Diario da Gaza 5

“È un Ramadan senza gioia nel cuore”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Persone sedute vicino al fuoco in un campo per sfollati palestinesi a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, alla vigilia del primo giorno del mese di Ramandan, 10 marzo 2024.
MOHAMMED ABED / AFP

Domenica 10 marzo 2024

Oggi vorrei parlare dell’atmosfera che si respira in questi primi giorni di Ramadan. Come al solito, la mia giornata è cominciata con l’incontro mattutino con i miei vicini, appena fuori dal piccolo appartamento che condividiamo con un’altra famiglia. Di solito, sono loro che iniziano a parlare e poi chiedono la mia opinione. Questa domenica, invece, mi hanno guardato in silenzio, aspettando che fossi io il primo a parlare. Ho letto nei loro occhi che si aspettavano una buona notizia: una tregua per il Ramadan. Purtroppo, non c’è stato alcun cessate il fuoco.

Ho visto la delusione nei loro occhi quando ho iniziato a spiegare la situazione. Al momento, c’è una delegazione israeliana che dovrebbe recarsi in Egitto per discutere una tregua con una delegazione di Hamas che è già lì. Quando ho detto che le due delegazioni erano arrivate alla vigilia del Ramadan, perché era importante raggiungere una tregua in questo mese benedetto, ho cercato di mostrarmi sicuro sul buon esito della trattativa in corso.

Ma nei loro occhi ho letto: “Rami, questa volta lo sappiamo che stai mentendo”. Al risveglio, abbiamo avuto la notizia di un massacro ad Al-Mawasi, vicino a Rafah, nei campi profughi – o meglio, nei nuovi campi di sfollati nel nord della Striscia di Gaza. Sono stati uccisi nove membri della famiglia Abdelghafour. Forse anche di più perché ci sono stati dei feriti, e con gli ospedali senza risorse, i feriti spesso rischiano di morire. Ci sono state vittime anche a Gaza, nel campo profughi di Nuseirat. Ho cercato di dire ai miei vicini che forse era il preludio di una tregua, perché capita spesso che le tregue siano precedute da intensi bombardamenti.

Ma era chiaro che non erano convinti, che preferivano sentire qualche notizia ufficiale piuttosto che l’analisi di un giornalista sfollato a Rafah. Volevano che qualcuno nelle alte sfere li rassicurasse, che dicesse loro che ci sarebbe stata una tregua per il Ramadan.

Come da tradizione, ci sono vari rituali legati al Ramadan. Ci sono i fawanis, le lanterne del Ramadan, le buste regalo, le persone che fanno la spesa per l’iftar – il pasto che rompe il digiuno1 – o per fare regali.

Ma questa volta non c’era una grande atmosfera di gioia, perché non c’è gioia nel nostro cuore. Prima di tutto, per i massacri in corso. E poi, la maggior parte della gente non ha nulla; da nord a sud, gli abitanti di Gaza dipendono dagli aiuti alimentari, che stanno arrivando alla spicciolata. Un po’ a Rafah, quasi nulla nel nord e nella città di Gaza. La quantità di aiuti lanciati con il paracadute è irrisoria rispetto ai bisogni della popolazione. Per noi rappresentano una vera umiliazione. Inoltre, durante questi lanci sono morte cinque persone, perché il paracadute attaccato al pacco non si è aperto. Lo sanno tutti che a Gaza c’è una grande carestia.

Le persone muoiono perché non hanno niente da mangiare. Tutti hanno visto le foto di Yazan Kafarnah, il bimbo morto per malnutrizione. Ma Yazan non è il solo. Secondo il ministero della Salute, sono già 24 i bambini morti di fame a Gaza. Né i lanci di aiuti con il paracadute, né il progetto di un porto temporaneo voluto dagli Stati Uniti risolveranno il problema. Ci stanno prendendo in giro. Non abbiamo bisogno di niente di tutto questo. Tutti parlano di aiuti umanitari, ma nessuno parla di fermare la guerra. Perché gli israeliani non vogliono fermare la guerra. Se Netanyahu ferma la guerra, è la fine della sua vita politica. Il premier israeliano vive del sangue dei palestinesi.

Gli Stati Uniti stanno inviando aiuti umanitari, ma allo stesso tempo inviano armi a Israele. Non riesco a capire se si stiano prendendo gioco di noi. È una cosa che va oltre l’ipocrisia. Con una semplice telefonata a Netanyahu, Biden potrebbe far entrare 500 o anche 1.000 camion nella Striscia di Gaza attraverso i valichi esistenti. Nei periodi “normali”, prima che scoppiasse la guerra, passavano tra i 500 e i 600 camion al giorno.

Si sente dire che a Gaza ci sia un mercato nero, che la gente stia confiscando i prodotti. È tutto vero. Ma perché lo fanno? Perché manca tutto. Questo mercato nero finirà quando saranno introdotte delle normali quantità di merci. Allora nessuno attaccherà più i camion o venderà aiuti umanitari nei mercati.

Ma gli israeliani vogliono il caos, l’umiliazione. Quello che mi addolora è vedere che questa guerra si è trasformata in un “problema umanitario”. Ma prima di tutto si tratta di un problema politico. Gli israeliani vogliono sbarazzarsi dei palestinesi. Vogliono prendersi tutta la terra. A Gaza hanno tirato fuori lo spauracchio di Hamas, ma anche in Cisgiordania, dove non c’è Hamas, non si fermano le incursioni. Non vogliono la pace. Eppure, tutto sta avvenendo sotto gli occhi degli Stati Uniti. Questi aiuti umanitari sono un ricatto bello e buono. Smettetela di prenderci in giro. Non siamo stupidi, siamo un popolo consapevole e istruito. Sappiamo molto bene cosa volete. Tutta la popolazione è ridotta in miseria, abbiamo perso i nostri figli, le nostre case, abbiamo perso tutto. Ma non abbiamo ancora perso la testa. Vogliono toglierci anche la salute mentale, spezzare la nostra dignità, ma questo non accadrà.

1L’iftar si celebra al calare del sole: comincia mangiando un dattero in ricordo della maniera in cui il profeta Maometto spezzò il digiuno. [NdT].