Offensiva su Gaza. Prime crepe nel governo israeliano

A quattro mesi dall’inizio dell’attacco a tutto campo a Gaza, trasformatosi lentamente in una guerra genocida, appare evidente il flop militare di Israele, che finora non è riuscito a portare a termine nessuno degli obiettivi dichiarati. Una situazione di stallo che rende sempre più impopolare il premier Netanyahu, che ora deve fare i conti con i venti di fronda nel suo Gabinetto di guerra.

Foto distribuita dall’esercito israeliano che mostra le truppe che operano nella Striscia di Gaza, 31 gennaio 2024.
AFP

Cominciano ad affiorare le prime crepe ai vertici di Israele, non solo per come è stata condotta l’offensiva a Gaza, ma anche sulla necessità di portare avanti la guerra. Le divisioni sono evidenti anche all’interno del Gabinetto di guerra istituito dal primo ministro Netanyahu. Che sia calato il gelo è cosa ormai acclarata. Il principale motivo di dissenso riguarda la sorte degli ostaggi civili e dei soldati detenuti da Hamas a Gaza dal 7 ottobre. I dissensi vedono contrapposti da una parte l’attuale premier e i suoi sostenitori, dall’altra i due ex capi di Stato maggiore, Benny Gantz e Gadi Eisenkot. Secondo Netanyahu, la “liberazione degli ostaggi” può avvenire solo una volta assicurata la “vittoria”, vale a dire “eliminare” Hamas. Per i due ex capi di Stato maggiore, come ribadito dal generale Eisenkot nel programma d’inchiesta Uvda sulla tv israeliana Channel 12, non ci può essere alcuna vittoria senza prima riportare a casa gli ostaggi. In altri termini, per il generale è necessario tornare a discutere con Hamas che, in cambio degli ostaggi rapiti, chiede un cessate il fuoco duraturo e il rilascio di tutti i palestinesi detenuti in Israele – un compromesso a cui si è sempre dichiarato ostile Netanyahu.

In una conferenza stampa del 18 gennaio, Eisenkot, attuale membro della Knesset e deputato dell’alleanza di opposizione Unità Nazionale guidata da Benny Gantz, ha dichiarato che “la leadership israeliana continua a mentire sulla guerra. Non ha voluto rispondere a una domanda sulla sua fiducia nel governo Netanyahu, parlando poi della questione di un rapido rilascio degli ostaggi, anche se il prezzo da pagare sarà alto. Alla fine, il generale ha proposto delle elezioni entro pochi mesi per rinnovare la fiducia nel governo, perché in questo momento la fiducia non c’è”1. In altre parole, una strategia opposta a quella sostenuta da Netanyahu, con l’ulteriore vantaggio della sua estromissione dalla scena politica una volta finita la guerra. È comprensibile, perciò, che sia calato il gelo.

La situazione è precipitata ulteriormente il 22 gennaio, dopo l’uccisione di 21 soldati israeliani (tutti riservisti di età compresa tra i 25 e i 40 anni) nel corso di un attacco missilistico da parte dei miliziani di Hamas. Dopo tre mesi e mezzo di guerra con un vantaggio militare smisurato di Israele, l’attacco nel campo profughi palestinese di al-Maghazi, a soli 600 metri dal confine israeliano, ha reso ancor più profondo il senso di fallimento degli israeliani dopo il 7 ottobre, malgrado i continui comunicati di vittoria da parte dell’esercito. Al di là delle reticenze, la domanda ricorrente è: si può vincere questa guerra?

Nessun obiettivo raggiunto

Ci sono alcuni episodi che hanno improvvisamente intaccato l’idea, fino ad ora predominante in Israele, di farla finita con Hamas una volta per tutte. Com’è possibile che dopo più di tre mesi di intensi bombardamenti aerei su Gaza, con un bilancio delle vittime che è salito a quasi 27.000 morti, 2 milioni di sfollati e la quasi totale distruzione di edifici e infrastrutture, Hamas sia ancora in grado di colpire così duramente? Cominciano a trapelare le prime indiscrezioni.

Come la notizia relativa al “piano” iniziale delle Forze di difesa israeliane (IDF) che prevedeva il pieno “controllo operativo” delle tre principali città della Striscia (Gaza City, Khan Younis e Rafah) entro la fine di dicembre. È passato più di un mese dalla scadenza, e l’obiettivo non è stato raggiunto. Per di più, ora è noto che la rete di tunnel delle milizie di Hamas era molto più estesa di quanto si credesse, e che prenderne il controllo con operazioni di terra potrebbe causare molte più vittime del previsto. E cosa non meno importante, secondo il Wall Street Journal, dopo oltre tre mesi è stato distrutto solo il 20% dei tunnel.

Un’altra fonte rivela che alcune unità di riservisti impegnati a Gaza verranno smobilitate dall’esercito per la necessità di dare fiato a un’economia israeliana in affanno. Ultimo punto, non meno importante, è che dopo 117 giorni dalla carneficina nei kibbutz, risultano scomparsi sia il leader politico di Hamas, Yahya Sinwar, che i due capi dell’ala militare, Mohammed Deif e Marwan Issa.

Denunciare i “disfattisti” e i “nemici del popolo”

Il paradosso è che chi sta portando avanti la battaglia per una exit strategy dalla guerra, evitando una situazione di stallo, e per la liberazione degli ostaggi civili e dei soldati israeliani prigionieri, è proprio colui ha “inventato” la dottrina militare che ha portato Israele ai terribili crimini commessi a Gaza. Gadi Eisenkot è infatti l’ex capo di Stato maggiore che ha concepito la “dottrina Dahiya”2 secondo la quale, nelle “guerre asimmetriche” tra uno Stato e un nemico che non ha un esercito regolare, l’unico modo per vincere è infliggere il peggior destino possibile alle popolazioni civili che ospitano i “terroristi”. Una dottrina che, nel 2008, è entrata ufficialmente a far parte dell’arsenale strategico dell’esercito israeliano.

Forse è dovuto al fatto che l’ex capo di Stato maggiore ha appena perso un figlio, Gal, di 25 anni e un nipote di 23 anni, entrambi impegnati a Gaza? Qualunque sia il motivo, in questo momento è il generale Eisenkot che chiede di negoziare una tregua con Hamas. Improvvisamente, Chuck Freilich, ex vice consigliere per la Sicurezza nazionale israeliana, ha abbassato la guardia, dichiarando: “Siamo ben lontani dal raggiungere i nostri obiettivi”3. Secondo Andreas Krieg, esperto del King’s College di Londra, Israele si trova militarmente “in un vicolo cieco”4.

Un intollerabile senso di sconfitta, a cui gran parte degli israeliani è poco avvezza, che si ripercuote anche sul governo. I membri della destra ultranazionalista e ultraortodossa, alleati di Netanyahu, restano su posizioni molto radicali. Finora, sono stati loro ad accusare di “disfattismo” tutti i sostenitori di un negoziato con Hamas. In questo momento, fanno parte dei “nemici del popolo” anche le famiglie dei soldati morti a Gaza, che insieme ai manifestanti chiedono di negoziare una via d’uscita dalla crisi. Le direttive del governo sono di “reprimere con il pugno di ferro” le voci israeliane contrarie alla guerra. Ma pur restando marginali, le loro manifestazioni sono in crescita, così come il senso di delusione nell’opinione pubblica.

“Re Bibi” sta cercando di temporeggiare

Netanyahu sta cercando di ristabilire la sua autorità giocando sul tempo. Finora senza successo. La stampa riferisce di una contestazione interna al suo governo. Su Haaretz, vengono riportate alcune indiscrezioni (anonime) di uno dei membri del governo.

È una guerra senza un obiettivo, né prospettive. È solo un modo per Netanyahu di non affrontare le proprie responsabilità. (...) In ogni riunione (di governo), ripete sempre che la guerra durerà a lungo. Secondo me, anche lui sa che c’è una scarsa probabilità di raggiungere i suoi obiettivi. Sta solo cercando di temporeggiare. [...] Quanto alla sconfitta di Hamas, i successi ottenuti nel nord della Striscia di Gaza si stanno già affievolendo.

A guerra ancora in corso, senza attendere future commissioni d’inchiesta che metteranno il premier indubbiamente alle strette, un recente sondaggio rileva che oggi solo il 16% dell’elettorato voterebbe la fiducia a “Re Bibi”. Quanto al suo partito, il Likud, che gode di una maggioranza relativa in parlamento con 32 seggi su 120, scenderebbe a soli 16 seggi se si tenessero elezioni anticipate. Secondo Mairav Zonszein, analista israeliano dell’International Crisis Group, l’unica possibile strategia di Netanyahu è “la guerra infinita”5. Ma è una strategia che sta favorendo soprattutto l’estrema destra colonialista, da questo punto di vista più coerente del premier. Con il risultato che Netanyahu sembra essere prigioniero dei suoi alleati, e guidato più dai suoi interessi personali che dall’interesse pubblico.

La minaccia per Netanyahu potrebbe essere una “rottura” con Joe Biden. Un’ipotesi poco plausibile, visto l’atteggiamento tenuto dal presidente americano dall’inizio della guerra. Ma la posizione di Biden risulta giorno dopo giorno sempre più debole a causa del fuoco amico. Il 18 gennaio, infatti, 60 deputati democratici – un terzo dei loro rappresentanti alla Camera – hanno dichiarato in una lettera al segretario di Stato Antony Blinken di essere “molto preoccupati per il linguaggio estremista di alcuni leader israeliani”, in particolare per gli appelli alla pulizia etnica degli abitanti di Gaza. Mai prima d’ora una petizione antisraeliana aveva riunito un numero così elevato di rappresentanti eletti del Partito Democratico, storicamente filoisraeliano. Inoltre, la reazione di Netanyahu all’appello del presidente americano di apertura verso uno Stato palestinese una volta finita la guerra ha fatto infuriare i membri democratici del Congresso. La risposta del premier israeliano è stata: “Non scenderò a compromessi sul pieno controllo della sicurezza israeliana su tutto il territorio a ovest del fiume Giordano”.

Secondo un sondaggio del 19 luglio, tre quarti degli elettori democratici di età compresa tra i 18 e i 29 anni si dicono contrari al sostegno incondizionato della Casa Bianca a Israele. In sintesi, se non ci sono ancora divergenze tra Israele e gli Stati Uniti, quelle interne al partito del presidente americano sono ben più evidenti, e infatti, per la rielezione, Joe Biden ha bisogno di un clamoroso successo politico. Gira voce negli Stati Uniti che il presidente americano abbia sostenuto la guerra israeliana proprio con l’idea di arrivare a un accordo politico tra israeliani e palestinesi finalizzato alla “soluzione dei due Stati”. Chi vuole è libero di crederci. Intanto, si è aperto il processo presso il tribunale federale della California per la causa intentata, per conto di residenti di Gaza, dal Center for Constitutional Rights, un’associazione dalla lunga tradizione di impegno legale a favore di comunità oppresse e in lotta, proprio contro il presidente Biden, il segretario di Stato Antony Blinken e il segretario alla Difesa Lloyd Austin, accusati di “concorso in genocidio” per il sostegno politico e militare fornito ad Israele.

Una Corte “di parte” e “antisemita”

Ma lo shock più grande è stata la sentenza del 26 gennaio della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) per le accuse mosse dal Sudafrica contro Israele per il genocidio in corso a Gaza. La mancata richiesta di cessate il fuoco da parte della Corte dell’Aja è stata subito usata da Netanyahu per cantare vittoria, ma nessun altro in Israele ha visto nel verdetto un successo. Chi si è sforzato di leggere la sentenza si è reso conto che il cessate il fuoco è iscritto de facto nell’ordinanza. Come ha detto Naledi Pandor, ministra degli Esteri sudafricana: “Come si forniscono aiuti e acqua senza un cessate il fuoco? Se si legge l’ordinanza del tribunale, è una richiesta implicita”. Non sorprende che la destra ultranazionalista e molti altri commentatori abbiano subito tuonato contro la Corte, accusandola di essere “di parte” e “antisemita”.

In particolare, con la richiesta a Israele di “prendere tutte le misure in suo potere per prevenire il genocidio”, la Corte indica che è già in atto un genocidio o che potrebbe esserlo in futuro. L’argomentazione più forte sull’intenzionalità del genocidio consiste nella lunga lista di dichiarazioni rese pubblicamente dai vari leader israeliani, politici o militari, che si auspicano o esprimono intenzioni indubbiamente genocide. Il giorno dopo l’approvazione dell’ordinanza, un portavoce ha dichiarato che “l’esercito israeliano, a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, intensificherà la videosorveglianza, monitorando i post in cui ci sono appelli a insediarsi nella Striscia di Gaza e le dichiarazioni che incitano alla violenza contro i palestinesi”.

Ma il 29 gennaio, la destra estremista israeliana ha tenuto a Gerusalemme una “Conferenza per la vittoria di Israele” in una sala da 3.000 posti, chiaramente in risposta all’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia. Il tema principale è stato il “trasferimento” dei palestinesi fuori da Gaza. L’avvocato Aviad Visoli ha sostenuto che “una seconda Nakba è del tutto giustificata dalle leggi di guerra”. Il colono Eliyahu Libman, padre di un soldato detenuto da Hamas, ha detto: “Chi non viene ucciso dev’essere espulso, non esistono persone innocenti”. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir è stato più moderato, proponendo all’ordine del giorno l’“emigrazione volontaria” degli abitanti di Gaza. Sul palco sono saliti 15 membri dell’attuale governo Netanyahu appartenenti all’estrema destra, al Likud e persino – una novità – al partito ultraortodosso dell’Ebraismo della Torah Unito.

E che diamine! Uno non può più esprimere la sua gioia cantando e ballando tra le case in macerie e in mezzo ai corpi straziati e sepolti dei civili palestinesi, definiti “animali umani” dagli ufficiali dell’esercito, così non ci si capisce più nulla, si lamenta il valoroso soldatino israeliano, finora convinto di essere nel giusto.

1Amos Harel: “For Netanyahou, avoiding decisions on Gaza and Lebanon is the game plan”, Haaretz, 21 gennaio 2024.

2Strategia militare di guerra asimmetrica, che comprende la distruzione delle infrastrutture civili con l’impiego di una “forza sproporzionata” per raggiungere tale scopo. La dottrina prende il nome dal quartiere Dahieh di Beirut, roccaforte di Hezbollah.

3Chuck Freilich, “We in Israel are far more dependent on the U. S. than we ever knew”, Haaretz Podcast, 23 gennaio 2024.

4Ronen Bergman & Patrick Kingsley, “In strategic bind, Israel Weighs Freeing hostages against destroying Hamas”, New York Times, 28 gennaio 2024.

5“Netanyahu under pressure over Israel troop losses, hostages”, AFP, 23 gennaio 2024.