PALESTINA

A Rafah, sul confine tra la vita e la morte

Dal 3 al 6 marzo una delegazione1 composta da operatori e operatrici umanitari, 16 parlamentari, 13 giornaliste e giornaliste, accademici ed esperte di diritto internazionale è stata a Rafah, al confine con la striscia di Gaza. Per Orient XXI Italia l’ha seguita il reporter Daniele Napolitano, che è entrato nel magazzino dove vengono ammassati gli aiuti umanitari rigettati dalle autorità israeliane. Ecco il suo racconto.

Daniele Napolitano/Orient XXI

Prima del 7 ottobre quello di Rafah era uno dei pochi valichi attraverso i quali si poteva entrare a Gaza: era l’ingresso dedicato ai palestinesi, mentre cooperanti, giornalisti e politici internazionali potevano entrare solamente da Erez, il valico di ingresso israeliano, a nord di Gaza, oggi chiuso.

La prima volta che ho sentito parlare di Rafah è stato per i suoi bellissimi garofani, per i quali era famosa in tutto il Medio Oriente. Era il 2014. Da allora l’ho visitata molte volte, portando avanti progetti di formazione e laboratori fotografici con bambini e bambine.

Prima dell’assedio totale imposto da Israele nel 2007 Gaza, con i suoi 80 milioni di fiori l’anno, era tra i maggiori esportatori al mondo: già l’anno successivo, a causa delle restrizioni israeliane, i garofani di Rafah venivano dati come mangime agli animali, perché venderli all’esterno era diventato impossibile.

Anche per questo quei fiori sono diventati uno dei tanti simboli dell’occupazione israeliana, ma anche di una bellezza capace di resistere su quel confine tra la vita e la morte, nonostante le difficoltà. Una realtà che oggi sembra lontana anni luce. E probabilmente lo è.

L'entrata del valico di Rafah, sul lato egiziano.
L’entrata del valico di Rafah, sul lato egiziano.
Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

In questi mesi, da quando è iniziato il massacro israeliano su Gaza, questa cittadina al confine con l’Egitto è divenuta famosa non per i suoi fiori, ma come unico e ultimo “luogo sicuro” dove rifugiarsi per la popolazione palestinese costretta ad abbandonare le proprie case al nord della Striscia. O almeno, così l’aveva definita l’esercito israeliano. Così 1,5 milioni di persone sono state costrette ad ammassarsi tra tende improvvisate e nessun sostentamento proprio a Rafah.

Eppure, dopo 5 mesi di offensiva ininterrotta, oltre 30.000 vittime di cui più di 10.000 bambini, è divenuto chiaro come non esistano luoghi sicuri in un pezzo di terra posto sotto assedio militare totale e costantemente bombardato. Tantomeno all’estremo confine sud, a Rafah.

La strada che porta verso Rafah.
La strada che porta verso Rafah.
Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

L’arrivo al Cairo

Arriviamo al Cairo il pomeriggio del 3 marzo. Sono previsti incontri con organizzazioni umanitarie, della società civile, agenzie delle Nazioni Unite e difensori dei diritti umani, oltre alle rappresentanze diplomatiche italiane in loco, che si stanno occupando di monitorare la situazione a Gaza. “Siamo oltre la catastrofe”, spiega senza mezzi termini Helen Ottens-Patterson, capo missione di Medici Senza Frontiere (Msf) nella Striscia.

Ogni aspetto della vita delle persone è stato smantellato sistematicamente e brutalmente. Anche il nostro staff è traumatizzato e molto stanco di vivere senza accesso alla salute né all’acqua potabile, perché resta solo quella salata del mare, e questo provoca terribili complicazioni mediche. Inoltre, la gente non ha da mangiare, i casi di malnutrizione sono destinati ad aumentare drasticamente. Solo il 20% delle strutture sanitarie è ancora funzionante. Israele è esperto nel distruggere le infrastrutture e la vita delle persone, ma quello a cui stiamo assistendo non ha precedenti nella storia di Msf.

Spiega: “Il nostro staff ha accesso solo a Rafah e Khan Younis, dove la situazione è inimmaginabile. Non osiamo pensare a cosa stia accadendo più a nord”.

Ed è proprio dal nord, controllato militarmente da Israele, che arrivano le prime notizie di vittime uccise dalla denutrizione, le prime immagini di anziani e bambini morti per mancanza di acqua e di cibo: mentre scriviamo, la cifra è arrivata a 20 persone.

Sono tante le testimonianze raccolte prima della partenza per Rafah, come quella di Richard Brennan, direttore regionale per le emergenze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “Se a Gaza non ci sarà un immediato cessate il fuoco e un incremento deciso degli aiuti umanitari – spiega - registreremo 85mila nuovi morti per traumi ed epidemie nei mesi a venire”. Secondo il responsabile dell’OMS, tra i bambini “la malnutrizione è pari al 15,6% nel nord, dove prima era dell’1%”. Dei 36 ospedali di Gaza, oggi ne funzionano solo 12 e solo parzialmente. Dall’inizio dell’offensiva abbiamo registrato almeno 370 attacchi militari contro le strutture sanitarie”, sottolinea.

In viaggio attraverso il Sinai

Dopo una giornata intensa e fitta di incontri al Cairo, ci muoviamo verso Al Arish, per seguire il percorso dei container di aiuti umanitari che non riescono a raggiungere la Striscia di Gaza. Tra questi, anche quelli che è stato possibile raccogliere grazie alle donazioni arrivate dall’Italia.

Anche Al Arish, località che dista appena 50 chilometri da Rafah, un tempo era una famosa località turistica: ormai da anni, però, è solo una terra di frontiera.

Posti di blocco lungo la strada che dal Cairo conduce ad Al Arish, nel Sinai.
Posti di blocco lungo la strada che dal Cairo conduce ad Al Arish, nel Sinai.
Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

Il viaggio per raggiungerla attraverso il diserto del Sinai dura quasi 10 ore. Lo scenario si svuota più ci allontaniamo dal Cairo, le macchine sono sempre meno e aumentano i mezzi militari e i checkpoint: ne dovremo attraversare almeno dieci. Più ci si avvicina ad Al Arish, più aumentano i camion carichi di aiuti umanitari: ce ne passano accanto molti, e iniziano a formarsi le prime code. Ma non è ancora niente rispetto a quanto troveremo all’arrivo.

Il pullman su cui viaggiamo è scortato dall’esercito egiziano e monitorato dal Consolato italiano. Nonostante questo, ad alcuni checkpoint l’attesa è anche di un’ora: dal 7 ottobre è la prima volta che una delegazione composta anche da giornalisti arriva a Rafah. L’ingresso alla Striscia di Gaza è stato infatti completamente chiuso alla stampa internazionale con l’inizio dell’offensiva militare. Alcune testate straniere sono entrate per pochi minuti al seguito dell’esercito – dunque “embedded” – nelle prime settimane, durante l’assedio dell’ospedale Al Shifa di Gaza City. Da allora, niente è cambiato. Nonostante gli accordi e i permessi ottenuti con fatica per raggiungere il valico, la tensione è alta e si sente. Avanziamo lentamente.

“Nonostante tutti questi controlli, siamo comunque dei privilegiati”, ricorda Yousef Hamdouna, operatore della Ong Educaid, palestinese nato e cresciuto a Gaza, che dentro la Striscia ha ancora parte della sua famiglia. Per le persone palestinesi questo viaggio sarebbe molto più complesso e rischioso, se non impossibile. “Il mio passaporto è l’unico, tra quelli della delegazione, ad essere verde”, sottolinea. Oggi, se il privilegio ha un colore, è quello dei passaporti europei.

Per Yousef deve essere straziante arrivare a Rafah, a pochi chilometri dalla sua famiglia, e dover voltare le spalle e tornare indietro. “Il rumore del mare mi ricorda quello dei bombardamenti ormai”, racconta, mentre è chiaro che ogni giorno di questi cinque mesi ha atteso di ricevere la notizia che anche la sua famiglia fosse stata spazzata via tra le macerie.

File di camion di aiuti umanitari in coda sulla strada tra Al Arish e Rafah.
File di camion di aiuti umanitari in coda sulla strada tra Al Arish e Rafah.
Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

Lo ascoltiamo tutti con attenzione. Mentre cala la sera, lo fa anche il silenzio. Arriviamo ad Al Arish in tarda serata. Ci accolgono in un resort: un tempo struttura di lusso di cui si intuiscono i fasti passati, è ormai un edificio in decadenza, che del suo passato conserva a malapena il ricordo. Gaza dista meno di 50 chilometri: ci fermiamo per la notte per proseguire il giorno dopo. Con Joumana Shaeen, giornalista e fixer di Gaza ancora dentro la Striscia, che mi ha accompagnato in numerosi viaggi in passato, ci scambiamo una foto del mare. È lo stesso, ma oggi è separato da una frontiera che rappresenta il fallimento dell’umanità.

Al valico di Rafah, tra file di camion e controlli israeliani

È il mattino del 5 marzo quando ci rimettiamo in viaggio. Dopo 2 ore, arriviamo al valico di Rafah.

È qui che le organizzazioni umanitarie stanno facendo il possibile per cercare di far entrare aiuti essenziali dentro la Striscia di Gaza. Tra loro anche UNRWA, agenzia ONU per il soccorso dei rifugiati palestinesi, oggetto proprio in queste settimane di un gravissimo attacco, che sta colpendo collettivamente quasi 6 milioni di rifugiati palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, in Siria, Libano e Giordania; con loro c’è anche la Mezzaluna Rossa egiziana e quella palestinese, e gli operatori di OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari).

Camion di aiuti umanitari in attesa a Rafah, sul lato egiziano.
Camion di aiuti umanitari in attesa a Rafah, sul lato egiziano.
Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

Nelle due ore di viaggio che separano Rafah da Al Arish, attraversiamo lunghissime file di camion, carichi di aiuti umanitari, fermi in coda. A sinistra e a destra, senza soluzione di continuità, attendono accostati al lato della strada sperando di poter entrare. Quando arriviamo davanti al grande cancello del valico di Rafah, che oggi rappresenta il confine tra la vita e la morte, lo scenario che abbiamo davanti è difficile da descrivere. “Catastrofico” è forse il termine che più adeguatamente può spiegare la vista di circa 1.500 camion fermi sotto il sole, in attesa di poter entrare a Gaza. Un’attesa che, come ci spiegano, può durare anche un mese.

A rallentare o impedire gli ingressi di aiuti – ostacolati nelle scorse settimane anche dalle numerose proteste di gruppi di estremisti israeliani – le “ragioni di sicurezza” di Israele. E’ la necessità del governo di Tel Aviv di controllare ogni singolo prodotto che entra a Gaza a creare code che sembrano interminabili. Prima del 7 ottobre, a Gaza entravano 550 camion di aiuti al giorno: assediata militarmente dal 2007, già precedentemente a questa offensiva militare senza pari la popolazione della Striscia viveva in condizioni disastrose, bisognosa di assistenza. Oggi forse il doppio di quei camion non basterebbe: eppure, quando va bene, ne entrano appena 200 al giorno.

Autisti in attesa tra i camion bloccati davanti al valico di Rafah, sul lato egiziano.
Autisti in attesa tra i camion bloccati davanti al valico di Rafah, sul lato egiziano.
Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

Una volta arrivati a Rafah, i camion di aiuti sono costretti a raggiungere Kerem Shalom, a circa 10 chilometri di distanza: un valico controllato da Israele al confine con Gaza, dove si trova l’attrezzatura per scansionare i carichi. Ed è qui che le proteste dei coloni israeliani si sono concentrate nelle ultime settimane. Dopo i controlli, una parte dei camion può essere dirottata a Nitzana, sempre in Israele. Resta chiuso invece il valico di Erez, a nord.

L’iter dei controlli concepito dalle autorità israeliane è un percorso a tappe complesse, che comporta enormi quantità di tempo, e di denaro. Una macchina logistica infernale. “Per andare da Rafah a Kerem Shalom e tornare possono volerci dai 5 ai 7 giorni. E intanto le organizzazioni umanitarie pagano cifre molto alte alle compagnie di trasporti” spiega Mutaz Benafa, capo della squadra di supporto umanitario alla Striscia di Gaza di OCHA.

Se anche un solo prodotto di un carico non rispetta le condizioni imposte da Israele, viene sequestrato l’intero carico. E la lista di cose che non possono entrare a Gaza perché considerate “minacce alla sicurezza” o con componenti che possono essere usate anche a scopi militari, è lunghissima.

Nel deposito dei beni rigettati

Sul grande piazzale che si staglia davanti alla cancellata di Rafah, i camion sono fermi in attesa. Gli autisti cercano riparo dal sole seduti all’ombra dei tir. Mangiano, conversano, fumano, attendono. A pochi metri di distanza un grande hub è il deposito degli aiuti rigettati.

Entriamo sotto questo enorme tendone e ci facciamo spazio tra pile di pacchi incolonnati, destinati a non raggiungere mai la popolazione di Gaza. Tra questi, sedie a rotelle per le persone anziane, kit medici, disinfettanti, incubatrici per neonati.

“Qui si possono trovare accatastati generatori per l’energia, lampade, bagni chimici, bombole di ossigeno, pali per le tende, abiti che assomigliano a divise militari, alcuni tipi di giocattoli in legno: la lista delle cose che non possono entrare è lunghissima”, spiega Benafa. “E persino il cioccolato, perché considerato un bene di lusso, non essenziale”. È sufficiente che un prodotto non sia approvato dalle autorità israeliane, a volte magari per la presenza di parti in matallo, perché “l’intero camion di aiuti venga respinto in Egitto. Ogni giorno entrano tra i 100 e i 200 camion. Ma questa cifra non è costante”, sottolinea.

Bombole di ossigeno e altri aiuti umanitari rigettati da Israele.
Bombole di ossigeno e altri aiuti umanitari rigettati da Israele.
Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

E mentre si moltiplicano i lanci di aiuti umanitari paracadutati dal cielo – pratica considerata pericolosa e umiliante dalla popolazione di Gaza, che ha già causato la morte di 5 persone nei giorni scorsi3 –, sono 16 i bambini morti per malnutrizione nelle ultime ore.

Intanto, il cellulare di Yousef aggancia per un attimo la rete telefonica locale. “Benvenuto in Palestina”, si legge come di consueto nel messaggio automatico inviato da Jawwal. Ne approfitta per chiamare la sua famiglia, scambiare qualche parola d’affetto con la sorella e la cognata. Entrambe si preoccupano per lui, per la sua salute. Come se non stessero tentando di sopravvivere a uno sterminio. “Mi avete chiesto chi c’è dentro Gaza. Tutta la mia vita”, sospira Yousef, che fatica a trattenere la commozione. “Tra le cose rimaste tra le macerie della mia casa bombardata c’è anche un diario che avevo scritto per mia figlia: 150 lettere, che avrei voluto darle come sorpresa per i suoi 18 anni. Esiste un nome per questo crimine, nel diritto internazionale? Le bombe uccidono anche chi resta in vita”.

Nonostante lo strazio di restare a guardare da fuori la sua gente bombardata, Hamdouna spiega di aver deciso di venire per chiedere alla politica: “Cosa farete? E voi giornalisti, racconterete che non siamo solo numeri, ma vite a cui restituire un senso?”, domanda.

Aiuti umanitari rigettati da Israele al valico di Rafah.
Aiuti umanitari rigettati da Israele al valico di Rafah.
Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

Sulla via del ritorno

Dopo qualche ora, bisogna rientrare. I permessi che sono stati concessi alla delegazione sono scaduti, riprende il viaggio, questa volta al contrario. Attraversiamo nuovamente le file di camion in attesa, e ci dirigiamo al Cairo, dove gli operatori delle organizzazioni umanitarie e i rappresentanti politici devono elaborare una dichiarazione finale prima di rientrare in Italia.

Come si legge nel comunicato che verrà diffuso, “l’appello della delegazione è per un cessate il fuoco immediato, perché riprenda l’azione diplomatica internazionale sotto la regia delle Nazioni Unite. La delegazione sostiene con determinazione la richiesta delle organizzazioni umanitarie e della Corte Internazionale di Giustizia perché si consenta l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza. L’assalto militare israeliano sta causando distruzione, terrore e sofferenza senza precedenti”.

Aiuti umanitari ammassati al valico di Rafah, rigettati da Israele.
Aiuti umanitari ammassati al valico di Rafah, rigettati da Israele.
Daniele Napolitano/Orient XXI

Le realtà promotrici inviteranno poi il governo italiano ad agire perché il cessate il fuoco sia permanente e si fermi il massacro in atto, con una lettera inviata alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Oggi più che mai è necessario che la comunità internazionale condanni l’occupazione israeliana in Palestina, contrasti l’impunità di Israele di fronte alla continua violazione del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani.

Perché Rafah cessi di essere frontiera tra chi è umano e chi no, quel cancello torni ad aprirsi, e lasci entrare la vita.

1Si tratta di un’iniziativa promossa dall’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Rete AOI), nell’ambito della campagna “Emergenza Gaza”, in collaborazione con Amnesty International Italia, ARCI e Assopace Palestina.

2Si tratta di un’iniziativa promossa dall’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Rete AOI), nell’ambito della campagna “Emergenza Gaza”, in collaborazione con Amnesty International Italia, ARCI e Assopace Palestina.

4Si tratta di un’iniziativa promossa dall’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Rete AOI), nell’ambito della campagna “Emergenza Gaza”, in collaborazione con Amnesty International Italia, ARCI e Assopace Palestina.