Dallo Yemen all’Italia, percorso di un artista anarchico

Aladin Al-Baraduni è un artista yemenita che vive in Italia dall’inizio degli anni 2000 quando, minacciato dal potere a causa dell’attivismo politico ha dovuto lasciare il suo paese. La sua pratica artistica è indissolubile per lui dalle sue attività militanti e qualunque sia il supporto – la tela, la carta, e soprattutto i muri –, le sue opere contestatarie denunciano sempre l’ingiustizia sociale e la repressione. Intervista.

Nato nel 1979 a Tabuk, in Arabia Saudita, da padre yemenita e madre giordana, Aladin al-Baraduni trascorre la sua infanzia tra il suo paese di nascita e il paese della madre. Nel 1991, al momento della guerra del Golfo, lo Yemen prende posizione in favore di Saddam Hussein contro i vicini paesi del Golfo. I cittadini yemeniti residenti in questi paesi si vedranno cacciati e rispediti a casa dall’oggi all’indomani. Tra questi cittadini, anche il padre di Aladin, Hussein, il quale, dopo aver esercitato per molti anni in Arabia il mestiere di carrozziere, si vede costretto a rientrare nella sua regione natale di Dhamar, a 90 km. a sud di Sanaa. Decide di stabilirsi proprio a Dhamar, capoluogo del governatorato omonimo, dove avrebbe avuto maggiori possibilità di trovare lavoro, sentendosi, al tempo stesso, più libero da costrizioni sociali e religiose. In effetti, come suo fratello, il grande poeta Abdullah Al-Baraduni (1929-1999) e più tardi suo figlio Aladin, Hussein rifiuta di piegarsi alle leggi imposte dalla tribù e dalla società.

A Dhamar, Aladin e i suoi quattro fratelli e sorelle vengono iscritti a scuola dal padre, il quale, per vivere, riprende in un primo tempo il mestiere di carrozziere, seguito poi da svariati altri piccoli lavoretti. Aladin ha, allora, 12 anni. Dopo le scuole medie, frequenta un liceo (indirizzo letterario), nel quale segue in particolare i corsi di lingua araba, di storia, di filosofia. Quando non è a scuola, si dedica al disegno, da autodidatta.

Marcella Rubino.Quando ha cominciato a disegnare ?

Aladin Al-Baraduni. — Ho cominciato a disegnare molto presto. Fin da piccolo, disegnavo tutto ciò che vedevo: gli animali, i giocattoli, gli oggetti del quotidiano. In Arabia Saudita, disegnare era proibito, soprattutto se gli oggetti rappresentati erano degli esseri viventi. Volendo disegnare degli esseri viventi o degli animali, si era costretti a tracciare una linea bianca, molto netta, all’altezza del collo. A scuola, tutti i disegni realizzati nei corsi di educazione artistica erano, dunque, inevitabilmente tagliati da questa linea bianca all’altezza del collo. Quanto a me, io tracciavo una linea talmente sottile ed impercettibile sui miei disegni che questi erano sistematicamente rifiutati dall’insegnante, il quale mi chiedeva di tracciare nuovamente la linea bianca per renderla più visibile. Nello Yemen, per fortuna, questa regola non esisteva. Quando ci siamo trasferiti là, ho potuto finalmente cominciare a disegnare più liberamente. Soltanto gli esponenti religiosi proibivano decisamente le rappresentazioni, benché le leggi dello Stato non le proibissero. Così, pur essendo controllato e censurato dalla società e, in particolare, dai conservatori, ero libero, dal punto di vista giuridico, di praticare il disegno senza alcuna forma di limitazione.

Così, ho dato libero corso alla mia creatività. Ho cominciato ad andare in giro da solo nelle strade della città, disegnando tutto ciò che mi ispirava. Poco per volta, davo seguito alla mia passione da autodidatta, da un lato disegnando il mondo che mi circondava e dall’altro leggendo dei libri sui maestri del mondo intero e guardando le loro opere. Copiavo Leonardo da Vinci, Salvador Dalì, Picasso, Van Gogh, gli Impressionisti. I miei primi quadri si ispiravano alla tendenza surrealista, ma ben presto ho aderito alla corrente realista.

M. R.Come è cominciata la sua esperienza militante?

A. B. — Mio padre, e ancor più mio zio, erano dei ribelli. Mio padre era musulmano, non praticante. Era un uomo semplice, un beduino, ribelle per natura. Mio zio, Abdullah Al-Baraduni, era, al contrario, un letterato. Era ateo, anche se il suo ateismo non fu mai esplicito, per non incorrere nella pena di morte prevista nello Yemen per quanti si professano atei. Malgrado le differenze esistenti tra loro, sia l’uno che l’altro mi hanno trasmesso uno spirito di rivolta e di anticonformismo. Mio zio era un ribelle sin dai tempi dell’imamato1, poi con l’istaurazione della Repubblica e, in seguito, dei vari regimi che hanno governato lo Yemen del Nord fino alla sua morte. Era molto amato nel paese perché, nella sua poesia, raccontava delle ingiustizie sociali e delle sofferenze del popolo yemenita. Mi ha incoraggiato alla dissidenza, mi ha inculcato uno spirito anarchico e libertario fin da quando ero piccolo. Ogni volta che mi recavo a Sanaa alloggiavo da lui. Avevamo un rapporto di amicizia, non esente però da una certa conflittualità, visto che io rifiutavo il fatto che la sua notorietà mi facesse accedere a dei privilegi rispetto ai miei amici e colleghi artisti. Prima di militare come artista, ho cominciato a militare come individuo, in particolare attraverso il boicottaggio sistematico delle elezioni.

M. R.La sua esperienza artistica si è costruita nello Yemen?

A. B. — La mia esperienza artistica è sempre stata legata alla militanza. Con i miei compagni anarchici di Sanaa, avevamo creato un gruppo chiamato al-Saalik al-khudhr (i Vagabondi verdi). C’era anche un atelier situato nella città vecchia, sulla piazza, giusto dopo l’entrata di Bab Al-Yaman, creato da quattro grandi artisti yemeniti: Amna al-Nasiri, Talal al-Najjar, Madhhar Nuzayr e Rima Qasim. Questi artisti erano in contatto con le istituzioni molto più di me, ma avevamo molte idee in comune. Questo stesso atelier è stato successivamente animato da alcuni giovani artisti della mia generazione, me compreso. Insieme, disegnavamo per strada, gli ultimi, i senza-dimora, in particolare i bambini che lavoravano all’entrata dei ristoranti e gli spazzini (al-khaddamin). Una volta, abbiamo realizzato un grande murale nel parco di Hadda. Rappresentava degli spazzini, dalla pelle scura e con le uniformi arancioni. Denunciavamo le loro condizioni di vita miserabili nelle bidonville ed il fatto che lo Stato li privava sia di un alloggio dignitoso che di qualsiasi diritto elementare. Accusavamo lo Stato di essere complice di un sistema basato su corruzione e mazzette nell’attribuzione di questi alloggi. Per questo motivo, questo murale era stato fortemente criticato dal sindaco di Sanaa, il quale respingeva le nostre accuse.

Quella fu, per me, la prima vera e propria esperienza di scontro con il potere politico. A cui ne sono seguite altre, dal momento che ho cominciato ad organizzare con il gruppo dei Sa’alik degli incontri e delle conferenze politiche nel mio luogo di lavoro, la Casa della cultura (Bayt al-thaqafa). La repressione politica della mia opera di contestazione è stata molto più forte della condanna da parte dei religiosi conservatori del carattere figurativo dei miei quadri. Nel 2004, ho proposto un quadro ad olio raffigurante uno spazzino in un concorso organizzato dal Ministero della Gioventù e dello Sport per premiare il miglior giovane artista yemenita. Ho vinto il premio in questione, ma è accaduto che il Ministero aveva scelto di inserire nel catalogo del premio un altro dei miei quadri, un quadro meno contestato e che io non avevo assolutamente presentato al concorso, un quadro raffigurante mia sorella vestita con l’abito tradizionale giordano.

Sono stato criticato dal mio ambiente per aver accettato questo premio da parte del dittatore Ali Abdallah Saleh. I motivi che che mi avevano spinto ad accettare questo premio di un milione di riyal (l’equivalente di circa 5000 euro, una cifra enorme tanto per lo Yemen di allora che per quello di oggi) erano di ordine puramente finanziario. Quanto alla pergamena firmata dal presidente Saleh, l’avevo strappata e poi fotografata per rendere pubblico il mio rifiuto simbolico. Avevo chiesto scusa al mondo intellettuale ed artistico per aver accettato questa somma di denaro, senza la quale non avrei mai potuto lasciare il paese.

Questo periodo è coinciso per me con l’inizio degli arresti e delle minacce armate, legati alle mie attività di militante. Il mio nome si trovava, ormai, sulla lista nera. Avevo 25 anni. Avevo molta paura ma anche molta voglia di vivere la mia vita liberamente. Grazie all’aiuto di un amico che a quel tempo occupava un incarico importante nel governo, ho potuto ottenere il visto dall’ambasciata italiana di Sanaa ed il biglietto di aereo che mi hanno consentito di lasciare il paese, col pretesto di seguire una formazione artistica a Roma. Così sono partito per l’Italia, senza conoscere assolutamente nessuno in loco. Non avevo la minima idea di come me la sarei cavata.

M. R.Come è proseguita la sua attività militante a Roma?

A. B. — E’ stato difficile. Era il Natale 2005. Non parlavo una sola parola d’italiano. Allo scadere del mio visto, ho fatto richiesta di asilo politico. Richiesta che mi è stata rifiutata. Così mi sono ritrovato clandestino. Dormivo in case occupate abusivamente, in luoghi di fortuna, a volte nei giardini o per strada. In questo periodo, continuavo a disegnare, soprattutto gli artisti di strada. Osservavo la cttà, subendone il fascino, giorno per giorno, anche se all’epoca pensavo che non si trattasse che di una tappa che mi avrebbe portato a Parigi. Alla fine, sono rimasto a Roma ed ora so che non lascerò più questa città per tutta la vita.

Appena arrivato in Italia, avevo dichiarato pubblicamente il mio ateismo, il che mi è valso, nel 2010, la condanna a morte da parte del parlamento yemenita. Contemporaneamente, una taglia veniva messa sulla mia testa da parte degli ambienti religiosi conservatori. Avevo appreso, in quell’occasione, che lo sceicco Abdelmajid al Zindani2 in persona aveva offerto 50 000 dollari (40 700 euro) affinché mi si trovasse e uccidesse. Minacce di morte e condanne si sono moltiplicate, provenienti non solo dallo Yemen ma anche da altri paesi arabi come la Giordania, l’Arabia Saudita ed il Marocco. Un giornalista che mi aveva intervistato quando ero ancora nello Yemen, ha dovuto anche lui lasciare il paese a seguito delle minacce rivoltea me. E’ andato a Djibuti, poi in Africa del Sud. Ora vive e lavora negli U.S.A. e anche lui ha dichiarato pubblicamente il suo ateismo. All’epoca, tutti gli organi di stampa yemeniti avevano rifiutato di pubblicare questa intervista, tranne il giornale Al-ishtiraki («Il socialista»).

Con l’inizio della Primavera araba, nel 2011, la drammatica situazione nello Yemen ha fatto sì che le autorità del paese dimenticassero poco per volta il mio caso. La condanna da parte del governo yemenita e la taglia messa sulla mia testa da parte dei religiosi conservatori mi hanno permesso di rinnovare la mia richiesta di asilo politico, asilo che l’Italia ha finito per accordarmi nel 2011. Data che ha segnato l’inizio della mia attività militante in Italia. Ho dunque potuto prestare man forte ai compagni che protestavano contro la costruzione della TAV (Treno ad Alta Velocità) in val di Susa3 ed ho partecipato a numerosi sit-in e manifestazioni a Roma da cui sono scaturiti violenti scontri con la polizia. Sono stato così dichiarato «individuo pericoloso per sè e per gli altri» dal prefetto di Roma, sulla base dell’articolo 203 del codice penale italiano che definisce le condizioni di «pericolosità sociale». Ho diversi processi in corso; in uno di questi il pubblico ministero aveva richiesto una pena di quindici anni di prigione, ma per fortuna sono stato assolto.

Oggi vivo nel quartiere popolare di Centocelle, in un alloggio occupato abusivamente e che, insieme ai miei compagni, abbiamo trasformato in biblioteca occupata, la BAM (Biblioteca Abusiva Metropolitana), dotata di più di 25 000 volumi. Da diversi anni, vi organizziamo incontri culturali e proiezioni di film. Durante il lockdown dovuto al Covid-19, abbiamo messo a disposizione degli abitanti molti dei nostri libri - accuratamente disinfettati - sul marciapiede davanti alla biblioteca. Questo spazio di cultura e di condivisione è oggi minacciato di sgombero.

M. R.In tutto ciò che posto ha la tua attività artistica?

A. B. — Non ha mai avuto battute di arresto. Le mie pitture hanno sempre avuto un carattere politico: denunciano l’ingiustizia sociale. In un primo tempo, ritraevo, ad olio, gli artisti di strada e i personaggi del cinema come quelli del film Accattone di Pasolini. Successivamente, dal momento in cui ho ottenuto l’asilo ed ho cominciato a militare, ho preferito raffigurare i manifestanti e la polizia su dei murales a Roma e altrove in Italia. Molte di queste pitture sono state cancellate dalle autorità, poichè incitavano alla rivolta, all’occupazione degli alloggi, alla lotta anti-TAV. In due occasioni, a Reggio Emilia e a Sapri, queste pitture mi hanno valso una denuncia da parte delle autorità locali per incitazione alla violenza contro lo Stato.

M. R.Che ne è del tuo rapporto con i tuoi amici e con i tuoi familiari yemeniti?

A. B. — Tranne mio padre che non ha mai rotto i ponti con me, gli altri membri della mia famiglia hanno interrotto tutti i rapporti quando ho dichiarato il mio ateismo. Tuttavia, da qualche anno a questa parte, i nostri rapporti sono migliorati. Attualmente vivono tutti in Giordania. Per quanto riguarda i miei amici yemeniti, alcuni hanno interrotto ogni rapporto con me per paura di esser compromessi, altri sono stati scandalizzati dalla mia dichiarazione di ateismo. In compenso, ho mantenuto i contatti con una parte dei miei amici artisti ed anarchici dell’epoca, la maggior parte dei quali vive a Sanaa. Tuttavia questi rapporti restano timidi e prudenti: i mezzi di comunicazione, così come le reti sociali e whatsapp, sono controllati dalle autorità.

M. R.Oggi, ti consideri un pittore o un disegnatore di murales?

A. B. — Non mi considero né un pittore, né un artista di strada. Mi definisco un artista militante. Rappresento la realtà, sulla tela, sulla carta, sui muri. Ho imparato tutte le tecniche praticandole e seguendo alcuni artisti. Ciò che è importante, a prescindere dal supporto, è la realtà che descrivo.

1Lo Yemen è governato da un imam della corrente sciita della Zaydiyya dal IX secolo fino al 1962, data della caduta dell’imam e della proclamazione della repubblica.

2Nato nel 1942 a Ibb, al-Zindani é uno dei leader dei Fratelli musulmani yemeniti.

3Il movimento «No TAV» si è sviluppato a metà degli anni 90 in Val di Susa, in Piemonte, per lottare contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Lione-Torino. Molte personalità italiane si sono schierate con il movimento, tra queste lo scrittore Erri de Luca.