Le proteste in Iran dal Green Movement a oggi

A circa un anno dall’inizio della rivolta popolare che ha coinvolto gran parte delle città iraniane, scuotendo nelle fondamenta la presunta stabilità e popolarità del regime iraniano, abbiamo incontrato Firoozeh Farvardin e Nader Talebi, due accademici-attivisti iraniani residenti a Berlino, per riflettere sui motivi delle proteste, sulla loro traiettoria storica e futura. Intervista.

Teheran, Piazza Haft-e Tir, 17 giugno 2009. — Quinto giorno dell’«onda verde», dopo la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad
Hamed Saber/Flickr

Firoozeh Farvardin e Nader Talebi sono ricercatori e attivisti iraniani basati a Berlino. Prima di arrivare in Germania, hanno studiato sociologia in Iran. Attualmente lavorano entrambi come ricercatori all’università Humboldt. I loro principali campi di ricerca sono politica del Medio Oriente, teorie del nazionalismo e dello Stato, migrazioni, politica del gender.

— Potreste darci un’idea di quale fosse la situazione in Iran alla vigilia della rivolta dell’autunno del 2019, specialmente al di fuori delle grandi città? Quali sono i legami tra il movimento del 2019/20 e il cosiddetto Green Movement del 2009, in termini di geografia delle rivolte e delle classi in esse coinvolte?

— In primo luogo, c’è una enorme differenza nella scala delle manifestazioni. L’ultima ondata è stata la maggiore nella storia moderna dell’Iran, perfino maggiore della Rivoluzione del 1979. Infatti, il movimento ha visto coinvolte un gran numero di città medie e grandi, a volte città di cui gli Iraniani non avevano mai sentito parlare prima. Si può dire che gli Iraniani abbiano imparato la propria geografia grazie alle manifestazioni. In secondo luogo, la brutalità della repressione dello Stato è stata incomparabile.

Il Green Movement rappresentava essenzialmente le classi medie e le sue manifestazioni si svolgevano nei quartieri centrali abitati delle classi medie nelle grandi città. Quando, nei suoi ultimi giorni, il movimento ha cominciato a diffondersi in aree più povere, specialmente a Teheran, è stato immediatamente schiacciato dalle squadre antisommossa della polizia.

Inoltre, contrariamente alla sua immagine di “movimento verticale”, il Green Movement aveva i suoi leader a rappresentarlo: i riformisti Mir Hossein Mousavi, Zahra Rahnavard and Mehdi Karroubi, che sono stati prima arrestati e poi posti agli arresti domiciliari.

Nel 2018 e 2019 non è andata così. È stato un vero movimento spontaneo e senza leader, che si è manifestato non solo nei quartieri commerciali ma anche in zone più piccole. Difatti, le manifestazioni sono iniziate ai margini di Teheran, non nel centro. In ogni caso, abbiamo vari tipi di manifestazioni: insegnanti, operai, gente comune nelle città più piccole e nel Sud. Mentre le manifestazioni che hanno avuto luogo a gennaio 2020, dopo la caduta dell’aereo ucraino, sono state essenzialmente dominate dalla classe media. Alcune delle persone coinvolte (nella rivolta del 2019) si possono considerare, nelle parole di Asef Bayat, alla stregua di “poveri della classe media”. Si tratta di quella parte di popolazione istruita, che sopravvive con lavori precari nelle aree più marginali e povere delle grandi città, soprattutto Teheran.

Pertanto, abbiamo assistito alla coesistenza di diverse manifestazioni, in posti diversi e allo stesso tempo. Per esempio, pur mancando una relazione organica tra le più ampie proteste di strada e le proteste operaie, i movimenti stanno avvenendo fianco a fianco, nelle stesse città e regioni. Inoltre, la leadership dei lavoratori organizzati non sta ancora dettando le principali rivendicazioni, ma sicuramente sta aprendo la strada per ulteriori manifestazioni.

— Quali sono le principali cause e rivendicazioni delle proteste?

Chiunque, specialmente nelle classi inferiori, ha un motivo di rabbia contro il sistema. Può essere per la crisi economica, o quella politica, o per diverse forme di discriminazione. La grandezza delle proteste del 2019 deriva dal mescolarsi di tutti questi motivi di malcontento. Ma è anche possibile tracciare una linea di continuità storica. Tra il 1992 e il 1995 una serie di proteste sono scoppiate soprattutto negli insediamenti informali intorno alle maggiori città iraniane, come Teheran (segnatamente a Eslamshahr), Mashhad, Arak and Shiraz. In questo caso, le manifestazioni sono avvenute in risposta alle politiche di aggiustamento strutturale e di privatizzazione implementate dopo la guerra con l’Iraq sotto la guida del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Le suddette rivolte, represse dallo Stato con arresti, assassinii e intimidazioni, avevano coinvolto le classi più povere, come è avvenuto nel 2018 e 2019.

Non dobbiamo dimenticare il ruolo delle sanzioni economiche sullo sfondo delle rivolte del 2018-19. Più che un effetto diretto, sono spesso state utilizzate come una scusa per i tagli (ai sussidi essenziali). Quindi uno dei principali fattori di malcontento è stata l’ondata di politiche neoliberiste introdotte dopo la fine della Guerra con l’Iraq (1980-1988) e rafforzate da Ahmadinejad (2006), il cui risultato è stato il taglio di molti sussidi sociali. Nel 2012, il governo ha lanciato un "programma di resistenza economica”, che di fatto era la ricetta per espandere queste “riforme” neoliberiste.

Dieci anni fa era molto più difficile trovare un cittadino iraniano che morisse di fame, per l’esistenza dei sussidi, ma oggi molti iraniani vivono al di sotto della soglia di povertà e fanno fatica a sopravvivere con un alto tasso d’inflazione e un salario minimo di meno di 100$.

— Quali sono le aree più coinvolte nell’ultima rivolta?

Geograficamente, il nuovo movimento ha visto coinvolte principalmente molteplici città minori, oltre a quelle più grandi. Inoltre, e cosa più interessante, quartieri di grandi città precedentemente non politicamente attivi, sono stati coinvolti.

Per quanto riguarda le regioni, Khuzestan e Kurdistan stanno avendo una parte importante a partire dal 2018, laddove le proteste del Green Movement avvenivano quasi esclusivamente nelle aree di lingua persiana. La diffusione della rivolta nelle città minori è un passo molto importante, poiché presenta nuove sfide e nuove opportunità per i manifestanti. Mentre i giovani che partecipano alle manifestazioni nelle zone centrali delle grandi città hanno sempre potuto contare sull’anonimato, questo può non avvenire quando si protesta in centri minori, o nel proprio quartiere.

Ma allo stesso tempo, l’arrivo delle proteste in luoghi ‘inusuali’ ha significato anche un sostegno popolare maggiore ai dimostranti nelle città minori e nelle zone marginalizzate delle metropoli.

— Che impatto ha avuto la crisi ‘Covid19’ sul movimento?

La rivolta era quasi del tutto finita quando il Corona virus ha colpito l’Iran. Pertanto, non è stato come in Iraq, dove l’esplosione del Covid ha chiaramente agito contro la rivolta. Ciò detto, di certo il Corona ha aiutato il regime iraniano a passare un’estate “più semplice”, ma la cattiva gestione della crisi ha nel contempo aumentato la rabbia della popolazione, specialmente dopo l’esecuzione di un manifestante nell’agosto 2020. Non possiamo ancora sapere cosa potrebbe succedere nell’attuale “seconda ondata” del Corona ma forse non sarà un fattore decisivo, visto che la gente sta imparando a convivere col virus. Inoltre, come abbiamo visto in Libano, il Corona non impedisce al popolo di scendere in strada e protestare.

— In che senso quando è scoppiata la crisi Covid, il movimento stava già dissolvendosi?

L’ultima rivolta è avvenuta tra la metà di novembre 2019 e la fine di gennaio 2020, mentre la crisi del Corona virus è ufficialmente iniziata circa un mese dopo. Le manifestazioni principali sono durate quattro giorni, e si sono ridotte soprattutto per la brutalità della repressione.

La repressione è stata particolarmente violenta. Secondo alcuni rapporti, ci sono stati 1500 morti in tre giorni nel 2019, paragonati alle 70 vittime in circa 10 mesi del Green Movement. Inoltre, più di 10.000 persone sono state arrestate nel primo mese di rivolta.

Ovviamente, la repressione è stata più violenta in alcune zone marginalizzate (come quelle abitate da Arabi e Curdi), piuttosto che nelle grandi città.

Inoltre, senza un’organizzazione, una stampa libera, sindacati liberi e una leadership politica non c’è modo di indirizzare le rivendicazioni popolari e trasformarle in una piattaforma politica.

Ma se è vero che le proteste possono facilmente dissolversi, è anche vero che possono ritornare con la stessa facilità.

— Avete descritto le rivolte quasi come mobilitazioni parallele, avvenute separatamente e in modo spontaneo. Non c’è davvero alcuna connessione tra di esse? Nessun tentativo di creare un coordinamento e una leadership condivisi?

Le proteste sono prive di leader a diversi livelli. Naturalmente, nel caso dei lavoratori o degli insegnanti, alcuni leader e attivisti con più consapevolezza sono emersi. Ma non esiste un coordinamento su scala nazionale, eccetto gli scioperi del 2018 degli insegnanti e degli autisti di autobus e automezzi.

La possibile connessione tra diversi gruppi di protesta è ciò che preoccupa di più il regime. E questo è cominciato ad avvenire, per esempio, dopo lo schianto dell’aereo ucraino nel 2020 o, anche prima, al tempo delle proteste contro l’obbligo di indossare il velo nel 2018. Nell’ultimo caso,l’immagine di una donna non velata, che solleva un hijab bianco legato a un bastone, è diventata virale e ha mostrato il potenziale nel combinare insieme diverse richieste e persone molto diverse. In breve, non c’è alcuna relazione organica, ma vi sono gruppi differenti che si inspirano l’un l’altro e quando arriva il momento possono confluire in ampie manifestazioni.

— Esistono similitudini tra l’Iran e la cosiddetta «Seconda Ondata» delle «Primavere Arabe» in Libano, Iraq, e altrove?

Si, esistono. In effetti, per comprendere i movimenti del 2019/20 è utile guardare non solo alle manifestazioni del 2017/18 in Iran, ma anche agli eventi in Iraq, Libano, e altri paesi della regione.

Per esempio, nelle ultime proteste le modalità di protesta sono più simili a quelle del Libano e, in misura minore, dell’Iraq: sit-in permanenti, blocchi stradali, e grandi raduni.

Queste pratiche sono abbastanza nuove per gli Iraniani, e sono chiaramente ispirate alle proteste in Libano e in Iraq.

— Che ruolo hanno giocato i media, e soprattutto i social media, nella seconda ondata di proteste?

I Social media hanno avuto un ruolo più rilevante nel 2009, ed è per questo che il governo al tempo aveva bloccato sia Facebook che Twitter.

Nel 2019/20 è differente, e quando il regime ha tagliato internet, le manifestazioni sono andate avanti.

I social media non sono usati per organizzare le proteste. Piuttosto, possono avere un ruolo indiretto. Per esempio, Telegram è divenuto un canale importante per ottenere notizie sulle manifestazioni. A un certo punto ogni città si è dotata del proprio network e del proprio canale.

Senza contare che le TV satellitari utilizzano i social media come fonte di informazione.

Infine, costituiscono uno spazio al cui interno le ingiustizie sociali vengono esposte e denunciate. In questo senso, possiamo pensare che abbiano degli effetti sulle mobilitazioni.

Ma alla fine i media più importanti nei movimenti attuali sono senza dubbio le TV satellitari, dato che la maggior parte delle persone si informano lì.

— Che ruolo invece per la diaspora? E soprattutto quella di sinistra?

L’opposizione in esilio ha un ruolo marginale nelle manifestazioni. La sinistra in quanto forza organizzata non esiste praticamente più.

Non sono riusciti mai a risollevarsi dopo le dure repressioni degli anni ottanta, neanche in esilio. La caduta dell’Unione Sovietica è un altro motivo, come è stato per altri movimenti di sinistra. Oggi rimangono solo alcuni piccoli gruppi, alcune figure.

È abbastanza significativo che la Sinistra non sia capace di fare nulla in relazione all’ultima ondata di proteste, sebbene queste ultime in teoria costituiscano un terreno particolarmente fertile, viste le rivendicazioni di tipo economico e il discorso anti-islamico che le caratterizzano.

Forse in parte il problema è anche che soffrono dell’attuale polarizzazione del discorso politico. Sono divisi su quali siano le priorità della Sinistra. Qual è il nemico principale? L’imperialismo globale, contro cui lotta (in teoria) la Repubblica Islamica? Come se dovessimo per forza scegliere: o contro lo stato Iraniano, o contro gli Stati Uniti.

Molti trovano anche una giustificazione nel non sostenere le proteste perché, per esempio, sono state accompagnate da alcuni slogan sessisti o realisti.

Altri tentano, con poco successo, di seguire quello che sta succedendo e di salire sul carro delle manifestazioni. È abbastanza triste: la Sinistra avrebbe un grande potenziale ma non è capace di sfruttarlo.

— Com’è la situazione attuale? Come pensate possa evolvere nel prossimo futuro?

Potremmo descrivere la situazione attuale con un’immagine: delle pietre lanciate in un lago, che creano diverse onde, e le onde si infrangono l’una sull’altra, e alla fine convergono in un’unica onda più grande diretta verso il centro.

Questo sta accadendo in Iran. Inflazione, la crisi del sistema sanitario, una precarietà diffusa. Senza contare che, a causa del Covid-19, emigrare è divenuto molto più difficile. Tutti questi elementi convergono insieme. La vita di tutti i giorni è una scommessa costante. Un autista di taxi una volta ci ha detto che «hanno trasformato il paese in un enorme Casinò».

Le differenze di classe sono oggi evidenti oggi più che mai. E dare la responsabilità alle sanzioni per tutti i problemi non funziona più. La gente è stanca. In questo contesto, durante gli ultimi anni, quella che potremmo chiamare l’«economia della paura e della speranza» è collassata. La gente non ha più paura, perché non ha più niente da perdere, e allo stesso tempo non ha più speranza nel futuro, come quella che i cosiddetti riformisti per esempio continuavano ad alimentare.

Nessuno può fare previsioni certe, ma una nuova ondata di proteste è molto probabile. Non è una questione di se, ma di quando.