REPORTAGE

Da Tel Aviv a Haifa: “Siamo arrivati al capolinea in Israele?”

Dopo sei mesi dall’inizio della guerra Gaza, fomentata da una narrazione mediatica unilaterale, l’opinione pubblica israeliana è ora assillata dalla paura e dai dubbi sul dopoguerra, in un Paese in cui l’estrema destra messianica spinge verso la pulizia etnica. Dall’altra parte, la sinistra stenta a ritrovare la rotta, mentre i palestinesi in Israele sono soggetti a rigide restrizioni delle loro libertà civili.

1 aprile 2024. I manifestanti israeliani sventolano bandiere durante un sit-in di quattro giorni vicino al Parlamento a Gerusalemme, chiedendo lo scioglimento del governo e il ritorno degli israeliani tenuti in ostaggio a Gaza dal 7 ottobre.
Menahem Kahana/AFP

Dal nostro inviato speciale in Israele-Palestina.

Sulle spiagge di Tel Aviv, in questo assolato sabato di marzo, le tribù urbane e le famiglie si godono il sole. Picnic, musica e birre. Gaza dista solo 70 chilometri e le armi dei riservisti, che spuntano a destra e a manca, lo dimostrano. Un po’ in disparte, in equilibrio sugli scogli, un uomo dai lineamenti marcati sta fumando una sigaretta. Si chiama Moki, è di Leningrado, ed è emigrato in Israele nel 1997, combattendo poi in Libano nel 2006. All’età di 54 anni, Moki lavora in una lavanderia. Quando gli chiedo della situazione in Israele, mi scruta e risponde: “È uno schifo”. Il giorno prima, in un ristorante alla moda di Tel Aviv, ho incontrato Hanna, 27 anni. Una giovane russa nata a San Pietroburgo, non più Leningrado, altra generazione. È arrivata due anni fa per fuggire dalla Russia di Putin e dalla sua sporca guerra in Ucraina. La tragica ironia della sua storia fa sorridere. Anche Hanna dice la stessa cosa che ha detto Moki, e ha intenzione di rimettersi in viaggio.

Non sarà l’unica: un diplomatico europeo di rango elevato spiega in via ufficiosa che le richieste di passaporto sono in forte aumento nei consolati occidentali, cinque volte di più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Cinque milioni di israeliani hanno già un secondo passaporto, ovvero la metà della popolazione.

“Qui è uno schifo”, dice anche Gabriella, che ho incontrato il 1° aprile a Gerusalemme nella tendopoli allestita lungo un viale tra la Knesset - il Parlamento - e la Corte Suprema. I volontari distribuiscono materassini e cuscini da campeggio per rendere meno dura la notte degli attivisti sull’asfalto. Gabriella ha manifestato per un periodo del 2023 per difendere questa dannata Corte Suprema, vedetta miope di una democrazia molto indulgente verso le tante forme di discriminazione contro i palestinesi. È molto arrabbiata contro questo “governo di perdenti”, incapace di liberare gli ostaggi e vincere “questa orribile guerra” che ha scatenato. “Che si tolgano dai piedi!”, urla Mariana. “Sono dei buoni a nulla! Questa guerra non ci porterà da nessuna parte. Sono degli incapaci!”, lamenta un altro manifestante nei pressi della Knesset il 4 aprile, mentre il generale Yair Golan sta concludendo un intervento molto acceso. “Un governo di incompetenti chiusi nel loro messianismo”, aggiunge Nitzan Horowitz, ex leader di Meretz, il partito sionista di sinistra, ora in crisi, ed ex ministro della Salute. “Il fallimento del governo è così evidente che può uscirne solo innalzando il livello di odio”, dice un diplomatico europeo, che lamenta i “terribili errori strategici” di Netanyahu e del suo Gabinetto.

“Che se ne vada via! Che vadano via tutti!”

Dopo oltre sette mesi di guerra, l’odio nei confronti di Netanyahu ha raggiunto un livello senza precedenti in Israele. Gli israeliani sono indignati perché suo figlio Yair si è rifugiato a Miami, scortato da due uomini del Mossad, mentre Sara, la moglie del premier, ha aperto un salone di bellezza nella residenza ufficiale così da non dover più affrontare la folla inferocita quando si reca nel suo locale preferito di Tel Aviv. “Netanyahu non pensa ad altro che a salvare sua moglie, suo figlio e i suoi parenti”, si lamenta Nitzan Horowitz. La gente dice “lasciamo perdere le accuse, ma che se ne vada via, che vadano via tutti!”. “Qui è uno schifo”, dice un altro palestinese residente ad Haifa, che, come molti altri, ha paura ad esprimere la sua solidarietà alla popolazione di Gaza per il timore della repressione. Gli israeliani possono mostrare la loro rabbia, ma i cittadini palestinesi di Israele devono rimanere in silenzio. Per alcuni c’è il via libera, ad altri tocca il manganello.

“Qui è uno schifo”, la trivialità dell’espressione diverte Ruchama Marton, ma non la sorprende. A 86 anni, Marton è ancora una figura storica della sinistra israeliana, statura minuta e sguardo scaltro. E’ stata fondatrice di Physicians for Human Rights-Israel, che ha pubblicato sulla prima pagina di Haaretz all’inizio di aprile una lista dei 470 operatori sanitari uccisi a Gaza dall’inizio dell’offensiva israeliana. È dal 1956 che ha compreso la natura di Israele. All’età di 20 anni, Ruchama Marton era riservista nel Sinai. Lì ha visto dei soldati della Brigata Givati sparare a vista ai prigionieri egiziani.

È una storia che parte da lontano.

Yoav Rinon, professore all’Università Ebraica di Gerusalemme, racconta che Sansone, l’eroe biblico nazionale, era un “egoista forsennato” e che “aveva bisogno di infliggere umiliazioni”. La figura emblematica dei messianisti, ora al governo di Israele, credeva che la sua forza lo avrebbe reso invincibile. Un mito, ripetuto fino alla noia nei libri scolastici di propaganda, che ora mostra la corda. Secondo lo studioso Yoav Rinon, è giunto il momento di

passare da un’idea basata sull’omicidio e sul suicidio a una pulsione di vita. L’idea di condivisione deve basarsi su una rinuncia al diritto esclusivo su questa terra. Bisogna farne uno spazio vitale e non uno spazio di morte ebraico-palestinese.1.

Una pia illusione, perché “gli israeliani stanno annientando Gaza per rabbia e non per necessità”, sintetizza un diplomatico, e “può ancora succedere di tutto”. “Netanyahu continua a promettere agli israeliani una ‘vittoria totale’, ma la verità è che siamo a un passo da una disfatta totale”, osserva lo storico liberale Yuval Noal Harari2. Secondo Harari, il premier israeliano “ha adottato una politica di vendetta e suicidio simile a quella di Sansone”.

Secondo lo storico, evocare “quest’eroe vanitoso” dimostra un dato di fatto del tutto evidente: l’attuale modello di paese basato sulla violenza e sul dominio. La sconfitta minaccia il futuro di Israele. Tutti ne parlano, in privato, in famiglia, con gli ospiti. Anche la sinistra israeliana, spaccata sulla questione del colonialismo ben prima del 7 ottobre, deve reinventarsi, mentre il governo scatena una guerra totale contro i palestinesi di Gaza, con violenze nei territori e minacce alle loro libertà – e a rimando quelle di tutti i cittadini – all’interno dei confini israeliani del 1948.

Come in uno specchio, la domanda che la maggior parte degli israeliani – che siano ebrei, cristiani o musulmani, credenti o meno - pongono ad alta voce tanto a sé stessi quanto al cronista straniero è: “Siamo arrivati al capolinea in Israele?”. Sono tante le persone che volevano la pace, immaginando un futuro comune. “Abbiamo già vissuto giorni terribili, attentati, periodi in cui eravamo in 50 alle manifestazioni. Ma ora... è molto difficile parlare”, dice un architetto di Tel Aviv. “Tutti stanno male, anche chi dice di star bene”, conferma un amico di Gerusalemme. Molti hanno anche paura, cosa che getta un’ombra nera sul paese. Si parla poco di questa paura, alcuni dicono addirittura di aver “riscoperto l’orgoglio di essere israeliani”, ma condividono quest’angoscia da finale di partita.

Uscire dall’impasse letale è al centro dell’azione di Orly Noy. Nata in Iran, giornalista e traduttrice, a 54 anni ha assunto la presidenza di B’Tselem, la più potente Ong per i diritti umani in Israele, che negli ultimi dieci anni è stata in prima linea sulla questione dell’apartheid israeliano. Lo sguardo acuto di questa storica attivista ha contribuito al successo della rivista online +972, che ha portato a terribili rivelazioni sull’uso dell’intelligenza artificiale3 da parte dell’esercito israeliano a Gaza. Orly Noy se la prende con “i disincantati, i disillusi, gli scettici”, tutti quelli che si dichiarano di sinistra, ma poi sostengono la guerra. Come quei cantanti e quegli attori che incrementano i loro messaggi pieni d’amore ai soldati e le loro tournée al fronte. Noy ha ironizzato anche sul peccato della loro precedente “innocenza di sinistra”, mentre altri denunciavano la sua presunta indulgenza nei confronti di Hamas4.

Per lei, il crimine “atroce” e “ingiustificabile” del 7 ottobre non può far dimenticare “gli anni di occupazione, blocco, umiliazione e crudele oppressione dei palestinesi ovunque, ma soprattutto a Gaza”. La presa di posizione della nuova presidente ha provocato qualche addio all’interno di B’Tselem, in ogni caso Noy non ha rinunciato alla solidarietà con i palestinesi massacrati a Gaza. “Gli intellettuali di sinistra ci dicono che vogliono salvare i palestinesi dalle sofferenze inflitte da Hamas. Allora qual è il motivo di infliggere ulteriori sofferenze?” sintetizza un osservatore palestinese degli incontri per reinventare la sinistra.

 Aprile 2024. In piazza Dizengoff, nel cuore di Tel Aviv, un luogo di ritrovo per rendere omaggio agli ostaggi israeliani del 7 ottobre.
Aprile 2024. In piazza Dizengoff, nel cuore di Tel Aviv, un luogo di ritrovo per rendere omaggio agli ostaggi israeliani del 7 ottobre.
Jean Stern

“I generali sono la rovina di Israele”

A sua volta, il generale Yair Golan punta a rilanciare una sinistra più tradizionale, perché il suo obiettivo è prendere la guida del Partito Laburista israeliano Ha’Avodà, per ora con appena quattro deputati. Questo ex vice Capo di Stato Maggiore “è come tutti i generali. Quando vanno in congedo, cominciano a parlare di pace, perché sanno che è impossibile vincere la guerra”, ribadisce un intellettuale. Parlamentare del Meretz e ministro tra il 2020 e il 2022, Golan è diventato un eroe nazionale il 7 ottobre, quando è andato da solo, per tre volte, al rave per salvare i partecipanti sotto attacco. Per il generale, “è ora di cambiare strada in maniera radicale, perché è impossibile distruggere Hamas. Pur con grande consenso politico, Israele non ha una visione chiara su come portare avanti questa guerra: è una vergogna”.

La candidatura del generale Golan a capo di una futura coalizione di sinistra, se da una parte affascina i militanti delle proteste di Tel Aviv e Gerusalemme, dall’altra incontra molte resistenze. “I generali sono la rovina di Israele”, dice un ex militante del Meretz. Per di più, “è probabile che la sinistra sionista non ami Netanyahu, ma ne apprezza le politiche, avendo sostenuto la Nakba nel 1948, poi l’apartheid de facto, la colonizzazione e ora il genocidio”, aggiunge Jamal Zahalka, ex deputato del partito Balad5, che conosce bene “quella sinistra lì”, avendola frequentata a lungo alla Knesset.

Yael Berda non intende salvare capre e cavoli come la sinistra sionista. L’antropologa e docente universitaria è saldamente convinta delle sue opinioni, cosa rara a Tel Aviv. “Sono di sinistra e sostengo i diritti dei palestinesi, sono contro l’occupazione e lo Stato coloniale, ma non riesco a capire chi non riesce a dire che il 7 ottobre è stato un orrore. Non riesco ad accettarlo”. Per Yael Berda, oggi la guerra è la soluzione peggiore: “Serve una riflessione, mentre si passa il tempo a chiedere ai palestinesi di giustificarsi e poi difendersi”. La studiosa ritiene che l’arbitrarietà che ha dominato per troppo tempo debba finire, portando a creare un nuovo modello di paese. “Non può esistere uno Stato con milioni di persone senza diritti. È per questo che bisogna concedere i diritti ai palestinesi”.

Rimettere la Palestina al centro della questione è per Yael Berda un punto fondamentale per la sinistra israeliana, anche se nulla fa pensare che il paese cambierà rotta nei prossimi mesi. Nonostante le manifestazioni che hanno trovato un nuovo slancio da metà marzo, la sinistra israeliana non ha un programma chiaro, soprattutto sulla pace, la grande assente in un intero paese in guerra. Al momento, il premier ha una salda maggioranza di 64 seggi. Nonostante i tira e molla con l’estrema destra sull’entità dell’offensiva a Gaza e con i partiti religiosi sul servizio militare esteso agli ultraortodossi, Netanyahu detiene la maggioranza. A dire il vero, all’inizio di aprile, prima dell’offensiva aerea iraniana, la sua popolarità era precipitata al 30%. Detto questo, con l’opposizione ufficiale di Benny Gantz che siede nel Gabinetto di guerra e Yair Lapid che sostiene la guerra, Netanyahu non ha nulla di cui preoccuparsi. “A dire il vero, Gantz e Netanyahu sono la stessa cosa”, fa notare un diplomatico.

La sinistra ha abbandonato anche un altro fronte, ancora più insidioso, aperto dal governo: gli attacchi alle libertà, soprattutto per i palestinesi che vivono all’interno. “L’erba cattiva”, dicono, spesso viene trattata come una quinta colonna. Arresti preventivi, accuse pubbliche, condanne ingiustificate... È stato messo in piedi un intero arsenale di misure liberticide.

“Punire i palestinesi per il fatto di essere palestinesi”

In primo luogo, ci sono i media. “La stampa israeliana è come un’orchestra in cui i musicisti suonano tutti lo stesso strumento”, dice Ari Remez, responsabile delle comunicazioni per l’Ong per i diritti dei palestinesi Adalah. In Tv, non si vedono quasi mai i palestinesi. I media mainstream, ma anche la stampa liberal, sostengono la guerra e i crimini del governo”. Per molti palestinesi e israeliani, ascoltare Al-Jazeera è fondamentale per poter avere un’informazione diversificata. Tuttavia, il governo ha approvato una legge che vieta le trasmissioni dell’emittente televisiva qatarina. “È di una brutalità scioccante, ma ciò che è ancora più scioccante è il modo in cui i media israeliani sostengono questa brutalità, spacciandoci gli eroi israeliani”, continua Zahalka. “La maggior parte delle persone non sa quello che sta succedendo per la libertà di parola, o non gli interessa”.

I media, ad esempio, hanno contribuito ad accusare pubblicamente persone innocenti, come se questo aiutasse a difendere un Israele umiliato dopo il 7 ottobre. Inveire contro la libertà di espressione dei palestinesi e dei loro rari sostenitori rappresenta una sorta di vendetta per il regime e i media asserviti. “È come se si trattasse prima di tutto di punire i palestinesi per il fatto di essere palestinesi”, commenta un avvocato.

Punire e umiliare sono alla base della disumanizzazione dei palestinesi. Al di là del macabro bilancio delle vittime di Gaza, i molti palestinesi in Israele vengono incolpati di piangere per i legami familiari mantenuti malgrado l’esilio e la colonizzazione, come se milioni di persone non avessero più un pensiero indipendente, né alcun diritto di essere qualcosa di diverso rispetto a una semplice minaccia. Non ci può essere alcuna protesta contro l’offensiva israeliana, né lacrime per i morti a Gaza. È stato il ministro della Difesa Yoav Gallant a definire i palestinesi come “animali”. Per impedire qualsiasi protesta, la repressione si è abbattuta brutalmente sulle università e le scuole. Adi Mansour, consulente legale dell’Ong Adalah con sede ad Haifa, esprime preoccupazione.

In Israele, c’è una minaccia alle libertà dei palestinesi. Ogni critica viene vista come una dimostrazione di tradimento, con la criminalizzazione dei social e delle manifestazioni. È in atto una criminalizzazione della libertà di parola che non ha precedenti.

Basta esprimere solidarietà agli abitanti di Gaza perché questa diventi sostegno verso “il terrorismo”. “Più di 95 studenti di 25 college e università sono stati incriminati, quasi la metà sono stati rilasciati, anche se questo non rappresenta un successo per noi”, continua Adi. A suo avviso, i procedimenti penali vengono utilizzati per punire presunti reati di opinione nel contesto della guerra. Le persone vengono perseguite per ciò che pensano. Parte di queste accuse sono una farsa. Come il caso di uno studente che aveva postato, pochi giorni dopo il 7 ottobre, un’immagine con dello champagne e dei palloncini per un evento privato, accusato di “sostenere Hamas e il terrorismo”.

 Casi di molestie contro gli studenti palestinesi in Israele
Casi di molestie contro gli studenti palestinesi in Israele
Dall’inizio della guerra, 124 studenti di 36 università e college israeliani hanno contattato Adalah per ottenere assistenza legale in merito alle denunce presentate contro di loro per la loro attività sui social media. 95 di loro sono stati effettivamente assistiti dalla ONG, che ha fornito questi dati aggiornati al 12 aprile 2024 esclusivamente per Orient XXI. Tre osservazioni: si tratta soprattutto di studentesse, le sospensioni sono molto numerose e penalizzano gravemente il proseguimento degli studi per queste persone.

L’avvocato aggiunge che “si stanno mettendo in discussione la libertà accademica e i diritti degli studenti. Chi può decidere ciò che si ha il diritto di dire in ambito accademico?”. Il governo sta facendo pressione sui docenti universitari e delle scuole per assicurarsi la “lealtà” degli studenti. Il ministro dell’Interno è all’opera per imporre delle norme sui social. I procedimenti giudiziari sono al servizio della propaganda politica. Un professore israeliano dell’Università Ben-Gurion del Negev ha espresso “la sua preoccupazione per le libertà civili e accademiche, perché il clima generale non è favorevole alla discussione”. Secondo il docente, è prudente chiedere ai suoi studenti di tacere, almeno sui social, anche se le loro opinioni sulla situazione a Gaza non hanno nulla a che fare con il loro percorso accademico. Una delle sue colleghe dell’Università Ebraica di Gerusalemme, Nadera Shalhoub-Kevorkian, è finita in custodia cautelare 24 ore dopo essere stata sospesa dall’università per le critiche espresse contro la guerra a Gaza.

Censura, arresti, minacce: “Le autorità stanno impazzendo sulla questione della solidarietà con Gaza. Facciamo solo qualche piccola manifestazione perché la gente ha paura di beccarsi una pallottola”, ha detto Majd Kayyal, uno scrittore di Haifa che gestisce il sito web Gaza Passages, dedicato a testi di autori e autrici di Gaza e pubblicato in una decina di lingue.

“Il problema è il nostro paese”

Per Adi Mansour, si tratta prima di tutto di impedire alle persone di poter esprimere ciò che sono, ossia la propria identità palestinese: “Prima di tutto, serve a mettere il bavaglio alla società palestinese. Ogni arabo dovrebbe sentirsi libero e al sicuro in Israele”. Capita sempre più raramente, ed è un’ulteriore sfida per la sinistra israeliana a non lasciarsi sfuggire la questione delle libertà.

Di fronte allo spaventoso bilancio di una guerra che sembra senza fine – con oltre 35.000 morti, almeno 50 miliardi di dollari di distruzioni a Gaza – e all’avanzata di un’offensiva genocida, il futuro appare cupo. Per un attivista di Tel Aviv:

Quello che abbiamo vissuto e accettato per tanti anni, anche se non eravamo d’accordo, alla fine ha pervaso la popolazione. Il razzismo, l’idea generale di ‘mandare via gli arabi’ ci sta portando verso una possibile scomparsa.

“È lecito chiedersi se il capolinea di Israele sia una questione di tempo o di sostegno”, si chiede un intellettuale di Nablus. Israele è arrivato al capolinea? “Parliamo della fine di un modello, senza dubbio, ma non della fine di un paese”, stempera un diplomatico.

“Cosa succederà nel dopoguerra?”, si chiedevano i manifestanti a Tel Aviv e Gerusalemme all’inizio di aprile. “Il problema non è la sinistra o la destra, è il nostro paese”, mi ha detto Gabriella a Gerusalemme, invocando l’intervento di una forza internazionale a Gaza e la fine dell’occupazione in Cisgiordania. “Non si può più andare avanti così! Li si riconosca come Stato!”, ha poi aggiunto. “Ci sarà bisogno di coraggio e lucidità”, lamenta il generale Golan, aggiungendo che al governo mancano entrambe.

 1 aprile 2024. Nella tendopoli di Gerusalemme, dove i manifestanti israeliani stanno organizzando un sit-in di quattro giorni vicino al Parlamento per chiedere lo scioglimento del governo e il ritorno degli israeliani tenuti in ostaggio a Gaza dal 7 ottobre.
1 aprile 2024. Nella tendopoli di Gerusalemme, dove i manifestanti israeliani stanno organizzando un sit-in di quattro giorni vicino al Parlamento per chiedere lo scioglimento del governo e il ritorno degli israeliani tenuti in ostaggio a Gaza dal 7 ottobre.
Jean Stern

Nel frattempo, per un intellettuale palestinese ad Haifa:

a volte tutto sembra normale a due ore da Gaza. Per me è pazzesco che Israele sia riuscito a creare delle realtà così diverse qui a Gaza, a Gerusalemme e nei territori occupati. Vivo nei pressi di Gaza, ci penso di continuo, e la cosa mi fa impazzire, è in corso un genocidio contro il quale nessuno sta facendo nulla.

Ultima serata su una terrazza semideserta a Dizengoff, nel centro di Tel Aviv. Vedo sette tizi ubriachi che fanno baccano. Almeno due di loro sono armati, con pistole infilate nella cintura e dietro la schiena. Dai giardini arriva un dolce profumo di gelsomino, è primavera in Medio Oriente. La città è molto tranquilla. Uno degli uomini seduti al tavolo mi chiede, con tono un po’ aggressivo, da dove vengo. E, inevitabilmente, cosa penso della guerra. Sembra leggermi nel pensiero, e, senza lasciarmi il tempo di rispondere, mi dice: “Ci si può fidare di noi, altrimenti è la fine del paese”.

Come si vede, la questione è aperta

Jamal Zahalka: “Quasi tutti sono in sintonia. Uccideteli! Distruggeteli”

Ex leader del Balad ed ex deputato della Lista Unita, Jamal Zahalka è una figura cardine della sinistra araba in Israele. All’età di 69 anni, fa alcune osservazioni a Orient XXI.

Qui siamo a stretto contatto con civili, politici, giornalisti e intellettuali israeliani. Quasi tutti sono in sintonia nel sostenere: “Uccideteli! Distruggeteli! È la stessa brutalità del sionismo che è in questione. Prendete, ad esempio, un pilota israeliano. Salirà sul suo caccia da combattimento e, spingendo un pulsante, ucciderà 100 persone, poi tornerà a casa per ascoltare una sinfonia di Beethoven leggendo Kafka. La distanza tra la vittima e l’assassino rende la guerra meno sporca ai loro occhi.

Per i palestinesi che vivono all’interno è difficile parlare perché vedono ciò che sta succedendo ogni giorno a Gaza. Anche se i palestinesi vivono un sentimento di abbandono, le manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo li hanno rinfrancati. La gente capisce che la discriminazione, l’apartheid, la colonizzazione sono sullo stesso piano. La maggior parte ha compreso il lato oscuro di Israele.

Nessuno sulla scena politica israeliana è disposto a scendere a un compromesso. Gli americani non sono pronti a intervenire, gli europei non sono in grado di farlo, i russi e i cinesi stanno alla finestra. La situazione è molto instabile. Hamas non vuole abbandonare Gaza, e l’Autorità Palestinese non può operare a Gaza senza l’accordo di Hamas. Occorre un governo di tecnocrati e l’avvio di un dialogo, perché la chiave è l’unità dei palestinesi. La vera contromossa deve venire dall’unità dei palestinesi.

Un’economia che sta reggendo

Per il momento, in un contesto politico, militare e morale caotico, l’economia sta reggendo. Un titolo di Stato da 8 miliardi di dollari è stato sottoscritto 4 volte; tuttavia, la guerra potrebbe costare a Israele 14 punti percentuali di PIL, una cifra considerevole. Il settore delle costruzioni non ha subito frenate a Tel Aviv rispetto agli insediamenti. L’industria degli armamenti lavora a pieno regime. Israele ha ricevuto inoltre decine di miliardi di aiuti americani in munizioni e armi, senza contare i recenti stanziamenti di oltre 14 miliardi di dollari.

Frenato dalla grande mobilitazione di quest’inverno, il settore dell’high-tech, che rappresenta il 10% dell’attività ma il 20% delle riserve, è così collegato a livello mondiale che gli alti e bassi di Israele potranno influire ben poco. È un settore altamente sensibile che è stato oggetto delle proteste contro il regime. Sono molte le aziende high-tech stanno finanziando il generale Golan. Il turismo, invece, è a forte rischio, soprattutto a causa della pesante riduzione del traffico aereo. Un settore che ha rappresentato quasi 3 miliardi di entrate per Israele nel 2023. Nessuno sa ancora, ad esempio, se il 7 giugno si terrà il Gay Pride a Tel Aviv. Per il momento, in Israele sono vietati i raduni con più di 1.000 persone.

1Yoav Rinon, «The Destructive Wish for Revenge Followed by Suicide Is Rooted in the Israeli Ethos», Haaretz, 16 marzo 2024.

2Yuval Noal Harari, “From Gaza to Iran, the Netanyahu government is endangering Israëls survival”, Haaretz, 18 aprile 2024

3Yuval Abraham, “Lavender: the AI machine directing Israel’s bombing spree in Gaza”, +972, 3 aprile 2024.

4Orly Noy, “Guerre à Gaza: comment la gauche israélienne a rapidement perdu toute compassion pour les Palestiniens”, Middle East Eyes, 25 marzo 2024.

5Fondato nel 1995, Balad è un partito arabo progressista, che annovera tra i propri membri anche molti ebrei. È stato uno dei pilastri della Lista Comune, che nel 2015 ha ottenuto 13 seggi alla Knesset.