“Una lotta armata per la libertà non è né morale né immorale: è una necessità scientifica storicamente determinata”
Kwame Nkrumah
“Niente di questa operazione è sorprendente o ingiustificato. Né si tratta solo del risultato di un deficit di sicurezza di Israele. È la prevedibile risposta del popolo palestinese, che ha subìto il sistema di dominazione coloniale israeliano per decenni”. Scriveva così Somdeep Sen sulle colonne di Al Jazeera, all’indomani dell’attacco del 7 ottobre partito dalla Striscia di Gaza1. Molto prima che la violenza israeliana si scatenasse contro la popolazione civile, che il Sud Africa accusasse Israele di crimini di genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che il numero di vittime palestinesi toccasse la soglia, indicibile, di 27.000.
Professore associato all’Università di Roskilde, in Danimarca, editorialista per molte testate internazionali, Somdeep Sen è autore di un libro che mai come oggi risulta fondamentale: “Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo”, uscito in inglese nel 2020, che arriva in traduzione italiana grazie alla casa editrice Meltemi.
Una pubblicazione originale e necessaria, soprattutto in questo particolarissimo periodo storico e alla luce di quanto sta accadendo in Palestina. Non solo per comprendere meglio un contesto che in Occidente – attraverso una narrazione mediatica distorta – viene raccontato in modo approssimativo e violento nella rappresentazione dei palestinesi; ma anche per trovare nuove categorie analitiche, nuove parole d’ordine, all’altezza delle sfide che pone la necessaria risignificazione del linguaggio davanti alla narrativa dominante. Un lavoro, il suo, frutto di una lunga ricerca sul campo di tipo etnografico, che si è nutrita della relazione con diverse soggettività direttamente toccate dal trauma e dalla ferita coloniale, e delle loro letture e testimonianze.
Ma soprattutto, quello di Somdeep Sen è un lavoro lucido. Che libera il campo dalle deviazioni derivanti da analisi che afferiscono alla sfera della valutazione morale in un contesto di islamofobia così diffusa in Occidente, e che rendono “emotiva” la lettura del contesto palestinese. Ecco allora che un attore centrale come Hamas, che a partire dalla vittoria elettorale del 2006, e in seguito allo scontro con Fatah, assume il potere nella Striscia di Gaza, nel lavoro di Sen non viene analizzato attraverso il prisma della sua caratterizzazione religiosa, ma trattato come un soggetto politico.
“Il linguaggio conta. E mai quanto nello studio della questione israelo-palestinese (…). Ha dunque una certa importanza che io eviti di discutere della religiosità della condotta di Hamas. Non perché ritenga che la religione sia un aspetto irrilevante, ma perché (…) ha portato spesso a definirla riprovevole, anziché considerarla come un’entità non eccezionale che riproduce una forma di politica già esistente. La tendenza è quella di considerare Hamas reprensibile, e quindi il problema che impedisce la soluzione del conflitto”2.
L’autore spiega dunque di voler “globalizzare” Hamas, trattando la sua politica in termini di esperienza globale delle lotte anticoloniali. Propone di studiare la natura anticoloniale della resistenza che il movimento porta avanti, e insieme l’atteggiamento postcoloniale che assume attraverso la sua amministrazione del potere nella Striscia di Gaza.
Ed è questa, probabilmente, la tesi più innovativa del suo lavoro. In Palestina, ci dice Sen, assistiamo a una sorta di “paradosso”: in un contesto di subordinazione al colonialismo israeliano, infatti, convivono una dimensione tipicamente anticoloniale – incarnata dalla lotta di liberazione – ed una già postcoloniale, agita attraverso la gestione del potere dell’Autorità palestinese come se la presenza coloniale fosse già superata. Una condizione, dunque, da leggere alla luce di queste due dimensioni, che per Sen non si escludono a vicenda e non sono in contraddizione; anzi, entrambe a loro modo contribuiscono alla riemersione dell’identità palestinese negata, rappresentando “una tela bianca sulla quale viene riscritta la palestinesità”. Attraversato dai presupposti teorici degli studi postcoloniali, e informato dalle teorie di Frantz Fanon, in particolare sull’inquadramento della resistenza all’oppressione come atto “terapeutico” che ricorda al colonizzato la sua stessa esistenza, il lavoro di Somdeep Sen non cede a valutazioni morali e giudizi di valore, neanche quando tocca il delicato aspetto dell’uso politico della violenza, considerata elemento centrale per reinventare il soggetto colonizzato lungo il suo percorso verso la liberazione.
“È quando la violenza introduce i colonizzati alla coscienza collettiva di una popolazione in lotta per la librazione che emergono le sue proprietà generative (…) dato che la scelta di combattere diventa inevitabile di fronte allo stato di sofferenza (…). L’incessante storia di guerre, occupazione e assedio implica che i palestinesi non abbiano alternativa, se non quella di trovare in qualche modo un significato nella sofferenza e nel trauma (…). La resistenza armata diventa allora una tela bianca su cui esporre proprio la palestinesità, che arresta il processo di privazione del nome”3.
Così facendo, Sen riporta lo studio della questione israelo-palestinese su un piano di obiettività scientifica e storiografica, restituendo dignità alla lunga e articolata produzione teorica palestinese, e al complesso percorso della sua pratica politica.
Orient XXI lo ha incontrato a Roma, in occasione degli eventi per la presentazione del suo libro.
Cecilia Dalla Negra — Fin dalle prime pagine del volume, l’inquadramento teorico e la prospettiva assunta sono chiarissimi: la valutazione del sistema di dominazione israeliano come un fenomeno di colonialismo di insediamento, e della violenza resistenziale come sua diretta conseguenza. Perché invece nel panorama mediatico occidentale è così difficile assumere questa cornice analitica?
Somdeep Sen — Chiamare le cose con il loro nome è difficile a seconda del contesto di riferimento. Ho presentato il mio lavoro in diversi paesi: in Sud Africa, ad esempio, rispetto alla lettura della questione israelo-palestinese sono avanti di almeno 20 anni, perché hanno vissuto sulla propria pelle colonialismo e apartheid. In Occidente riconoscere quello israeliano come un fenomeno di colonialismo di insediamento significa, da una parte, ammettere che il nord del mondo sia complice di quanto accade; dall’altra, distruggere la percezione che il mondo occidentale ha di se stesso: vale a dire che l’Occidente in sé sia un modello di riferimento e tutto ciò che lì accade sia positivo. Viviamo in un sistema politico internazionale che si basa sull’assunzione della superiorità morale, culturale e intellettuale bianca europea, profondamente radicata nella presunzione di inferiorità dell’Altro razzializzato. Allo stesso tempo, nell’era post 11 settembre, e calati come siamo nel discorso pubblico della “guerra al terrore”, è difficile leggere Hamas oltre la sua identità islamista e fuori dal framework del terrorismo. Ma, storicamente parlando, la violenza e la resistenza armata sono stati elementi fondamentali della maggior parte dei movimenti indipendentisti.
C. D. N.— Alla luce di questa considerazione, quanto credi che la narrazione dominante abbia a che fare con la postura coloniale occidentale, e quanto il titolo del libro può essere considerato anche un invito alla decostruzione del nostro sguardo?
S. S.— Moltissimo. Quando l’auto-percezione è costruita in questo senso, è semplicemente inimmaginabile ammettere che noi - gli occidentali, i bianchi, quindi i buoni – possiamo essere complici del male che accade nel mondo. È inconcepibile considerare che siamo coinvolti. Al contrario, assumiamo come perfettamente naturale che le persone non bianche commettano atti orribili. Se pensiamo al mondo arabo-musulmano, la percezione prevalente che abbiamo delle persone che lo abitano è di soggetti tendenzialmente irrazionali, naturalmente irascibili, arrabbiati, anarchici: presso di loro non esiste politica.
Questa idea gerarchica del mondo permea il mondo in cui guardiamo agli altri e a ciò che accade altrove. Prendiamo il pronunciamento della CIG, che ha ammesso la “plausibilità” del rischio di genocidio a Gaza. Il giorno dopo sono stati tagliati i fondi all’UNWRA, accusata di “complicità” con Hamas. In Occidente è assolutamente più plausibile che gli impiegati palestinesi di un’agenzia Onu siano colpevoli degli attacchi del 7 ottobre, che non Israele e i suoi alleati lo siano di genocidio. Perché gli israeliani sono come noi, ci assomigliano, non possiamo credere che commettano atti indicibili. Questa distorsione si è manifestata in modo evidente nella copertura mediatica: basta guardare alle notizie non verificate sui fatti del 7 ottobre che sono state riprese dai media mainstream e mai smentite, anche se si sono rivelate poi false. Nessuno ha pensato che fosse necessario, ad esempio, chiedere scusa per questo.
C. D. N.— L’asse centrale di “Decolonizzare la Palestina” è la compresenza della dimensione anticoloniale incarnata dalla resistenza palestinese, e di quella postcoloniale che si manifesta nell’esercizio del potere. Nel libro racconti di aver formulato questa teoria dando un nome a quella sensazione di “straniamento” che provavi rispetto al contesto che stavi studiando, in cui “benché sia presente la colonizzazione tutto funziona come se i colonizzatori si fossero ritirati”.
S. S.— Questo sentimento di confusione è stato centrale per il mio progetto: mi ha costretto a pensare a quanto sia sfaccettata la dimensione coloniale, e quanto sia complessa la lotta di liberazione. Non è rappresentata da un momento storico preciso e non è raggiunta attraverso un percorso lineare. Eppure, quando ci occupiamo di contesti altri da noi, tendiamo a leggerli in modo molto schematico. Si deve andare “dal punto A al punto B” e se il risultato non è esattamente quello che rientra nei nostri schemi, lo etichettiamo come un fallimento. Lo abbiamo fatto anche con le rivolte arabe nel 2011.
Io sostengo invece che, nonostante l’effettiva liberazione sia lungi dal realizzarsi, il lungo momento di liberazione palestinese sia già cominciato sotto l’egida di Hamas a Gaza. La sua mancanza di legittimità a livello internazionale non elimina il carattere materiale dell’arte di governo. Assumendo le istituzioni del futuro Stato in qualità di gruppo armato resistenziale, Hamas ha incarnato una “prospettiva postcoloniale” in Palestina. Non si può vantare l’esistenza di uno Stato in senso weberiano, ma ipotizzerei che, come la resistenza, anche l’attività di governo sia uno strumento che consente ai colonizzati di rendere la Palestina visibile, la faccia riemergere. Entrambe le dimensioni sono in linea con la lotta di liberazione.
C. D. N.— Una lotta che nel tuo lavoro inviti a non considerare per il suo aspetto materiale, dunque per il risultato che produce, ma come un elemento che ha senso ‘di per sé’. Gli attribuisci una “capacità generativa”: è la resistenza all’oppressione a “rinominare ciò che altrimenti non esiste, interrompendo il processo di negazione del nome” del soggetto colonizzato. È un’analisi che consideri ancora valida all’indomani del 7 ottobre?
S. S.— Da un punto di vista militare, di potere materiale, ovviamente Hamas e le altre fazioni palestinesi non sono in grado di infliggere gravi sconfitte all’esercito israeliano. Ma è la storia del colonialismo a insegnarci che spesso la violenza anticoloniale ha come obiettivo principale rendere difficile al colonizzatore il mantenimento della sua struttura di dominio. Si tratta di un effetto simbolico, che ha un’importanza centrale, soprattutto nella costruzione del senso di sé del soggetto colonizzato.
Anche il 7 ottobre dovrebbe essere letto come tentativo da parte di Hamas di lanciare un messaggio simbolico, far riemergere la Palestina. Le tragiche conseguenze vanno tenute in considerazione naturalmente, non possiamo dimenticarle. Così come non va dimenticato l’interesse di Hamas: sappiamo che guadagna consensi quando combatte, ne perde quando non lo fa. Credo che nel suo agire ci sia stato anche il tentativo di ricordare alle persone che ha le credenziali per essere considerato un movimento di resistenza e superare le criticità che solleva l’autoritarismo del suo operato. Parallelamente, nel dibattito pubblico sono emersi alcuni concetti che prima sarebbero stati impensabili. “Colonialismo di insediamento” è un termine ormai emerso, di cui si parla - in modo a volte del tutto sbagliato - ma che adesso esiste. Sta diventando “mainstream” perché le persone hanno bisogno di strumenti per nominare ciò che vedono: hanno bisogno di una struttura per comprendere perché vengano distrutte scuole, ospedali, abitazioni, uccise migliaia di persone. Questo è un risultato che non può essere ignorato.
C. D. N.— Affrontiamo l’elemento postcoloniale. Per te il punto di svolta sono gli Accordi di Oslo, con cui Arafat rinuncia alla lotta armata, resa illegittima nel nuovo codice morale che si impone. Nella tua lettura Oslo è “il punto di innesco del lungo momento di liberazione”, perché introduce la postcolonialità in Palestina. Eppure, si tratta di un processo fortemente criticato.
S. S.— Credo che tutte le critiche mosse su Oslo siano pienamente giustificate, soprattutto per l’assenza di reciprocità tra i compromessi palestinesi e quelli israeliani. Parte del problema è che Oslo non voleva portare alla creazione di uno Stato palestinese, ma incentivare il processo di state-building, disincentivando la lotta contro Israele. Come farlo? Fornendo una leadership accettabile per l’Occidente: Arafat un minuto prima era considerato un pericoloso terrorista, e un momento dopo veniva fotografato mentre stringeva la mano al nemico. Questo gli ha dato sostegno internazionale, alleanze politiche, risorse economiche in cambio della rinuncia alla lotta armata. Che però non si è fermata, anzi. Hamas, dopo aver rifiutato per anni il paradigma imposto da Oslo, nel 2006 ha scelto di partecipare alle elezioni: è entrato nel sistema, e ha vinto. A quel punto si è posto un problema: Hamas aveva vinto come movimento di resistenza, ma adesso aveva la responsabilità di governare. Come risolvere questa contraddizione? Il ricatto di Oslo era la rinuncia alla lotta armata: Hamas non l’ha fatto. Anzi, ha portato l’ideologia della lotta di liberazione all’interno della struttura di governo. Una sfida interessante.
C. D. N.— Alla luce di questa duplice dimensione - anti e postcoloniale - e di quello che è accaduto dopo il 7 ottobre, quali sono gli scenari futuri che è possibile a tuo avviso intravedere rispetto alla liberazione?
S. S.— Dovremmo interrogarci su cosa intendiamo per “liberazione”: nello spazio postcoloniale, così come in Occidente, tendiamo a pensare che corrisponda alla possibilità di esercitare il potere attraverso uno Stato. Ma lo Stato può essere un’istituzione incredibilmente violenta, e la liberazione è tutt’altro che un percorso lineare. Possiamo davvero parlare di “liberazione” se questa è legittimata solo dalla possibilità di sedere al tavolo delle relazioni internazionali?
La Palestina, i palestinesi, da tempo ci insegnano a pensare la liberazione oltre lo Stato, oltre al nazionalismo in senso stretto, ma piuttosto come qualcosa che ha a che fare con i valori, con l’attaccamento indigeno alla terra più che alle sovrastrutture. Ecco perché la solidarietà tra comunità indigene, contesti postcoloniali e popolazione palestinese si sta costruendo a questo livello. Lo Stato può essere parte dei risultati del processo di liberazione, ma non sarà né il suo inizio né la sua fine. I palestinesi ci stanno insegnando che non sono le strutture internazionalmente riconosciute a renderci ciò che siamo: ma i nostri valori, le nostre legittime aspirazioni, quanto siamo disposti a sacrificare per ottenere la liberazione.