Dossier

Terremoto in Turchia e Siria. Una catastrofe inutile?

Un’analisi sul terremoto che ha colpito Turchia e Siria visto secondo una prospettiva storica, un evento che ha creato una cesura nella storia siriana e che mette a confronto la gestione della crisi da parte del regime siriano e una nuova forma di solidarietà nata attraverso i social. L’articolo è parte di un dossier sulle conseguenze del terremoto del febbraio 2023, frutto della collaborazione tra OrientXXI e UntoldStories.

“It is the Great Syria”

Il 13 agosto 1822, gli abitanti della capitale dell’elayet (in turco, provincia) di Aleppo si risvegliarono sotto le macerie, colpiti da una delle peggiori catastrofi mai abbattute sulla loro regione. L’entità del terribile terremoto provocò un bilancio di quasi trentamila morti, anche per la carenza di risorse dovuta a decenni di scontri tra fazioni che si contendevano il controllo della città. Dopo la restaurazione seguita alla violenta rivolta del 1819, per il potere ottomano la catastrofe rappresentava anche un banco di prova per la sua amministrazione. Pochi anni dopo, quando le truppe guidate dal Gran Visir Ibrahim Pascià conquistarono la regione, gli abitanti videro in quell’evento un punto di svolta tra la fine di un regime del passato e l’inizio di un nuovo ordine. Una lettura retrospettiva molto comune dopo il verificarsi di catastrofi naturali, ma che rischia però di essere talvolta anacronistica. Ogni evento si dovrebbe interpretare piuttosto come un monito di ciò che è un disastro: lo scontro tra un pericolo naturale comune nella regione e la fragilità delle comunità costrette ad affrontarlo.

Le trasformazioni dell’assetto urbanistico

Basta scorrere la cronologia per comprendere quanto l’area mediorientale del Levante e la Turchia siano soggette a scosse che si ripetono con grande regolarità. In Turchia si registra almeno un disastro ogni decennio, lì la vita è scandita dal ritmo dei terremoti, al di là delle carenze nella costruzione degli edifici o nello sviluppo urbanistico. Nella regione del Levante, nonostante i terremoti siano meno regolari, sono eventi che colpiscono ogni generazione e che portano in sé molti cambiamenti. La città di Tripoli, ad esempio, ha subito una grande trasformazione del suo assetto urbanistico dopo il terremoto del 1955. Ogni evento diventa così una sfida politica per le parti coinvolte, oltre che oggetto di scontro sulla tempestività dei soccorsi e la gestione dell’emergenza, per dimostrare la competenza delle autorità nel prestare assistenza alle popolazioni colpite. Nel 1990, i sostenitori dell’AKP1 hanno colto l’occasione per segnalare la corruzione del potere dominante, incapace di fornire assistenza e cure essenziali dopo il terremoto del 1999. Ogni catastrofe naturale rappresenta l’occasione per il potere in carica di rafforzare la propria legittimità col rischio altrimenti di lasciare campo agli avversari.

Il recente sisma del febbraio 2023 è avvenuto quindi dopo una prima temporalità di eventi con una lunga storia di movimenti tettonici e di reazioni sociali e politiche ai loro effetti. Sul medio termine, il terremoto riporta alla mente altre dinamiche. Nei primi dieci anni del regime di Assad, emergono due particolari aspetti. Da una parte, una popolazione giovane che ha vissuto solo sotto il regime di Assad, e che si sforza di inventare pratiche collettive in grado di recuperare un po’ di spazio pubblico in un momento in cui è severamente preclusa ogni azione politica. Club di escursionisti, gruppi studenteschi che fondano forme di economia sociale, associazioni culturali che diventano luoghi per mettere in pratica un modello d’azione comune. In un certo senso, il regime si sta “modernizzando”, per usare un linguaggio attuale, dando un posto di rilievo alle Ong controllate dal potere. Asma al-Assad, moglie del presidente, ne ha fondata una nel 2001, anticipando la nascita della task force governativa Syria Trust for Development, unica organizzazione responsabile dello sviluppo all’interno del paese dal 2008. Allo stesso tempo, è la Mezzaluna Rossa arabo-siriana ad occuparsi della gestione delle Ong internazionali accreditate per affrontare la questione dei rifugiati iracheni. In questo decennio si è formato un modello schizofrenico: da un alto, un regime che non è cambiato in termini di chiusura politica pur dotandosi di Ong e istanze di sviluppo; dall’altro, una società vivace e reattiva, ma che vive sotto una pesante cappa. Sono due realtà che si riflettono anche nella gestione del terremoto.

Naturalmente, il bilancio in termini di vite e l’impatto nettamente diverso tra aree urbane e rurali sono dovuti soprattutto ai dodici anni di conflitto e agli effetti delle ricadute. Dopo il 2012, e ancor di più dal 2018, sembrano contrapporsi due mondi. A nord di Aleppo e nella regione di Idlib, ampie fasce di popolazione sono migrate per cercare rifugio, sopravvivendo solo grazie agli aiuti ricevuti. Nelle grandi città controllate dal regime, tra cui Aleppo e Latakia, i quartieri invece si sono preservati, meno esposti ai danni e perfino sostenuti con investimenti. Anche i danni sono espressione degli strascichi del conflitto. Le aree devastate dai bombardamenti e dalla guerra sono state le più colpite perché hanno potuto contare solo su una ricostruzione fatta in fretta e furia. Allo stesso modo, per compensare l’esodo interno, gli insediamenti e le infrastrutture dell’altopiano calcareo intorno ad Aleppo sono state costruite dopo dodici anni in un clima d’emergenza senza avere il tempo di costruire secondo un modello sostenibile. È per questo motivo che Aleppo è meno esposta – nella sua parte occidentale – rispetto alla città di Jindires, uno degli epicentri per dati di mortalità. La vulnerabilità delle zone viene anche commisurata a quanto siano esposte alla violenza dei conflitti.

La gestione della crisi e la frammentazione geografica

L’impatto del conflitto si riflette anche nella frammentazione geografica della gestione della crisi. Ogni territorio, continuamente ridisegnato in base ad acquisizioni, perdite e nuovi poteri, è stato amministrato al momento della catastrofe da un governo di potenze rivali. Ne sono emerse altre tre: il regime, il governo siriano ad interim e il Fronte di salvezza nazionale. Come dimostrano chiaramente Joseph Daher e Sinan Hatahet2, il terremoto è anche l’occasione per tutti di presentarsi come salvatori della patria. Per questo motivo, l’efficacia dei soccorsi diventa un’arma per consentire alle autorità di avere un ruolo centrale nel gioco, sia a livello regionale, come nel caso della formazione militante salafita Hay’at Tahrir al-Sham3, sia su uno scenario più ampio, come per il regime di Assad. Per il gruppo HTS, la sfida è quella di istituire enti e strutture di governo in grado di creare una vera alternativa. Più che misurare il successo o meno, occorre soprattutto far durare la frammentazione politica per cancellare al momento della catastrofe una risposta concreta all’emergenza post-terremoto.

Il terremoto sarebbe quindi un acceleratore della Storia? Un momento di cesura negli eventi drammatici vissuti dalla Siria? Dalla prospettiva del regime, è difficile vederla così. La logica dietro la risposta del regime ricorda il suo modus operandi precedente al 2011. Il regime vuole porsi come unico interlocutore di fronte a qualsiasi organizzazione internazionale o governo straniero, rifiutando la logica dell’attraversamento delle frontiere – anche in nome dell’emergenza o di ragioni logistiche. Una retorica che considera Damasco il centro della Siria nord-occidentale. All’interno del regime, sono due gli organismi che rivestono una particolare importanza: la Mezzaluna Rossa arabo-siriana oltre al già citato Syria Trust for Development, caduto in disgrazia all’inizio del conflitto, ma tornato in auge dopo il 2018. Da quel momento, la riconferma del ruolo di Asma al-Assad per le attività economiche e di sviluppo è andata di pari passo con la riabilitazione del Trust. Il terremoto è stato solo la conferma, ma non ha innescato una tale dinamica. In questo, il regime fedele all’eredità del suo passato ha risposto alla crisi ponendosi come l’unico rappresentante della Siria, anche a costo di abbandonare alla totale disperazione la popolazione siriana. Anche lo slogan della campagna “La Siria è una famiglia” è l’espressione dell’ambiguità del regime, capace di martirizzare la società con il suo costante richiamarsi alla Siria.

Una nuova forma di solidarietà

A livello locale, nelle prime ore e nei primi giorni post-terremoto c’è stato un grande slancio di gesti solidali. Di fronte allo sconcerto per il numero crescente di morti e per l’entità della catastrofe, i social hanno cominciato a lanciare delle iniziative. Ci sono persone affidabili che possono organizzare delle collette solidali? Altri possono trasferire le somme raccolte? Altri ancora sono in grado di raccogliere informazioni? Nelle regioni colpite, e nelle periferie, era un continuo di messaggi e sussidi, come durante la rivolta del 2012, attraverso le cerchia familiari, in gran parte decimate dalle migrazioni forzate e violente degli ultimi dodici anni. Improvvisamente, c’è stata una nuova forma di solidarietà che voleva riappropriarsi anche solo un po’ di una Siria a lungo ferita. Un ritorno discreto della società civile siriana che ha portato a sua volta il regime a voler monopolizzare la narrazione della catastrofe. La messa in scena era già pronta. Con una visita tra le macerie quattro giorni dopo il terremoto, il presidente Assad ha cominciato a spiegare a chiunque volesse ascoltarlo che la responsabilità del disastro erano dovuta alle sanzioni contro il regime siriano. Dissidenti e avversari politici hanno duramente criticato via social la lettura del regime che cercava di far passare gli edifici distrutti dall’esercito come incidenti dovuti al terremoto, ma l’operazione è riuscita comunque a creare una falsa narrazione: la Siria è stata martoriata dai paesi stranieri.

La normalizzazione delle relazioni tra i paesi arabi e la Siria

La mossa del regime rimanda a una dinamica che procede in maniera sempre più serrata: la normalizzazione delle relazioni tra i paesi arabi e la Siria. Il terremoto è stato solo la scintilla. Già nel 2021, gli accordi sul gas per giungere a una soluzione della crisi libanese, avevano già visto riavvicinarsi Egitto, Libano, Giordania e Siria. Allo stesso modo, gli Emirati Arabi Uniti avevano ristabilito le relazioni diplomatiche nel 2018. L’emergenza terremoto è stata l’occasione per l’invio di fondi straordinari da parte dei paesi arabi alle zone controllate dal regime. Per le aree fuori dal controllo del governo, gli aiuti hanno avuto forti ritardi. Tutto ciò non fa che confermare il fatto che si tratta di luoghi considerati marginali nell’agenda regionale e persino internazionale. Persino gli aiuti di alcuni paesi europei sono passati attraverso Damasco. Ancora una volta, l’evento del terremoto era connesso a una dinamica già in corso, che ha offerto al ras di Damasco la possibilità di avere un posto di rilievo a livello regionale.

Con il terremoto si è voltato pagina? Pochi mesi dopo, tutto lascia supporre che ci troviamo di fronte a un’altra tragedia. Oggi c’è un profondo senso di stanchezza, con persone che vivono ancora nelle tende che bruciano dopo aver visto crollare i precari edifici abitati. Il terremoto del febbraio 2023 rispecchia un lungo processo di distruzione, accelerato dalla natura. Ma le risposte politiche non sembrano far presagire nuovi scenari. Quanto meno, c’è stata una maggiore attenzione alla Siria in un momento il paese si trova emarginato a causa di una delle più grandi catastrofi contemporanee.

1Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, partito politico conservatore turco

3Hay’at Tahrir al-Sham, comunemente chiamata Tahrir al-Sham e abbreviato HTS, conosciuto anche come al-Qaeda in Siria, è una formazione militante salafita attualmente attiva e coinvolta nella guerra civile siriana