro posto. Ci umiliano quando ci danno da mangiare con il paracadute.

Giù le mani dalla nostra dignità. Nessuno potrà togliercela.

Gli abitanti di Gaza hanno perso la vita per andare a fermare i camion delle consegne di aiuti, sapendo che sarebbero morti. Ma hanno preferito morire sotto le bombe israeliane piuttosto che finire a mangiare dei topi. Sapevano che sarebbero stati presi di mira dall’esercito israeliano, e, malgrado ciò, hanno preferito morire piuttosto che rinunciare alla loro dignità.

1“Coco” è lo pseudonimo di Corinne Rey, fumettista che collabora con il quotidiano Libération, dopo aver collaborato con diverse testate francesi tra cui “Charlie Hebdo”. Nella vignetta citata, dal titolo “Ramadan a Gaza”, si vede una donna velata che ferma un uomo affamato che rincorre dei topi, dicendogli: «Non prima del tramonto». [NdT].

2il pasto per interrompe il digiuno nel mese di Ramadan