Diplomazia

La visita di Mohammed Shia al-Sudani a Washington: quale prospettiva per le relazioni tra Iraq e Stati Uniti?

Il 15 aprile il premier iracheno Mohammed Shia al-Sudani ha effettuato una lunga visita ufficiale a Washington, durante la quale ha incontrato i massimi esponenti dell’amministrazione americana, per ridefinire le relazioni bilaterali USA-Iraq. Un rapporto contraddittorio, fin dal 2003, anno dell’occupazione americana, anche se l’Iraq considera fondamentali le nuove relazioni, sia per una futura collocazione geopolitica che per la prospettiva di sviluppo economico e umano. Se da una parte, la maggior parte delle fazioni politiche e dell’opinione pubblica irachene sembrano essere d’accordo sul ritiro delle truppe americane dal paese, dall’altra, una parte dello schieramento politico e dell’opinione pubblica irachena che chiede il rafforzamento di questi rapporti, una volta risolta la questione della presenza militare nel paese.

Incontro tra il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin e il Primo Ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani al Pentagono, Virginia, il 15 aprile 2024.

Le relazioni bilaterali tra gli Stati Uniti e l’Iraq negli ultimi 40 anni non sono mai state lineari. Si supponeva che gli americani e il regime del Ba‘th di Saddam Hussein (1979-2003) fossero nemici. Il regime nazionalista arabo iracheno è stato infatti la punta di diamante del blocco dei paesi arabi contro la normalizzazione delle relazioni con Israele: un processo sponsorizzato invece dall’amministrazione statunitense a partire dagli accordi di pace egitto-israeliani di Camp David del 1979.

Dall’inizio della guerra Iran-Iraq (1980-1988), tuttavia, le relazioni bilaterali USA-Iraq assunsero un approccio più realistico, poiché entrambi i paesi erano interessati a contrastare la nascente Repubblica Islamica d’Iran. I rapporti tra i due paesi si sono nuovamente deteriorati dopo l’occupazione irachena del Kuwait nel 1990. Come è noto, l’Iraq ha subito in conseguenza: l’embargo americano, la separazione di fatto dei territori curdi e infine l’occupazione militare delle truppe statunitensi dopo la guerra del 2003.

Dall’occupazione... all’occupazione

Gli Stati Uniti sono rimasti in Iraq come forza di occupazione fino al 2011; e in questo periodo (2003-2011) hanno avuto un’influenza fondamentale sullo sviluppo della politica irachena, direttamente e indirettamente. In primo luogo, in termini di fissazione di un sistema istituzionale settario (muhassasa ta’ifiyya); e in secondo luogo, nell’avere un controllo sulla scelta dei capi di governo, la maggior parte dei quali non erano radicati nel contesto locale1.

L’influenza americana si è esercitata poi in molti altri ambiti, in particolare finanziario e militare. Gli Stati Uniti controllano le istituzioni finanziarie del paese e la sua politica monetaria: la Banca Centrale Irachena (ICB), che gli americani hanno (ri)fondato nel 2004 sotto l’egida dell’allora Autorità Provvisoria della Coalizione, non ha il controllo sulle riserve monetarie (in dollari),e ha dovuto aprire un conto presso la sede newyorkese della Federal Reserve, dove la valuta risultante dalle esportazioni di petrolio è versata. Il tesoro americano inoltre esercita un potere di sanzione nei confronti delle istituzioni finanziarie irachene sospettate di riciclaggio di denaro e/o malversazione2.

Questa politica, che venne giustificata all’epoca dal governatore americano Paul Bremer come volta a favorire la ricostruzione bellica e a pagare le riparazioni di guerra dovute al Kuwait dopo l’invasione del paese nel 1990, nei fatti è servita alla politica di influenza americana nel paese, e a tenere sotto controllo l’attuazione delle politiche di sanzioni contro l’Iran3.

Il controllo dell’influenza regionale di quest’ultimo è stata in ultima analisi la ragione principale dell’ostinazione americana a mantenere una presenza militare fissa nel paese. Questa è da sempre stata la questione più controversa del rapporto USA/Iraq e il principale fattore di destabilizzazione del paese. Gli iracheni hanno percepito le truppe americane stanziate nel paese come “forze di occupazione”, almeno fino al 2011. Ciò è stato tra l’altro causa di due insurrezioni armate tra il 2004 e il 2008.

Il presidente George W. Bush firmò nel 2008 il cosiddetto “accordo USA-Iraq sullo status delle forze armate” (SOFA), che prevedeva una tabella di marcia di ritiro delle truppe per un periodo di 3 anni (fino al 31 dicembre 2011); nuovi rapporti bilaterali dovevano poi essere definiti dal cosiddetto “quadro strategico”. Nel normalizzare le relazioni USA-Iraq, l’SFA (Strategic Framework Agreement) doveva incentivare la cooperazione economica, diplomatica, culturale e di sicurezza, e fungere da base per una relazione bilaterale a lungo termine basata su interessi reciproci. Tuttavia, le relazioni dell’Iraq con gli Stati Uniti sono rimaste dominate dalla questione sicurezza fino ai nostri giorni, soprattutto dopo il ritorno delle truppe statunitensi nel 2014, nel quadro della coalizione internazionale contro Daesh e su richiesta del governo di Baghdad.

La questione della presenza militare americana resta quindi al centro delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. Il ritiro del 2011 e la firma del “quadro strategico” si sono risolte in un nulla di fatto, poiché a partire dal 2014 ci si è ritrovati in una situazione di status quo ante. Il parlamento iracheno ha votato nel gennaio del 2020 il ritiro immediato delle truppe statunitensi. Washington, tuttavia, ha lasciato nel paese una presenza militare di circa 2.500 soldati, la cui funzione ufficiale è quella di servire come addestratori e consulenti per le forze di sicurezza irachene.

La crescita dell’influenza iraniana nella regione (2011-2020)

Il periodo tra il 2011 e il 2020 ha segnato un cambiamento radicale nella geopolitica della regione. Sebbene alcune tendenze fossero già presenti, l’espansione dell’influenza iraniana si è sviluppata in questo decennio ad un livello qualitativamente maggiore. Gli iraniani, approfittando dell’assenza delle truppe americane tra il 2011 e il 2014, hanno organizzato un nuovo tipo di strategia contro-egemonica, fatta di una rete di alleanze con gruppi politico-militari che rivendicano un programma di resistenza anti-imperialista: cosiddetto “asse della resistenza”.

Se gli americani erano rientrati nella regione con forza militare tra il 2014 e il 2017, gli iraniani non sono rimasti a guardare. Questi sono infatti anch’essi intervenuti a difesa di Baghdad contro l’avanzata dello “Stato Islamico”, organizzando le Forze di Mobilitazione Popolare (FMP/Hashad Sha‘bi), una coalizione di forze volontarie e milizie riunitesi in risposta all’appello alla mobilitazione del grande ayatollah di Najaf Ali al-Sistani4.

L’intervento iraniano nel paese, oltre ad una inaspettata efficacia militare, è penetrato nel tessuto sociale e politico iracheno. Tramite l’FMP l’Iran ha esercitato un’influenza importante su settori della comunità sciita irachena, con cui condivide fede religiosa e ideologica. Oltre ad essere fedeli alla guida spirituale e politica della repubblica islamica, questi sono infatti fortemente anti-americani e anti-imperialisti. La maggior parte di queste milizie sono in effetti una derivazione di successive scissioni dal nucleo originario dell’“esercito del Mahdi”, che si era ribellato all’occupazione americana tra il 2006 e il 2008.

Inoltre, questa organizzazione è seguita da vicino dalle forze al-Quds, il corpo speciale delle guardie rivoluzionarie iraniane addetto a supervisionare questi gruppi e a fornire loro supporto tecnico, militare e di intelligence. Le milizie irachene fedeli a Teheran trovano in questa congiuntura un margine di manovra importante, sfruttato abilmente dalla mente di tutta questa operazione: il generale iraniano Qasem Soleimani e il suo braccio iracheno Abu Mahdi al-Muhandis (vice-presidente dell FMP).

Statunitensi e iraniani condividono in questo periodo lo stesso spazio geopolitico di influenza: in nome della lotta contro Daesh, costruiscono una convivenza senza urtarsi. Tuttavia, questo equilibrio rimane appeso ad un filo sottilissimo. Gli iraniani, infatti, non sono certo felici del persistere delle forze militari americane in Iraq, e fanno pressione (attraverso i gruppi ad essi associati) sia politica che militare, perché queste vengano espulse. Questo equilibrio precario si è rotto in almeno due occasioni: nel gennaio del 2020, quando l’amministrazione Trump ha deciso di assassinare i sopracitati Soleimani e al-Muhandis con un attacco drone sulla strada verso l’aeroporto di Baghdad; e quando con le stesse modalità gli americani hanno assassinato in una strada di Baghdad lo scorso febbraio Abu Bakr al-Saadi, leader delle Kata’ib Hizbullah Iraq e responsabile delle operazioni all’estero, in risposta all’uccisione di 3 soldati americani nella base di Tanif5.

In entrambe le circostanze, il governo iracheno ha vivacemente protestato contro quello degli USA, accusandolo di violare la sovranità del paese. Il governo iracheno non vede più la necessità della presenza militare americana, visto che lo “Stato Islamico” è stato da tempo sconfitto e che le truppe irachene sono ormai capaci di badare alla propria sicurezza. Un concetto questo chiaramente espresso dal premier iracheno al-Sudani all’ultimo congresso di Davos, quando ha dichiarato senza equivoci che Daesh «non è più una minaccia», mentre la partenza degli americani è “fondamentale per la stabilità del paese”6.

Aspettando un nuovo “quadro strategico”

A dispetto delle dichiarazioni risolute di al-Sudani contro la presenza militare americana, non bisogna per questo credere che gli iracheni vogliano liberarsi del tutto del loro alleato americano. Al-Sudani aveva anche detto in una intervista al Foreign Affairs, che “(...)quando visiterò Washington e incontrerò il presidente Joe Biden il 15 aprile, sarà un’opportunità per porre la partnership USA-Iraq su basi nuove e più sostenibili”7.

Relazioni Washington/ Erbil a parte, l’Iraq vorrebbe costruire una prospettiva di relazioni con il paese a stelle e strisce tale che ne favorisca il suo sviluppo economico, soprattutto nei settori finanziari, delle risorse energetiche, e degli investimenti diretti nel settore produttivo. La natura apparentemente contraddittoria del rapporto tra i due paesi deve quindi essere collocata nell’ambito del nesso cooperazione economica/occupazione militare: Né Baghdad vuole farsi coinvolgere nella contesa geopolitica tra i vari paesi della regione, diventando un campo aperto di scontro tra Teheran e Washington.

Se la presenza militare americana in Iraq e la questione della sicurezza restano quindi ancora oggi il capitolo principale delle relazioni bilaterali tra i due paese, il recente viaggio di al-Sudani a Washington mira a superare questo orizzonte. La visita del presidente iracheno è avvenuta a dieci anni dalla firma da parte di George Bush figlio del sopracitato “quadro strategico” (mai implementato). Se le milizie filoiraniane misureranno il successo o meno di questa visita soprattutto in relazione alla questione “ritiro truppe americane dall’Iraq”, per l’opinione pubblica irachena più in generale questo si dovrà misurare anche sulla capacità dei due partner di programmare una nuova politica di cooperazione economica e di sviluppo umano.

Le due questioni non sono scollegate tra di loro. Anzi, gli iracheni percepiscono chiaramente lo stretto nesso esistente fra le due questioni, come un articolo del think tank iracheno al-Bayan Center chiarmente rivela. “Gli osservatori si aspettano che il dossier della presenza militare americana in Iraq costituisca il punto principale all’ordine del giorno della visita di al-Sudani”. In realtà, “il dossier economico e finanziario sarà allegato come una ricompensa per la sua [di al-Sudani N.d.A.] cooperazione sulla questione del mantenimento delle forze americane”. Gli americani farebbero sapere quindi che non se ne andranno se non quando lo vorranno e con i loro tempi. Sempre secondo al-Bayan Center, le ricompense per una flessibilità sul dossier ’ritiro delle truppe americane’ “potrebbero includere la garanzia della continua fornitura di titoli del Tesoro americano alla banca centrale, il dollaro iracheno, e l’allentamento delle restrizioni sui rapporti commerciali ed economici tra Iraq e Iran, nonostante le sanzioni americane imposte a quest’ultimo”8.

Gli iracheni si aspettano nuovi progetti nello sfruttamento delle risorse idriche, investimenti nelle tecnologie applicate alla produzione di energie, l’ambiente e programmi a sostegno della buona gestione finanziaria che portino infine alla eliminazione delle sanzioni alle banche accusate di malversazione e corruzione. Washington, da parte sua, è anch’essa interessata ad una migliore gestione finanziaria del paese, alla sua autosufficienza energetica, e ad un più efficace controllo delle frontiere. Tutto ciò con l’obiettivo non solo di sviluppare il paese, ma di arginare l’influenza iraniana nel paese ed evitare di lasciare Baghdad “tra le braccia degli iraniani”.

Conclusione

Non è facile valutare lo sviluppo futuro delle relazioni USA/Iraq dopo la recente visita del presidente al-Sudani. Basti ricordare che già nel 2020 il precedente premier Kadhimi aveva condotto una simile visita a Washington con aspettative poi disattese. Sarebbe questa la vera svolta nei rapporti bilaterali tra i due paesi come auspicata dal governo al-Sudani? Oppure sarà soltanto l’ennesima mossa della infinita partita a scacchi tra Washington e Iran via Baghdad? Gli USA ancora tergiversano sulla questione del ritiro delle truppe, la qual cosa richiederebbe un ripensamento dell’intera presenza americana nella regione, troppo importante da essere preso sotto la pressione degli eventi. Una eventualità questa che potrebbe ripetere lo scenario afghano, che aveva portato all’umiliante scena dell’esercito americano in fuga dagli attacchi dei Talebani.

Quel che è certo per ora è che gli USA prendono tempo, facendo intendere sottilmente agli iracheni che, se vogliono la cooperazione economica, devono stare al gioco della politica americana di contenimento dell’Iran. Senza dimenticare la preoccupazione americana per la difesa di Israele, il principale alleato strategico degli USA nella regione mediorientale9.

1In particolare: Ayad Allawi, Primo ministro dal 2004 al 2005, aveva vissuto a lungo in Gran Bretagna, mentre Nouri al-Maliki, l’uomo forte dell’Iraq (2006-2014), era stato rifugiato in Iran e Siria.

2Dawod, H (2023). “The geostrategic and political context of the dollar-dinar exchange rate crisis in Iraq”. Accessibile a: https://epc.ae/en/details/featured/the-geostrategic-and-political-context-of-the-dollar-dinar-exchange-rate-crisis-in-iraq.

3L’amministrazione Trump, per esempio, minacciò nel gennaio 2020 di chiudere il conto iracheno presso la FRBNY se le truppe statunitensi fossero state espulse dall’Iraq.

4Al Jazeera, “Iraq cleric issues call to arms against ISIL”, 14 giugno 2014. Disponibile a: https://www.aljazeera.com/news/2014/6/14/iraq-cleric-issues-call-to-arms-against-isil

5Francesca Luci, “Iraq, gli Usa uccidono il miliziano Abu Baqir al-Saadi”,Il manifesto. Disponibile a: https://ilmanifesto.it/iraq-gli-usa-uccidono-il-miliziano-abu-baqir-al-saadi

7Mohammad Shia al Sudani,“Iraq Needs a New Kind of Partnership With the United States”, 11 aprile 2024, Foreign Affairs. Disponibile a: https://www.foreignaffairs.com/iraq/iraq-needs-new-kind-partnership-united-states

8Tradotto dall’arabo dall’autore:”Bayan center” pagina 6. Disponibile a: https://www.bayancenter.org/wp-content/uploads/2024/04/ut3g31.pdf

9Questo articolo si basa sulla ricerca nazionale interuniversitaria “‘We want bread, not bullets’: Iraqi food politics in historical perspective”, finanziata dall’Unione Europea – Next-GenerationEU - PIANO NAZIONALE DI RIPRESA ERESILIENZA (PNRR) – MISSIONE 4 COMPONENTE 2, INVESTIMENTO 1.1 Fondo per il Programma Nazionale di Ricerca e Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN), CUP H53D23000190001