Diario da Gaza 12

“In tutte le guerre ci sono degli speculatori”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI.. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Palestinesi in un mercato improvvisato, accanto alle macerie degli edifici, durante il Ramadan. Rafah, 12 marzo 2024.
AFP

Giovedì 28 marzo 2024.

Oggi ho una bella notizia da darvi. Mio figlio Walid, di due anni e mezzo, è riuscito a mangiare un “jaja” – nella lingua di mio figlio, un “jaja” (dajaj in arabo) è un pollo. Vi ho già raccontato di quando Walid voleva mangiare “jaja”, ed io non ero riuscito a trovarne. Il pollo gli piace da sempre, ma era dall’inizio della guerra, prima che lasciassimo Gaza per Rafah, che non ne mangiava. E ogni volta che guardava il suo cartone animato preferito, e c’erano bambini che mangiavano del pollo, continuava a ripetermi: “Papà, voglio jaja, jaja, jaja!”. Ieri sono riuscito a comprargliene un po’. Ormai è diventato un lusso nella nostra condizione di rifugiati.

Ho potuto comprarlo perché negli ultimi giorni è arrivata un po’ di merce in più rispetto al solito, e quindi i prezzi sono calati. Volevo dire alquanto calati. Non siamo certo tornati a prima dell’invasione israeliana, quando l’aumento dei prezzi dei generi alimentari era di dieci, e non venti volte come oggi.

“La strada che va da est a ovest sta diventando sempre più una frontiera”

Il pollo è un buon esempio. Prima della guerra, un pollo costava tra i 10 e i 15 shekel (tra i 2,5 e i 3,75 euro). Poi è arrivato a costare 80, perfino 100 shekel (tra i 20 e i 25 euro). Io sono riuscito a comprarlo per 50 shekel. Siamo passati da dieci a cinque volte il prezzo. È ancora troppo per un pollo congelato importato dall’Egitto, che non avevo mai comprato prima perché non si sa mai in che modo viene trasportato e conservato. E cosa dire oggi che i camion aspettano giorni prima di poter entrare nella Striscia di Gaza.

Ma non ho potuto dire di no a Walid.

Il pollo l’ho comprato martedì. Due giorni dopo, giovedì, lo stesso “jaja” costava 30 shekel. In tre giorni, c’è stato un calo di oltre il 50%. Ma è calato anche il prezzo degli altri prodotti. Lo zucchero, che prima costava 70 shekel (17,5 euro), oggi costa 40 shekel (10 shekel), a volte anche 35 shekel, con un calo del 50%. Un sacco di farina da 25 kg costava tra i 200 e i 300 NIS1. Oggi costa 35 shekel, più o meno il suo prezzo normale. Fare del pane era diventato troppo caro. Questo ci ha dato modo di ricominciare a mangiare il pane.

Sono ricomparse le mele. C’è anche una varietà che non si trovava da tempo. Walid le adora. Ma il prezzo è ancora troppo alto: 35 shekel al chilo, mentre prima era di 24 o 30 shekel al massimo.

Volevo capire il perchè di questo improvviso cambiamento. E così ho provato a contattare il Ministero dell’Economia, ma non ho ricevuto alcuna risposta. Ovviamente, in questo momento c’è una grande disorganizzazione e gli impiegati forse non rispondono al telefono per paura di essere scoperti. Ma ho deciso di portare avanti la mia ricerca, perché, lo ricordo, riguarda la situazione di circa 1,5 milioni di profughi palestinesi nel sud della Striscia di Gaza, tagliata in due da una strada che la attraversa da est a ovest e che sta diventando sempre più una frontiera. Nel nord, dove si trova Gaza con quasi 400.000 persone che hanno deciso di restare, la situazione è ancora più grave.

“Hamas ha cercato di fissare un prezzo base”

Ho sentito dire che il calo dei prezzi sia dovuto al fatto che Hamas abbia smesso di imporre delle tasse sugli aiuti alimentari. Così ho chiesto a dei trasportatori e importatori privati (circa un terzo degli aiuti alimentari è privato e soggetto alle leggi di mercato). Mi hanno detto che non è vero, che Hamas non ha mai imposto delle tasse.

Ci sono altri motivi alla base del calo dei prezzi, che non posso confermare al 100% ma che mi sembrano molto plausibili. Prima di tutto, è da una settimana circa che gli israeliani lasciavano passare un maggior numero di camion, specie quelli del settore privato. Non so se ciò sia dovuto alle pressioni da parte degli americani, degli egiziani o di entrambi, ma è un dato di fatto.

Fino a poco tempo fa, c’erano a malapena 5-10 camion al giorno che entravano a Gaza. Ora siamo passati a 50, anche 60 camion al giorno del settore privato. Il secondo cambiamento è che Hamas ha smesso di voler fissare un prezzo base. Può sembrare paradossale, ma è un sistema che non ha funzionato. Ecco come si svolgeva: le autorità di Hamas avevano allestito dei “punti di distribuzione”, imponendo alle imprese private di consegnare i carichi delle spedizioni nei luoghi indicati, di solito negozi o piccoli alimentari riaperti per l’occasione. Da lì, le derrate dovevano essere rivendute a prezzi fissi. Ma il metodo si è rivelato un fallimento. Visto che Hamas non poteva inviare abbastanza uomini per mantenere l’ordine, presto si è creato un mercato nero. In tanti sono entrati in questo giro. I corrieri consegnavano solo una parte della merce ai negozi. Una volta consegnata la merce, i negozianti poi ne dirottavano un’altra parte. È possibile anche che qualche responsabile incaricato di sorvegliare l’arrivo dei camion alla frontiera sia stato coinvolto in questo giro di traffico.

“Anche gli aiuti dell’Onu a volte sono stati rivenduti”

In tutte le guerre, ci sono degli speculatori. Anche nel continuo massacro della Striscia di Gaza. La scarsità della merce ha fatto salire i prezzi. Ci sono enormi code davanti a questi punti di distribuzione. Chi poteva, preferiva comprare al mercato nero. Tutti sapevano benissimo in che strada o casa bisogna andare. I trafficanti hanno fatto un sacco di soldi, e continuano a farne.

Hamas si è reso conto che l’idea non funzionava e i rifugiati hanno dato la colpa a loro. E così i punti di distribuzione sono stati chiusi. Di conseguenza, con il relativo aumento del numero di camion che entravano attraverso il confine egiziano, si è creata una piccola concorrenza tra gli operatori del settore privato, tra i pochi trasportatori (scelti dagli israeliani, va ricordato) e tra commercianti.

A volte sono stati rivenduti anche gli aiuti dell’Onu. Era gente che rivendeva un sacchetto di farina che era riuscita ad avere per acquistare altro. Ma si verifica sempre meno. In assenza di denaro, le persone ricorrono sempre più spesso al baratto.

Ecco l’ultimo, ma importante motivo del calo dei prezzi: dopo quasi sette mesi di guerra, la gente ha sempre meno soldi, che si tratti di sfollati – come noi – o di persone provenienti dal sud della Striscia. Chi vive qui ha perso il lavoro, la casa, tutto o parte dello stipendio. La maggior parte degli abitanti e degli sfollati sono dipendenti pubblici dell’Autorità Palestinese (ANP) di Ramallah, che continua a pagarli anche dopo l’avvento di Hamas nel 2007, anche se l’amministrazione di Hamas non li impiega più. L’Autorità palestinese paga però solo una parte del loro stipendio, all’incirca la metà, ma dal mese prossimo arriverà al 70%. Anche i responsabili di Hamas hanno subito dei tagli negli ultimi quattro mesi: ora ricevono circa 800 shekel (200 euro), all’incirca ogni 40 giorni. In ogni caso, somme non sono sufficienti per vivere.

“Alcune banche si rifiutano di fare bonifici verso la Palestina”

Chi aveva dei risparmi da parte, oggi li ha spesi. Io, per esempio, avevo messo da parte un po’ di soldi per i tempi di crisi, ma li ho spesi tutti. Per fortuna ricevo qualche compenso dai giornali con cui collaboro, ma ricevere soldi a Rafah è molto complicato. Alcune banche straniere si rifiutano di effettuare bonifici bancari a Gaza o, in generale, in Palestina. Ma il problema più grande è la mancanza di liquidità, indispensabile per fare la spesa.

A Rafah c’è un’unica banca che funziona, la Bank of Palestine, con due filiali e due sportelli bancomat. Le code davanti agli sportelli sono interminabili. Gli ultimi stipendi sono stati pagati il 10 marzo e oggi, che siamo a fine del mese, c’è sempre la fila. E ancora, i prelievi sono limitati a 1000 o 2000 shekel (da 250 a 500 euro), a seconda del periodo. Quando la banca non ha più shekel, lo sportello eroga dinari giordani, un’altra valuta corrente a Gaza, che però bisogna cambiare sul mercato ad un tasso proibitivo, perdendo quasi il 20%. Si può anche prelevare contanti direttamente dagli uffici di cambio che sfruttano i loro legami con i direttori di banca per fare da intermediari, prendendo una commissione tra il 20 e il 25%.

I commercianti hanno sempre meno dollari per acquistare merce in Egitto. Ci sono varie guerre a Gaza. C’è la guerra dei massacri e della carneficina compiuta dall’esercito israeliano, e poi c’è la guerra dei prezzi, dei commercianti e delle banche. La gente qui è davvero stremata dalla miseria, dalla vita in tenda, dalla mancanza di tutto. Pensavo a tutto questo mentre giravo per il quartiere, alla ricerca di qualcosa da comprare. Ho finito per portare a casa un piattino di molokhia2 per l’iftar (il pasto per rompere il digiuno la sera). Per la prima volta dopo sei mesi, siamo riusciti a mangiarlo con il pollo.

Quando ho visto il sorriso di Walid – anche la molokhia gli piace tanto – per me è stata una felicità assoluta. Ho dimenticato la miseria, la guerra, ho dimenticato tutto. Ho pensato solo alla felicità di mio figlio, che stava mangiando quello che gli piaceva. Si dice spesso che i bambini che vogliono mangiare solo ciò che gli piace facciano i capricci. Ebbene, dico a tutti i genitori che qualche volta è necessario fare i capricci.

1Acronimo di nuovo shekel israeliano. [NdT].

2La molokhia (in arabo, mulūkhiyya), è una pianta abbastanza grande, con fiori gialli, simile alla malva, che produce un piccolo numero di semi. Di solito le sue foglie sono usate per preparare una zuppa o uno stufato. [NdT].