Focus Gaza-Israele

Sulla Palestina la minaccia del blocco dei fondi europei

Ancora una volta, il nodo centrale della posizione dell’Unione Europea nei confronti della guerra a Gaza è la leva finanziaria, oltre alle dichiarazioni sul “diritto di Israele a difendersi”. Se per ora non sembra in discussione la continuità nel tempo degli “aiuti” ai palestinesi, l’annuncio di maggiori controlli e il riesame di alcuni stanziamenti destano a Ramallah un misto di perplessità e rabbia. Il 21 novembre, la Commissione si è riunita a Strasburgo per discutere l’eventualità di una ripresa degli aiuti europei, dopo la sospensione del 9 ottobre.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante una sessione plenaria al Parlamento europeo a Strasburgo sulla situazione a Gaza, 18 ottobre 2023.
Frédérick Florin/AFP

È dai tempi del Mandato britannico che il controllo dei finanziamenti ai palestinesi rappresenta una questione fondamentale. Le organizzazioni sioniste godevano allora della consistente manna finanziaria fornita dalle diaspore ebraiche in Europa e negli Stati Uniti, mentre le forze coloniali francesi e britanniche cercavano di bloccare le raccolte di fondi a sostegno dell’insurrezione palestinese nelle vicine regioni arabe sotto il loro controllo. Contemporaneamente, l’amministrazione mandataria era impegnata anche ad aiutare – con scarsi risultati – i contadini palestinesi cacciati dalla colonizzazione come mezzo per contenere i crescenti focolai di rivolta.

All’indomani della Nakba nel 1948, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) divenne il principale donatore di aiuti umanitari ai rifugiati palestinesi, che vivevano nei campi allestiti in attesa del loro “rimpatrio”. Principale finanziatore degli aiuti fino agli anni ‘70, gli Stati Uniti – progressivamente soppiantati dall’Europa – inizialmente avevano l’intenzione di arginare l’avanzata del comunismo, e poi quella nazionalista e islamista1. D’altra parte, le organizzazioni palestinesi, formatesi in esilio negli anni ’60, avevano trovato sostegno finanziario da parte di Stati e mecenati privati arabi e musulmani. Dopo il 1967, con l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, una parte dei fondi venne destinata a sostegno del sumud, slogan adottato dai palestinesi che si riferisce alla “perseveranza” della resistenza di fronte al tentativo israeliano di colonizzare le terre ed espropriare i suoi abitanti.

Alla fine degli anni ‘70, l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale (USaid) lanciò a sua volta un programma con l’obiettivo di migliorare il benessere e la qualità della vita nei territori occupati. In questo caso, l’intento era in realtà quello di porre fine all’influenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), incoraggiando un’opinione pubblica maggiormente favorevole all’accordo per un’autonomia limitata dei palestinesi, che verrà firmata in seguito a Camp David tra Israele ed Egitto. Il retroscena politico degli aiuti venne però smascherato dalla società palestinese2. Tuttavia, il mutato contesto geopolitico mondiale nel corso degli anni ’80, oltre alla perdita dei suoi principali sostenitori politici e finanziari arabi, portarono l’OLP a cambiare posizione fino ad accettare un’autonomia politica transitoria all’interno dei confini del 1967, oltre al riconoscimento dello Stato di Israele e alla rinuncia alla lotta armata.

Le contraddizioni del sostegno europeo

È in questo contesto che sono entrati in gioco i finanziamenti europei versati direttamente ai palestinesi. All’inizio degli anni ‘90, la comunità internazionale si era impegnata a sostenere finanziariamente il processo di pace approvato dalla firma degli accordi di Oslo tra Israele e l’OLP. La questione era chiaramente quella di rendere tangibili i “dividendi della pace” per la popolazione palestinese, appena uscita dalla prima Intifada, promuovendo lo sviluppo economico nei territori. È così che l’Unione Europea è diventata il principale donatore. Un impegno che s’inseriva nel contesto della politica estera europea per rispondere alle finalità di promozione della sicurezza, della democrazia e della buona governance stabiliti nell’ambito del “partenariato euromediterraneo”, del “partenariato per la pace” e della “politica europea di vicinato”.

Tra il 1993 e il 2020, si stima che i territori occupati abbiano ricevuto 46,4 miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo, circa la metà dei quali forniti dall’Europa3. Oltre a un contributo alle spese dell’Autorità Palestinese (stipendi dei dipendenti pubblici, spese sanitarie, aiuti socioeconomici), i finanziamenti miravano a coprire vari programmi: dalla costruzione di infrastrutture e di edifici pubblici all’assistenza umanitaria, passando per la riforma delle istituzioni, l’empowerment delle donne e dei giovani fino al sostegno del settore privato. Inizialmente ispirati dalla prospettiva di un’imminente risoluzione del conflitto, gli aiuti sono diventati ben presto uno specchietto per le allodole utile a malapena a mascherare il fallimento della “soluzione dei due Stati”, un palliativo di fronte al collasso economico palestinese.

In realtà, il cosiddetto “processo di pace” non ha messo fine all’occupazione, né alla crescente colonizzazione israeliana. Gli scarsi poteri concessi all’Autorità Palestinese sono costantemente messi in discussione dall’amministrazione israeliana, che continua a mantenere il controllo del sistema commerciale, monetario e finanziario, nonché della maggior parte dei territori a livello militare. A partire dalla seconda Intifada degli anni 2000, molti osservatori hanno sottolineato l’incoerenza dei finanziatori, primo fra tutti l’Unione Europea, i cui aiuti hanno contribuito in ultima analisi a finanziare l’espansionismo israeliano a scapito del diritto internazionale e di qualsiasi soluzione politica4. Ma nonostante tutto, la ratio dei fondi europei non è cambiata, anzi i finanziamenti continuano ad aumentare ad ogni nuovo scoppio del conflitto.

Uno strumento di controllo e sanzione

Eppure, l’Unione Europea e i suoi membri non hanno esitato, in molte occasioni e in molti modi, a condizionare gli aiuti ai palestinesi. Forse l’esempio più emblematico – e controverso – è rappresentato dalle sanzioni israeliane e internazionali imposte dopo la vittoria elettorale di Hamas nel 2006. All’epoca, l’Europa optò per la sospensione immediata al sostegno finanziario, oltre a qualsiasi progetto realizzato in collaborazione con il governo eletto, concentrando i suoi sforzi solo verso i bisogni strettamente umanitari della popolazione. Inoltre, venne istituito un nuovo sistema di assistenza in cui il settore privato e le Ong locali e internazionali venivano invitate a prendere il posto dell’Autorità Palestinese5. Un boicottaggio diplomatico e finanziario che portò a una crisi politica senza precedenti, oltre all’inasprimento delle divisioni tra i palestinesi, facendo cadere nel vuoto anche vari tentativi di unità nazionale.

Nel giugno 2007, Hamas prese con la forza il controllo esclusivo della Striscia di Gaza, venendo estromessa dal governo in Cisgiordania sotto la guida del presidente Abu Mazen. L’amministrazione israeliana dichiarò immediatamente la Striscia di Gaza “territorio ostile”, inasprendo le restrizioni alla libera circolazione di persone e merci lungo il suo confine e imponendo un assedio via terra, mare e aria che dura ancora oggi. Le forniture d’emergenza, invece, vennero mantenute, ma le agenzie umanitarie presenti furono spinte a interrompere ogni relazione con le autorità locali. Nei fatti, mantennero però una forma di coordinamento per portare a buon fine le loro attività, attraverso accordi costantemente rinegoziati. Molte di quelle agenzie non mancarono di denunciare una gestione tanto inefficace quanto insufficiente.

Allo stesso tempo, all’inizio del 2008 venne attivato dall’Unione Europea un nuovo meccanismo finanziario (PEGASE), volto a sostenere il “piano di riforma e sviluppo” del governo di Salam Fayyad in Cisgiordania. Ex dipendente della Banca Mondiale, Fayyad si era adeguato perfettamente alle aspettative dei finanziatori internazionali dando priorità a risanamento del sistema fiscale, allo sviluppo del sistema bancario e finanziario e alla promozione del settore privato. Anche il potenziamento della sicurezza interna era uno degli elementi chiave per creare un ambiente favorevole agli investitori. Per contro, non c’era alcun piano per ridurre la dipendenza economica palestinese da Israele. Allo stesso tempo, il meccanismo PEGASE consentiva un controllo più rigoroso delle spese effettuate dalla parte palestinese, in linea con le disposizioni israeliane ed europee di trasparenza, buon governo e “lotta al terrorismo”.

Una crescente dipendenza

Nel corso degli anni, sempre più settori della società palestinese si sono legati all’economia degli aiuti. I territori occupati, in particolare la Cisgiordania, ospitano oggi una fitta comunità di organizzazioni straniere, agenzie delle Nazioni Unite, Ong locali, istituzioni finanziarie e consulenti privati che lavorano nei settori dello sviluppo, della buona governance e dell’assistenza umanitaria. Inoltre, il declino dell’apparato produttivo palestinese e l’afflusso di finanziamenti esteri hanno portato l’Autorità Palestinese a imporsi come attore socioeconomico chiave. Gli stipendi e il versamento delle pensioni rappresentano la principale fonte di reddito per moltissime famiglie. Nel 2021, il numero di dipendenti pubblici era pari a 208.000, pari al 21% della popolazione attiva occupata6.

Gli aiuti costituiscono quindi un reddito abbastanza importante da avere un impatto – e quindi depoliticizzare – i programmi, le attività e le agende dei numerosi beneficiari7. Una situazione che spiega in gran parte la frenesia dell’Autorità Palestinese nel portare avanti sempre più riforme volte a “risanare” le sue istituzioni e a stabilire un’economia di mercato “equilibrata”, anche se il territorio che controlla si restringe sempre più. Mentre crescono gli appelli a liberarsi dall’economia coloniale e dai sistemi di produzione di Israele, la dipendenza dai finanziamenti esteri rimane il nodo centrale8. Pur mantenendo gli obiettivi di pacificazione e liberalizzazione, gli aiuti non solo appaiono inefficaci, ma contribuiscono a una demolizione generale, accrescendo la dipendenza economica e la segregazione della società palestinese sotto occupazione.

Verso un controllo più rigoroso

Dopo il 7 ottobre, alcuni Stati europei hanno annunciato la sospensione dei loro programmi, giusto in tempo per essere certi che nessuno di questi sarebbe andato a “finanziare il terrorismo”; altri hanno invece in previsione un aumento dei loro stanziamenti per fronteggiare “l’emergenza umanitaria” nella Striscia di Gaza. È quindi probabile che non sia il volume, quanto piuttosto la destinazione e l’assegnazione degli aiuti, ad essere oggetto di un ulteriore riesame o maggior controllo.

Questa repentina comunione di “obiettivi di sviluppo e di pace”, unita ai timori israeliani di “contro-insurrezione”, rappresentano un chiaro esempio della trappola in cui si è cacciata la cooperazione europea nei territori occupati. Indipendentemente dall’entità dei fondi erogati, l’Europa è destinata a trovarsi in contrasto con le problematiche che interessano i palestinesi se non intraprende provvedimenti seri per mettere un freno all’espansionismo israeliano.

Naturalmente, ci saranno sempre interlocutori locali pronti a ricoprire il ruolo che si attendono i donatori, e persino a trarne beneficio. Ma il fallimento di questa politica è ormai evidente, e il bilancio di vite umane sta diventando troppo pesante per non correggere il corso delle cose. Le aspirazioni palestinesi si stanno oggi manifestando con più forza che mai. Anche la rottura appare chiara, mentre alcuni stanno già parlando di boicottare i partenariati e i finanziamenti europei. Perché rappresentino davvero una mano tesa, gli aiuti internazionali non dovranno mai più essere una forma di sostegno ai crimini commessi da Israele contro un intero popolo.

1Jalal Al Husseini, UNRWA and the Refugees: A Difficult but Lasting Marriage, Journal of Palestine Studies, 2010, Vol. 40, No. 1, pp. 6-26.

2Khalil Nakhleh, The Myth of Palestinian Development: Political Aid and Sustainable Deceit, PASSIA, 2004, Jerusalem.

3Dati forniti dalla Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCDE)

4Anne Le More, “Killing with Kindness: Funding the Demise of a Palestinian State”, International Affairs, 2005, Vol. 81, No. 5, pp. 981-999.

5Federazione internazionale dei diritti umani (FIDH), Affondare lo Stato palestinese, sanzionare il suo popolo: l’impatto dell’oppressione economica dei Territori Palestinesi Occupati sui diritti umani. Rapporto n. 459, 2006, Missione d’inchiesta internazionale.

6UNCTAD, Rapporto sull’assistenza dell’UNCTAD al popolo palestinese: sviluppi economici nei territori palestinesi occupati, 8 agosto 2022, Ginevra.

7Sbeih Sbeih, Progetti di sviluppo collettivo in Palestina: diffusione della vulgata neoliberale e normalizzazione del dominio, 2018, Centro di conoscenza della società civile, Lebanon Support.

8Jeremy Wildeman & Alaa Tartir, Unwilling to Change, Determined to Fail: Donor Aid in Occupied Palestine in the aftermath of the Arab Uprisings, Mediterranean Politics, 19:3, pp. 431-449, 2014.