Reportage

In Cisgiordania, l’apartheid israeliano sta distruggendo la vita dei palestinesi

Anche se non con la stessa forma in tutta la Cisgiordania, il sistema di segregazione spaziale e temporale attuato da Israele dall’altra parte della Linea Verde consente di stringere le maglie del controllo nei territori occupati a tutto vantaggio dell’esercito israeliano e dei coloni. Un regime di apartheid che sta relegando la popolazione palestinese ai margini del proprio paese. (Il reportage è stato scritto prima dei recenti eventi che hanno coinvolto la regione)

Il checkpoint di Huwara, all’ingresso sud di Nablus, nella Cisgiordania occupata, 26 febbraio 2023.
Jaafar Ashtiyeh/AFP

Nablus, Cisgiordania settentrionale. La città si estende su una stretta vallata incastonata tra due montagne, il Monte Ebal e il Monte Garizim. Qui un’urbanizzazione sfrenata ha trasformato la vallata in una stretta e soffocante sfilza di caseggiati. Gli edifici sono ammassati uno sull’altro, abbarbicati sulle pendici della collina, come se la città cercasse di spingersi oltre i propri limiti. C’è anche da dire che alla periferia di Nablus, l’esercito israeliano ha costruito dei checkpoints ancora più invalicabili delle montagne circostanti.

Nablus è circondata da decine di insediamenti, tra cui quello di Shavei Shomron a nord-ovest della città, sulla strada per Tulkarem, o Har Brakha, arroccato sul versante meridionale del Monte Garizim. La città è attorniata anche da una serie di “avamposti”, i cosiddetti insediamenti “selvaggi”, sorti senza l’autorizzazione preventiva del governo israeliano, come quello di Sneh Yaakov, costruito nel 1999 su alcuni terreni agricoli palestinesi.

Cresciuto qui a Nablus, Firas1 è nato dopo la costruzione della “colonia selvaggia”. Gli chiediamo di raccontarci la sua vita quotidiana dal momento che il checkpoint israeliano di Huwara, uno dei posti di blocco che circondano la città, è stato appena chiuso dall’esercito fino a nuova disposizione. Situato all’ingresso sud di Nablus, l’avamposto militare prende il nome da un villaggio lì vicino. Nel febbraio 2023, dopo l’uccisione di due residenti di un insediamento da parte di un palestinese, quasi 400 coloni hanno attaccato il villaggio, bruciando non solo un gran numero di case, ma anche auto e negozi. Quella di Huwara è stata una spedizione punitiva che ha provocato una vittima, un abitante del villaggio, oltre a centinaia di feriti.

Mai fidarsi del proprio navigatore GPS

Firas ci racconta il suo punto di vista sulle restrizioni alla libera circolazione che violano il diritto fondamentale alla libertà di movimento, oltre alle costanti minacce subite dai palestinesi. Per lui, questa è una situazione che rappresenta appieno l’apartheid israeliano:

Qualcuno si rende davvero conto di quanti ostacoli dobbiamo superare ogni giorno? Quanti problemi legati al traffico dobbiamo affrontare per andare al lavoro ogni mattina e poter lavorare normalmente, oltre alle difficoltà nel portare avanti la nostra vita familiare? È il momento di dire basta.

Tutto intorno a Nablus, l’esercito israeliano amministra altri checkpoints. Tra i principali ci sono Beit Furik a est, Al-Tur a ovest, che taglia la città dal Monte Garizim, e a sud l’avamposto militare di Awarta. Qui, di fronte all’aumento dei posti di blocco e di un arsenale di dispositivi che costituiscono una vera e propria architettura di controllo della popolazione, è meglio non fidarsi del proprio navigatore: l’app non è in grado, infatti, di adattarsi alle complesse regole istituite dalle autorità di occupazione. E non si riesce a capire come l’app Google Maps potrebbe indicare il percorso più appropriato da seguire a seconda che tu sia “palestinese” o “israeliano”.

Dima ha 34 anni e lavora in una Ong che ha sede sulle alture di Nablus. Ci racconta che, se vuole prendere l’auto per andare dai suoi amici a Tulkarem, a circa 50 chilometri a nord-est della città, deve fare un viaggio di 2 o 3 ore. Se non ci fossero così tanti checkpoints e barriere architettoniche piazzate dai militari, lo stesso viaggio durerebbe solo 30-45 minuti. Per di più, i posti di blocco sono spesso chiusi, a volte tutta la giornata, a causa delle manifestazioni organizzate dai coloni o per svariati altri pretesti. “E nel frattempo”, lamenta Dima, “noi palestinesi non possiamo andare a lavoro, gli studenti non possono andare all’università... La vita si ferma. Qui, 2 km per noi o 2 km per gli israeliani non sono la stessa distanza”.

Wael è originario di Hebron (in arabo, al-Khalil). Ha studiato all’Università Al-Quds di Abu Dis, una città palestinese a est della Città Vecchia di Gerusalemme. “Ho perso vari esami a causa del checkpoint Container e, come tanti studenti, sono arrivato spesso in ritardo alle lezioni”. Il checkpoint vicino ad Abu Dis prende il nome da un container di stoccaggio che un tempo era qui e che fungeva da chiosco per vendere bevande o snack agli automobilisti.

Regole kafkiane

Oggi, questo imponente checkpoint taglia letteralmente in due la Cisgiordania. Per gli studenti e le studentesse palestinesi, lo stress è ancora maggiore perché non sanno mai cosa può succedere ai posti di blocco: “Il giorno in cui dovevo sostenere l’esame di avvocato a Gerico”, continua Wael, “la prova era fissata alle 9:30 del mattino. Ho preso un taxi alle 6 e alle 7:40 ero al checkpoint. Lì, un soldato mi ha chiesto di uscire dalla macchina, mi ha costretto a spogliarmi, lasciandomi così per due ore. Non ho passato l’esame e ho dovuto riprovarci 6 mesi dopo...”.

Per cercare di giocare d’anticipo, i palestinesi si organizzano attraverso gruppi di discussione su Telegram per condividere informazioni sulla situazione delle “strade dell’apartheid”. Le regole sono kafkiane: le autorità militari israeliane rilasciano 101 diversi tipologie di visti per controllare il movimento dei palestinesi. È una vera e propria macchina burocratica che amministra questo sistema di segregazione.

Uri è un pacifista israeliano attivo nel movimento Standing Together, di cui è membro del direttivo nazionale. L’attivista spiega che non deve affrontare gli stessi ostacoli dei palestinesi:

I coloni israeliani che vivono nei territori occupati non sono soggetti a questi ritardi per passare il controllo dei checkpoints, e per loro, lo Stato ha persino aperto delle strade speciali2 per muoversi più facilmente. Come cittadino che vive all’interno dello Stato di Israele e non nei territori palestinesi occupati, non sono soggetto a queste restrizioni in termini di libertà di movimento.

Si tratta di una rete di “strade coloniali” che costituisce uno dei pilastri dell’apartheid in Cisgiordania->. Le restrizioni alla circolazione e le centinaia di ostacoli che impediscono ai palestinesi di muoversi normalmente creano due regimi temporali distinti a seconda della cittadinanza (palestinese o israeliana).

Un sistema discriminatorio che comprende anche molte forme di umiliazione ai posti di blocco, ormai all’ordine del giorno per i palestinesi. Israele mantiene la popolazione palestinese in un sistema di oppressione permanente in cui l’esercito detiene il ruolo di padrone del tempo e dello spazio.

Accettando in pieno questo regime di segregazione, il premier israeliano Netanyahu aveva dichiarato nel 2020: “Quel che questo piano dichiara è che Israele e le sue forze di sicurezza controlleranno militarmente tutto il territorio. [I loro residenti] rimarranno, per così dire, soggetti palestinesi, ma lì sarà applicato il controllo di sicurezza”3.

Una gestione discriminatoria delle risorse idriche

Anche la città di Gerico, situata nella Valle del Giordano, costituisce un chiaro esempio di sistema d’apartheid che colpisce tutti gli aspetti della vita dei palestinesi. Chiamata la “città delle palme” nell’Antico Testamento, Gerico è una città millenaria, un tempo nota per le sue abbondanti fonti d’acqua. Oggi, come nel resto della Palestina, i suoi abitanti non hanno libero accesso all’acqua, come racconta Anwar che fa il tassista:

In pochi anni, a forza di viaggiare in città e nei suoi dintorni, ho potuto vedere come la crescente siccità stia colpendo le nostre zone agricole. Qui soffriremo ancora di più per il riscaldamento globale perché Israele sta monopolizzando l’acqua, vendendoci ciò che dovrebbe essere nostro, mentre i coloni pagano meno cara l’acqua rispetto a noi grazie al sostegno [finanziario] di Israele. La compagnia che ci vende l’acqua ci blocca regolarmente l’accesso, soprattutto durante i periodi di siccità, perché la nostra fornitura passa in secondo piano rispetto a quella degli israeliani e dei coloni. Siamo totalmente dipendenti da Israele, che ci tratta come se fossimo meno di niente”.

Nel 1995, gli “accordi di pace” di Oslo II hanno diviso le risorse idriche sotterranee della regione, assegnando l’80% agli israeliani e il 20% ai palestinesi. Un “accordo” che non è mai stato rinegoziato. Inoltre, Israele è responsabile – attraverso la sua compagnia nazionale Mekorot – della gestione della fornitura di acqua ai territori occupati, che pompa principalmente dalle falde acquifere della Cisgiordania – un altro mattone nel sistema discriminatorio a cui sono soggetti i palestinesi.

Obey fa l’agricoltore in una città vicino a Tulkarem lungo la Linea Verde. Come molti altri agricoltori, Obey subisce le conseguenze delle restrizioni idriche. Ma se vuole costruire un pozzo sul suo terreno, deve, come tutti i contadini palestinesi, ottenere il permesso da Israele, che lo accorda solo raramente: “Qui lo Stato palestinese non ha alcun potere e quando Israele ci raziona l’acqua, dobbiamo comprare quella che viene dal trasporto su gomma, ma a un prezzo molto più alto. Nel frattempo, le colonie ne fanno un uso abbondante, e spesso dispongono anche di piscine”.

Disuguaglianze in campo sanitario

Ma per Obey, l’ingiustizia non riguarda solo la questione dell’acqua. Nel 1984, quando era ancora un giovane agricoltore, un tribunale israeliano ha chiuso una fabbrica in un villaggio israeliano con l’accusa di inquinare l’ambiente. Con un tono pieno di amarezza, Obey ci racconta com’è andata a finire:

E sapete cosa hanno fatto? Hanno confiscato parte della nostra terra, hanno fatto passare il muro [di separazione] in mezzo, spostando l’impianto chimico che ora contamina il nostro suolo, la nostra aria e le nostre piantagioni, rendendo inutilizzabile buona parte dei nostri campi. Cosa siamo ai loro occhi per permettersi di fare tutto questo?

In un rapporto pubblicato nel 2017, l’organizzazione israeliana B’Tselem ha rivelato il trasferimento da parte di Israele di varie tipologie di rifiuti in Cisgiordania: residui di acque reflue, metalli, solventi, batterie e altri prodotti pericolosi4. Una situazione che mostra chiaramente il meccanismo discriminatorio messo in atto da Israele per proteggere la salute dei suoi cittadini a discapito di quella dei palestinesi.

Firas, il ragazzo di Nablus, denuncia quotidianamente queste violazioni del diritto alla salute, perché lavora come volontario della Croce Rossa palestinese:

L’esercito ostacola sistematicamente i nostri spostamenti e il nostro lavoro, prendendoci costantemente di mira. Molti dei miei colleghi sono stati arrestati e aggrediti anche in divisa, mentre stavano svolgendo solo il loro lavoro. I palestinesi muoiono ai checkpoints perché le ambulanze vengono bloccate in maniera arbitraria”.

Una “giustizia” asimmetrica

In questo contesto in cui i diritti di alcuni sono garantiti a scapito di quelli di altri, non sorprende che non tutti siano uguali nemmeno davanti alla giustizia. Firas sottolinea, ad esempio, che “da mesi, la situazione è sempre più difficile. Non c’è mai stata tanta violenza da parte dell’esercito ma anche da parte dei coloni, con attacchi avallati da Israele. Le Nazioni Unite hanno registrato 621 aggressioni in Cisgiordania da parte dei coloni nei confronti dei palestinesi nel corso del 20225. Obey ci spiega che “proprio qui, la giustizia è una giustizia d’apartheid. Se un colono viene arrestato per violenze, verrà processato da un tribunale civile, non rischiando quasi nulla. I coloni così sanno di poter agire impunemente. Al contrario, noi veniamo processati da un tribunale militare arbitrario che può condannarci senza prove e infliggerci punizioni collettive distruggendo le nostre case”.

Che ci sia un regime d’impunità è evidente anche dalla storia personale di Wael: “Per lavoro, ho conosciuto una donna drusa [di Israele]. Poco alla volta, abbiamo cominciato a frequentarci e ad uscire insieme. Poi la sua famiglia, che lavora per l’esercito israeliano, ha saputo della nostra relazione. Pochi giorni dopo, sono arrivati dei soldati a minacciarmi e mi hanno detto, puntandomi la pistola in faccia: “Speriamo di essere stati chiari”. Ho interrotto la mia relazione con quella ragazza: cos’altro potevo fare?”.

Il senso di angoscia di Wael è commisurato all’impotenza dell’Autorità Palestinese: “Personalmente, uso la parola apartheid”, ci dice Obey. E conclude:

Ovviamente, la situazione non è esattamente la stessa del Sudafrica, ma Israele ha istituito un vero e proprio regime di apartheid, con delle proprie caratteristiche. Qui Israele controlla ogni aspetto della nostra vita, relegandoci a un ruolo subalterno. Gli israeliani trattano la nostra vita e il nostro territorio come se fossero loro i padroni.

1Alcuni dei nomi dei nostri interlocutori sono stati modificati per proteggerne l’anonimato.

2Chiamate “circonvallazioni” (bypass roads), strade riservate ai coloni e all’esercito che collegano direttamente gli insediamenti bypassando le località palestinesi. L’accesso è consentito a qualsiasi cittadino israeliano. [Ndr].

3“Netanyahu Says Palestinians in Jordan Valley Won’t Get Citizenship After Annexation”, Haaretz, Tel-Aviv, 28 maggio 2020

4“Made in Israel: Exploiting Palestinian Land for Treatment of Israeli Waste”, B’Tselem, Gerusalemme, dicembre 2017.

5“Protection of Civilians Report”, Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), 21 febbraio 2023