Normalizzazione arabo-israeliana

Gli Accordi di Abramo, espressione di un’alleanza religiosa fondamentalista

Il conflitto nella Striscia di Gaza ha relegato in secondo piano gli accordi di Abramo, una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco stretti con la mediazione dell’ex presidente Trump e siglati nel 2020. Al di là della dimensione geopolitica, c’è un aspetto dell’alleanza che è stato trascurato: nonostante le loro differenze di carattere teologico, i fondamentalisti delle tre grandi religioni monoteiste ne hanno approfittato per formare un fronte comune contro il liberalismo morale e i valori laici – anche se la repressione israeliana a Gerusalemme Est e le violazioni dei luoghi santi minacciano anche questo aspetto degli accordi. (Il testo è stato scritto prima dei recenti eventi che hanno coinvolto la regione)

Il rabbino Levi Duchman accende una menorah gigante a Dubai, Emirati Arabi Uniti, 21 novembre 2021.
Chabad.org/Wikimedia Commons

Al momento della firma degli Accordi di Abramo nel 2020, alcuni detrattori li avevano definiti un cinico esercizio di opportunismo geopolitico. Sotto l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno cercato di negoziare nuovi trattati di pace arabo-israeliani per rilanciare un’egemonia in declino, consolidando così il fronte anti-iraniano grazie alle strette relazioni con gli alleati arabi. E così gli alleati (Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco) hanno accarezzato l’idea di una prospettiva di normalizzazione con Israele per nuovi accordi commerciali, una cooperazione in materia di intelligence, industria della difesa e tra forze armate e altri vantaggi. Il Marocco ha messo in primo piano la peculiarità del suo patrimonio storico (la presenza nel paese di una importante minoranza ebraica) per giustificare il riavvicinamento con Israele, nella speranza che una mano tesa offerta a Tel Aviv avrebbe alleviato la pressione sulla questione del Sahara occidentale, con conseguente riconoscimento di sovranità di Rabat sul territorio.

Infine, dal canto suo, Israele cercava, grazie agli accordi, di migliorare le relazioni internazionali con i paesi arabi con l’obiettivo comune, e non a caso, di contenere il potenziale nucleare dell’Iran.

Esclusione della causa palestinese

Tutti gli alleati traevano così vantaggio dall’esclusione della causa palestinese, decontestualizzata rispetto alle crisi mediorientali durante le rivolte della “primavera araba”. Così, gli Accordi di Abramo rappresentavano un perfetto esempio di cinica realpolitik. Tuttavia, ci sono stati altri stati arabi che hanno assunto diverse posizioni sullo scacchiere geopolitico. L’Algeria aveva scommesso sul fallimento degli accordi, mentre il Qatar aveva preferito ritagliarsi un ruolo super partes di mediatore, come aveva già fatto in Afghanistan.

Ma nonostante la normalizzazione arabo-israeliana sia nata sotto il segno dell’opportunismo geopolitico, gli accordi si sono presto trasformati in qualcosa di molto diverso. La logica strategica che aveva dato origine agli accordi non reggeva più. Dopo il ritiro degli Stati Uniti dal Medio Oriente, gli Stati della regione non avevano più avuto bisogno dell’approvazione americana per discutere di pace, e ciò ha aperto nuovi orizzonti in politica estera.

Non bastava più la paura comune dell’aggressione iraniana a spiegare la normalizzazione arabo-israeliana: il recente riavvicinamento tra Riyadh e Teheran non ha infatti frenato lo slancio teso alla normalizzazione. Anche se c’era una maggior cautela da parte dell’Arabia Saudita visto anche il ruolo simbolico di custode delle due città sante della Mecca e Medina, il regime saudita sta intavolando delle trattive, con la mediazione dell’amministrazione Biden, per ottenere il maggior vantaggio possibile da una pace separata con Israele. La logica della realpolitik spingeva anche alcuni stati arabi a stringere alleanze strategiche con Israele per migliorare la loro situazione economica o politica.

Oltre a una lettura geopolitica, c’è un altro fattore che può far comprendere gli Accordi di Abramo: la radicalizzazione religiosa. Gli accordi raggruppano infatti un’imprevedibile coalizione di paesi che pretende di parlare a nome della loro fede con la terminologia propria degli ideali fondamentalisti. Ma se inizialmente dare agli accordi di pace il nome di Abramo, considerato un profeta da entrambe le religioni dell’Ebraismo e dell’Islam, aveva enfatizzato l’ideale di tolleranza ecumenica tra le religioni ebraica, cristiana e musulmana, oggi fa pensare piuttosto a un’alleanza estremista contro la democrazia liberale.

Le teorie di Samuel Huntington

I fondamentalisti sono diventati predominanti nel contesto politico di Israele e degli Stati Uniti, e una forte presenza anche negli stati arabi. In Israele, i fondamentalisti ebrei di destra sono a capo del governo, dettando la loro agenda sulla questione palestinese. Negli Stati Uniti, l’ala evangelica del Partito Repubblicano ha una forte presa sul movimento conservatore, con molte analogie anche con tendenza populista del movimento Make American Great Again (MAGA) di Trump. Per i paesi arabi che hanno firmato gli accordi di Abramo, la situazione è più complessa. I leader autoritari impongono il controllo statale sull’Islam, mentre finora le comunità religiose radicate nella società, dagli ulema tradizionali ai gruppi fondamentalisti come islamisti e salafiti, potevano coesistere con l’Islam ufficiale. Dal loro punto di vista, la loro è una versione moderata dell’Islam, ma in realtà mettono in pratica un fondamentalismo di Stato. Inoltre, rifiutano la secolarizzazione nel senso filosofico del termine, in quanto monopolizzano e regolano la pratica della fede musulmana nella vita sociale.

Queste tre forze – musulmana, cristiana ed ebraica – dominano nelle rispettive società. Anche le opinioni che potevano avere l’una dell’altra sono rapidamente cambiate, mentre, fino a poco tempo fa, erano divise da una forte rivalità. L’antisemitismo cristiano e musulmano prendeva di mira la diaspora ebraica, mentre i sionisti consideravano la maggior parte dei cristiani e dei musulmani come una minaccia al loro sogno di una patria ebraica. Termini come “crociata” e “jihad” dimostrano chiaramente come ogni movimento fondamentalista intendeva lo “scontro di civiltà”. In questa visione del mondo elaborata dal politologo americano Samuel Huntington, la religione è vista come il fondamento della cultura, e anche i laici sono identificati di fatto con i loro correligionari. C’è una linea di demarcazione che divide il mondo in società considerate omogenee (cristiane, ebraiche o musulmane). Un vescovo francese è quindi visto come più vicino a un massone francese che a un imam immigrato dal Maghreb.

Questa visione della rivalità interreligiosa, tuttavia, è stata sostituita da un’alleanza che intende promuovere dei valori comuni. Le guerre culturali hanno preso il posto del vecchio paradigma huntingtoniano dello scontro di civiltà. Oggi, ogni fazione religiosa non è più contraria a stringere alleanze con i suoi lontani parenti abramitici contro i suoi confratelli e consorelle più stretti ma laici – ebrei, cristiani o musulmani che sono in disaccordo con la loro teologia e ne criticano le condotte politiche. Negli Stati Uniti, i cristiani evangelici vedono il liberalismo secolare come una minaccia uguale, se non superiore, a qualsiasi altra religione rivale. I fondamentalisti cristiani stanno cercando di mettere in piedi una coalizione mondiale di conservatori religiosi di ogni fede per combattere il nemico ateo. Facendo leva sul nazionalismo bianco, stringono alleanze con i populisti europei, rimanendo diffidenti verso ogni politica di sinistra e considerando Putin un crociato cristiano.

Comunità politico-religiose radicalizzate

Nel contempo, i gruppi ebraici ultra-ortodossi hanno scosso la politica israeliana. I rapporti tra questi movimenti e gli ebrei secolarizzati sono così tesi che i primi non considerano nemmeno più come ebrei i secondi. Non si mobilitano più per difendere la diaspora contro l’antisemitismo, perché gran parte di quella diaspora si è secolarizzata, non accentando le loro opinioni politiche e teologiche. E così quest’ala fondamentalista ebraica non vede alcun problema nell’allearsi con i populisti occidentali antisemiti che sostengono anche i nazionalisti cristiani bianchi. Ad esempio, il premier Netanyahu ha definito il primo ministro ungherese Viktor Orban “un vero amico di Israele”, malgrado gli attacchi antisemiti contro il miliardario americano George Soros. Nel maggio 2023, una delegazione dei Democratici Svedesi, un partito di matrice nazionalista e populista di destra con un programma che vuole il divieto della circoncisione, si è recata in visita in Israele.

Nel Golfo, gli stati arabi che prima sostenevano di rappresentare l’Islam mondiale hanno fatto un passo indietro. In Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman ha abbandonato la tradizionale posizione saudita nel promuovere gli ideali wahhabiti come strumento di soft power. E mentre il re Salman conserva il suo titolo di custode dei luoghi sacri della Mecca e Medina, né i leader del paese né la maggior parte degli altri governi arabi difendono le posizioni religiose del passato, che una volta erano al centro delle loro rivendicazioni politiche sulla scena internazionale. Non fanno più fronte comune con la difficile situazione dei palestinesi. Né tantomeno hanno fretta di difendere i musulmani vittime dell’islamofobia in Occidente o le minoranze musulmane perseguitate, come il popolo uiguro1 in Cina.

Sono tre comunità “politico-religiose” radicalizzate che nutrono anche una profonda ostilità verso le voci democratiche all’interno delle loro società. Per i fondamentalisti ebrei di Tel Aviv, il nemico è la corrente ebrea laica che cerca di mettere un freno ai peggiori eccessi dell’espansionismo sionista in Palestina e all’influenza ultra-ortodossa sullo Stato israeliano. Gli evangelici americani odiano i liberal che sostengono il cosmopolitismo e l’inclusione politica, perché minacciano di globalizzare una nazione che, a loro avviso, deve rimanere radicalmente dominata dai bianchi. Infine, ci sono gli Stati arabi che temono una mobilitazione popolare a favore della dignità rappresentata dalle “primavere arabe”, portata avanti da un gran numero di giovani per i quali l’impegno politico dev’essere all’impronta della tolleranza e dei diritti umani. Per tutti e tre i gruppi, gli Accordi di Abramo rappresentano un comodo connubio di interessi. Da parte israeliana, il processo di annessione della Palestina può andare avanti, gli evangelici americani possono consolidare la loro presunta difesa della civiltà occidentale, mentre i regimi arabi possono rafforzare le loro capacità militari e le tecnologie di controllo della popolazione. È questa la coalizione di radicali religiosi che sostiene gli accordi di normalizzazione.

Israele, l’anello debole

Eppure, questi accordi si trovano d fronte a una minaccia inaspettata. Era piuttosto ingenuo pensare che queste forze religiose e politiche sarebbero rimaste in equilibrio armonioso. È un equilibrio molto precario in Israele – l’unico paese del Medio Oriente con istituzioni liberali, ma soltanto per i cittadini israeliani. Così, è proprio la “democrazia” israeliana ad essere diventata l’anello debole dell’intera alleanza. Le ricorrenti mobilitazioni di massa contro le politiche autoritarie di Netanyahu hanno innescato una crisi politica, con nuovi fattori di instabilità per il governo e possibili elezioni anticipate con conseguente cambio di leadership.

Sono proteste contro la natura sempre più elitaria e illegittima dello Stato israeliano che lascia presagire contraddizioni più profonde all’interno della nuova alleanza religiosa. I sionisti radicali non esitano ad attaccare i cristiani, come a Gerusalemme, con la complicità degli organi giudiziari e polizieschi del paese. Ma devono anche scontrarsi con un’altra realtà: all’estero, i cristiani evangelici considerano Israele come una semplice tappa sulla via del ritorno del Messia, poco interessati alle sorti della sopravvivenza dello Stato ebraico. Analogamente, i ripetuti attacchi dei sionisti radicali alla moschea di Al-Aqsa rappresentano non solo l’espropriazione in atto della Palestina, ma anche un attacco spirituale alla fede dell’intero mondo musulmano e, di conseguenza, contro qualsiasi idea di coalizione tra religioni. In questo senso, l’intero contesto regionale delineato dagli Accordi di Abramo rischia di crollare sotto il peso delle sue contraddizioni.

1Gli uiguri sono un’etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina, soprattutto nella regione autonoma dello Xinjiang, insieme ai cinesi Han.[NdT].