Guerra in Siria. La fine di uno Stato fallito

Tredici anni dopo una rivolta repressa nel sangue, il regime di Bashar al-Assad è caduto. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 2024 le milizie ribelli sono entrate a Damasco, mentre l’ormai ex presidente siriano fuggiva a Mosca. La rapidità e la facilità con cui i gruppi armati, tra cui quello islamista Hayat Tahrir Al-Sham (HTS) e l’Esercito Nazionale Siriano (SNA) – che gode dell’appoggio turco – hanno avuto la meglio sul regime di Bashar al-Assad è sconcertante.

Da Aleppo a Homs, passando per Hama, le forze lealiste non hanno opposto alcuna resistenza, mentre gli alleati iraniani o russi sembravano come dei colossi dai piedi d’argilla, indeboliti dal fronte ucraino e da quello libanese. Torneremo più avanti sull’aspetto regionale e geopolitico di radicale cambiamento, l’ennesimo vissuto dalla regione dopo la fine della guerra israeliana contro il Libano. Ma con questo dossier, vogliamo prima mostrare come la Siria, negli ultimi anni, sia diventata uno Stato in dissesto, il che spiega la debacle del regime di Damasco. Il suo livello di disgregazione e malfunzionamento era tale da non essere più in grado di svolgere le normali funzioni che ne fondavano la legittimità. Lo Stato siriano sta pagando l’incapacità del regime di Assad di attuare qualsiasi riforma. Attraverso gli articoli d’archivio di OrientXXI fino a quelli più recenti, presentati in maniera tematica, vi proponiamo uno sguardo a ritroso sugli ultimi tredici anni in cui la rivolta fallita si è trasformata in conflitto, a dimostrazione del collasso dello Stato.

La caduta di una delle più longeve dittature del Medio Oriente significa anche la fine di un rapporto privilegiato tra Damasco e Teheran stabilito nel 1979 tra l’ayatollah Ruhollah Khomeini e Hafez Al-Assad. L’attuale sconvolgimento porta alla ribalta anche una serie di interrogativi, sia sull’identità dei protagonisti di questa caduta che dei loro alleati, sul crollo dell’“asse della resistenza” istituito dall’Iran e sul ruolo che giocherà la Turchia nei prossimi mesi e sulle ripercussioni della sua ingerenza in Siria sulla minoranza curda. Senza dimenticare Israele, che, dopo aver annesso illegalmente le alture del Golan nel 1981, ha attraversato, per la prima volta dal 1974, la linea di demarcazione che la separa dal resto del territorio siriano.

In attesa di rispondere a questi interrogativi, non possiamo che rallegrarci per le immagini dei prigionieri politici liberati, come per quelli della terribile e famigerata prigione militare di Sednaya. Ci rallegriamo dell’opportunità per tutti/e gli/le esuli siriani/e di poter far ritorno in patria, cosa che hanno già cominciato a fare in massa.

Sommario

  1. Un’opposizione divisa
  2. La minaccia jihadista
  3. La questione curda
  4. L’Iran e la Russia, alleati decisivi
  5. Israele contro l’asse Damasco-Teheran
  6. La Turchia fa la sua parte
  7. L’impotenza delle Nazioni Unite e quella internazionale
  8. La sacca d’Idlib, o il singolare percorso di HTS
  9. I miraggi della normalizzazione e il 7 ottobre

Un’opposizione divisa

Nel marzo 2011, la Siria si unisce al movimento di protesta che sta investendo tutti i paesi della regione. Dopo l’iniziale speranza d’inizio secolo con la “primavera di Damasco”, durante la quale il giovane presidente Bashar al-Assad, succeduto al padre nel 2000, dà l’impressione di una liberalizzazione del regime alawita, arrivano gli anni di piombo. Arriva subito una terribile repressione contro gli oppositori. Nel luglio 2011, fa la sua comparsa l’Esercito siriano libero (FSA), composto da soldati disertori, sotto l’autorità del Consiglio nazionale siriano, che cerca di coordinare la resistenza dalla Turchia. L’Esercito siriano libero gode però del sostegno dei paesi stranieri ostili al regime alawita vicino all’Iran, in particolare quello degli Stati del Golfo, che incoraggiano anche la formazione di gruppi jihadisti. Presto sorgono tensioni e divergenze tra le diverse componenti della ribellione, che entrano in conflitto. Il regime non è più combattuto solo dagli oppositori democratici, ma anche dagli islamisti di Ahrar Al-Sham, Jaysh Al-Islam, Jund Al-Aqsa, Liwa’ Al-Haq e altri. Il regime di Damasco ne approfitta per porsi come il baluardo contro il terrorismo islamista. Si offusca l’immagine dell’opposizione.

La minaccia jihadista

Ma c’è un nuovo attore a complicare ulteriormente questo scenario: lo Stato Islamico (Daesh). Apparso in Iraq nel 2006, grazie al caos seguito all’intervento americano e alla caduta del regime di Saddam Hussein, il movimento jihadista approfitta della destabilizzazione della Siria per espandere il proprio territorio. Nel gennaio 2014, Daesh proclama il Califfato, a cavallo tra i due paesi, scegliendo la città siriana di Raqqa come capitale. Nell’agosto 2014, la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti interviene in Siria e in Iraq. La caduta della città di Baghuz all’inizio del 2019 segna la fine del Califfato. Ma Daesh è ancora in grado di intervenire nelle steppe orientali, sotto l’autorità del regime. L’eliminazione dei leader dell’organizzazione e i vari attacchi complessi nel nord – contro la prigione di Hasakah nel gennaio 2022 e la prigione di Raqqa nel 2023 – lasciano supporre che l’organizzazione sia entrata in una fase di rigenerazione. La conferma della sua influenza è nel governatorato di Deir el-Zor. A est, il campo di Al-Hol, luogo di detenzione per le famiglie dei jihadisti, gestito dalle forze curde, resta un centro di indottrinamento e una base di ripiego per i membri di Daesh.

La questione curda

Nel 2012, le zone della popolazione curda in Siria escono dall’orbita di influenza di Damasco per passare sotto il controllo delle forze curde dell’YPD (Unità di Protezione Popolare), una frangia armata del Partito dell’Unione Democratica (PYD). Diventeranno una componente importante delle Forze Democratiche Siriane (SDF), una coalizione di combattenti curdi e arabi comandata dal generale Mazlum Abdi, che si sforza di cacciare i combattenti di Daesh dal nord-est della Siria, respingendo anche i turchi. L’organizzazione gode del sostegno americano nonostante lo storico legame con il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), bestia nera delle autorità turche, incluso nelle liste delle organizzazioni terroristiche stilate da Washington e Bruxelles. Nel marzo 2016, viene annunciata la creazione della Federazione Democratica della Siria del Nord, da allora rinominata “Amministrazione Autonoma della Siria Nord-Orientale” (AANES), chiamata dai suoi fautori Rojava (“ovest” in curdo, cioè la parte occidentale del Kurdistan), stabilita su tutti i territori siriani a est dell’Eufrate, e nell’enclave di Manbij (governatorato di Aleppo).

Iran e Russia, alleati decisivi

L’alleanza tra i due regimi di Iran e Siria risale a tempo addietro. Costituita durante la guerra tra Iran e Iraq dal 1980 al 1988, soprattutto a causa dell’ostilità tra i fratelli nemici baathisti di Damasco e Baghdad, l’alleanza risponde a una serie di considerazioni: la solidarietà tra sciiti, l’appartenenza comune al “fronte del rifiuto” contro Israele, gli interessi economici – le Guardie della Rivoluzione hanno investito massicciamente in Siria, in particolare nella telefonia – e la necessità di contrastare l’influenza regionale dei paesi arabi sunniti del Consiglio di cooperazione del Golfo. Nella mente dei leader iraniani, il sostegno delle monarchie del Golfo ai ribelli siriani è una strategia anti-iraniana dopo il loro sostegno alla guerra di Saddam Hussein contro l’Iran. A partire dalla fine del 2012, l’Iran ha perciò unito le forze con le truppe lealiste, in particolare attraverso la Forza Al-Quds e gli Hezbollah libanesi. Teheran fornisce finanziamenti, armi, supporto logistico, assicurando arruolamento e addestramenti. Il regime iraniano sostiene anche l’economia siriana, in particolare importando petrolio a credito.

La Russia interviene militarmente in Siria nel 2015, su espressa richiesta del presidente Bashar al-Assad, impiantando una base aerea a Hmeimim, a sud-est di Latakia, e una base navale a Tartus, e fornendo aiuti via terra attraverso forze speciali, mercenari delle compagnie militari private come Wagner e delle unità di polizia militare. La Russia effettua anche una serie di raid aerei e lanci di missili da crociera in un momento cruciale per la sopravvivenza del regime. E così che l’aviazione russa permette la riconquista di Aleppo nel 2016. La Siria funge quindi da banco di prova, anche per l’esportazione di attrezzature militari russe. Il “metodo siriano”, sperimentato ad Aleppo (in particolare sulle tecniche d’assedio) e in altre zone, lo si ritrova più tardi sul fronte ucraino. Come gli iraniani, anche i russi traggono profitti dall’economia del Paese, in particolare nel settore minerario ed energetico.

Israele contro l’asse Damasco-Teheran

Per Israele, la sfida è quella di impedire la formazione di un fronte ostile sotto l’egida di Teheran nei pressi del suo territorio. Serve quindi fare tutto il possibile per contrastare l’influenza iraniana in Siria, sensibilizzando il regime di Damasco sui pericoli legati all’impianto di attrezzature e contingenti iraniani o filo-iraniani, e limitando la loro azione di disturbo. Dal 2013, Israele conduce costanti attacchi in Siria contro obiettivi legati all’Iran o a Hezbollah. I russi lasciano fare, preoccupati di non lasciare Teheran in una posizione di forza troppo esclusiva nello scenario siriano.

La Turchia fa la sua parte

A nord, dopo averlo invitato all’inizio della rivolta a “lasciar perdere”, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan prende posizioni inequivocabili contro Bashar al-Assad. Erdoğan sostiene gli insorti, accogliendo a braccia aperte i rifugiati siriani, stimati in tre milioni e mezzo di persone. Ma Ankara interviene anche rapidamente al vicino confine, in nome della propria sicurezza. La Turchia lancia una prima offensiva nel 2016-2017, “Scudo dell’Eufrate”, prima contro Daesh, poi contro i curdi delle SDF. L’offensiva viene condotta da una formazione militare composta da più fazioni di ex gruppi armati di opposizione, l’esercito nazionale siriano e vari gruppi ausiliari. Con l’intento di stabilire una zona cuscinetto di trenta chilometri lungo il suo confine, nel gennaio 2018 il governo di Ankara invade la regione di Afrin (Operazione “Ramo d’ulivo”), un’ex roccaforte del PYD nel nord-ovest, per poi prendere il controllo di un grande quadrilatero nel nord-est nell’ottobre 2019 (Operazione “Primavera della pace”). Alla fine del 2022, la Turchia minaccia una nuova offensiva di terra contro le Forze democratiche siriane. Ma il terremoto del febbraio 2023 e le elezioni turche di maggio decretano altre priorità. Allo stesso tempo, Ankara avvia un riavvicinamento con il ras di Damasco, in particolare in vista del ritorno dei rifugiati siriani dalla Turchia. Però, Bashar al-Assad esige in cambio il ritiro delle truppe turche dal territorio siriano.

L’impotenza delle Nazioni Unite e quella internazionale

Di fronte al disastro siriano, la “comunità internazionale” non ha saputo tenere una linea d’azione coerente. Nel febbraio 2012, si tiene a Tunisi una prima riunione del gruppo internazionale “Amici della Siria” che sostiene l’opposizione siriana. La riunione si arena sulla questione della fornitura di armi alla resistenza. Nell’agosto dello stesso anno, il presidente Obama parla di una “linea rossa”, ossia l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano. Un anno dopo, un attacco con gas nervino uccide almeno 1.400 persone nei pressi di Damasco. In una riunione del G7, il presidente americano solleva la questione con Vladimir Putin: condannando l’uso di armi chimiche per una soluzione diplomatica. Su spinta dei russi, Obama decide, secondo i termini dell’Accordo di Ginevra del 14 settembre 2013, di mettere sotto controllo le armi chimiche siriane, un annuncio senza seguito, come dimostrano i successivi attacchi. Le varie conferenze internazionali che si sono tenute da allora a Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite non hanno dato alcun esito. Adottata nel dicembre 2015, la risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la richiesta di un cessate il fuoco e condizioni per una soluzione politica (adozione di una nuova costituzione e libere elezioni con rappresentanti dell’opposizione), rimane però lettera morta. I negoziati che si sono tenuti ad Astana (Kazakistan) nel 2017, sotto la triplice intesa di Russia, Iran e Turchia, portano alla firma, il 4 maggio dello stesso anno, di un trattato con la creazione di quattro zone di tregua nel paese. Ma il trattato non è stato riconosciuto né dal regime siriano, né dall’opposizione in esilio.

I leader occidentali prendono atto che la loro opinione pubblica non vuole più alcun intervento esterno. Gli americani, da parte loro, non vogliono più impegnare truppe di terra, anche se Washington sostiene l’YPG nella sua lotta contro Daesh, malgrado la sua vicinanza con il PKK. Per non urtare la sensibilità dei turchi, gli Stati Uniti rinunciano a includere le SDF nelle trattative politiche, mantenendo una presenza sul campo al loro fianco (posti di osservazione e pattuglie congiunte).

Già prima del 2011, il regime siriano era stato oggetto di una serie di crescenti sanzioni. Inizialmente rivolte a singoli attori e società, le sanzioni state estese dal Caesar Act1, votato dal Congresso degli Stati Uniti nel dicembre 2019, alle imprese straniere coinvolte più o meno direttamente in settori dell’economia siriana legati al regime, in particolare nell’energia e nel settore edile. Ma tali misure non sono riuscite a piegare il clan Assad, che ha cercato di aggirarle, sviluppando nuovi metodi predatori per assicurarsi le proprie risorse, come il commercio del Captagon. I detrattori delle sanzioni, come sono previste, ritengono che in realtà pesino sulla popolazione, duramente colpita dalla crisi economica.

La sacca di Idlib, ovvero il singolare percorso di HTS

Nel nord-ovest della Siria, vicino al confine turco, la regione di Idlib è controllata dal 2017 da Hayat Tahrir Al-Sham (HTS), un’organizzazione nata da Jabhat Al-Nusra, un gruppo inizialmente affiliato a Daesh, poi alleato di Al-Qaeda. HTS ha ufficialmente rinunciato al jihadismo e dal 2015 amministra la sacca di Idlib. L’organizzazione ha trovato un modus vivendi con la Turchia e la Russia, che mantengono una presenza militare nella regione. Dall’inizio del 2024, una parte della popolazione sfollata sta facendo pressioni su HTS per riconquistare i villaggi più a sud, in modo da consentire il ritorno a casa dei rifugiati interni. È da lì che è stato lanciato, il 27 novembre. il movimento per riconquistare il territorio controllato dalle forze lealiste e dai loro alleati iraniani e russi.

I miraggi della normalizzazione e il 7 ottobre

Risalgono al 2022 i primi segnali del ritorno di Bashar al-Assad nella scena regionale. Segue il riavvicinamento della Turchia e gli incontri bilaterali con vari paesi si moltiplicano. Il terremoto del febbraio 2023, che colpisce il nord-ovest del Paese, con un bilancio di oltre 6.000 morti, ha accelerato il processo con il pretesto degli aiuti umanitari. Fino a culminare, il 19 maggio 2023, con la partecipazione del presidente siriano al vertice della Lega Araba a Gedda. Ufficialmente, la Risoluzione 2254 rimane il quadro di riferimento, ma la sua applicazione appare sempre più incerta. Dopo oltre 10 anni di un conflitto che ha lasciato più di mezzo milione di morti, 6,5 milioni di esuli e 7 milioni di profughi, alcuni sostengono che sia arrivato il momento di essere pragmatici e che è necessario fare i conti con le autorità di Damasco, poiché il mercato della ricostruzione in una Siria in macerie fa gola dal punto di vista economico. Si tratta anche, se possibile, di allentare i legami tra Iran e Siria per indebolire il governo di Teheran. Dall’8 ottobre 2023, il Paese viene regolarmente bombardato da Israele e l’apertura di un “fronte di sostegno a Gaza” da parte di Hezbollah dal sud del Libano, per impedire che la fornitura di armi e le munizioni iraniane arrivino al partito sciita attraverso la Siria. Ma da parte di Damasco, non c’è stata alcuna reazione di fronte alla guerra genocida che Tel Aviv sta conducendo a Gaza.

Allo stesso tempo, i paesi ospitanti hanno intenzione di sbarazzarsi dei rifugiati siriani o almeno ridurre l’accoglienza, arrivando al punto di attuare rimpatri forzati. Gli americani e gli europei inizialmente si sono rifiutati di seguire l’esempio, facendo leva sugli effetti a lungo termine delle sanzioni. Ma la questione migratoria ha portato l’Italia a riaprire la sua ambasciata a Damasco alla fine di luglio 2024, mentre l’Unione Europea continua a finanziare i centri di detenzione in Turchia e i rimpatri forzati attuati dalle autorità di Ankara.

Malgrado un simile contesto, le famiglie delle vittime vogliono continuare a credere nella giustizia internazionale. Un primo processo si è svolto in Francia nel maggio 2024. Pochi mesi prima, mentre l’intera regione è concentrata su Gaza, i drusi della regione di al-Suwayda, fino ad allora impermeabile alle rivolte, scendono in piazza contro la crisi economica. Quattordici mesi dopo, il regime siriano cade.

1Cesare è lo pseudonimo del fotografo forense della polizia militare siriana, che ha disertato portando con sé migliaia di foto che documentano le torture e le morti dei prigionieri.