Tutto quello che resterà di noi. Passato, presente e futuro palestinese - una conversazione tra e con Mohammed, Adam e Saleh Bakri.
Tutto quello che resta di te attraversa ottant’anni di storia palestinese seguendo tre generazioni della famiglia Hammad, dalla Nakba del 1948 al genocidio in corso su Gaza. Il film intreccia biografia personale e memoria collettiva, mostrando come il colonialismo d’insediamento non sia un evento passato ma una struttura che continua a frammentare vite e geografie. In questa conversazione, i tre attori riflettono sul significato di fare arte sotto occupazione, sulla necessità di preservare la memoria palestinese contro il monopolio della narrativa sionista, e sul Ritorno come riappropriazione non solo della terra, ma della propria storia.
Tutto quello che resta di te è un film che attraversa la storia palestinese dalle sue origini fino ai giorni nostri: dal colonialismo britannico alla Nakba, dal 1967 alla prima Intifada, fino all’attualità. La narrazione segue tre generazioni della famiglia Hammad, dalla perdita della casa a Jaffa all’esperienza nei campi profughi e agli esili, dentro e fuori la Palestina. La loro vicenda non è eccezionale, ma universale: riflette l’esperienza collettiva di un popolo che, da oltre ottant’anni, tenta di ricomporre i frammenti della propria memoria sospesa tra perdita e resistenza.
Il film racconta le vite di tre generazioni palestinesi dalla Nakba ai giorni nostri, segnate dagli eventi che hanno cambiato per sempre il corso della storia palestinese: dalla fine del mandato britannico alla Nakba, passando per l’occupazione della West Bank nel 1967, la Prima Intifada - qui un evento stravolge la narrazione del film, il figlio di Salim, uno dei protagonisti, viene ucciso durante degli scontri con le forze di occupazione israeliane. I genitori di Noor, Salim e Hanan cercano in tutti i modi di salvargli la vita portandolo a ricevere delle cure in Israele, ma senza risultati.
La famiglia decide di donare gli organi di Noor, confrontandosi con la realtà della società israeliana e le contraddizioni della vita dominata da un sistema di occupazione coloniale. Noor rappresenta la gioventù palestinese che non vuole arrendersi, determinata a combattere e a non abbassare la testa anche a costo di perdere la vita. La storia della famiglia Hammad racconta il paradosso palestinese tra dolore, memoria e presente in cui il passato rimane un macigno ingombrante nel presente.
La famiglia come microcosmo: tre generazioni tra cinema e storia
Uno degli aspetti più interessanti del film è l’intreccio tra la dimensione intima e quella interpretativa della famiglia Bakri. Adam, Saleh e Mohammed Bakri danno vita a una continuità generazionale dentro e fuori lo schermo: Adam interpreta Sharif da giovane, ruolo che il padre Mohammed riprende nella vecchiaia, mentre Saleh incarna Salim, figlio di Sharif. I legami reali si sovrappongono così a quelli narrativi, creando un dialogo profondo tra biografia e storia collettiva.
Dopo la proiezione del film a Firenze, ho sentito il desiderio di interrogare i protagonisti – Adam, Saleh e Mohammed Bakri – sulla loro storia artistica, politica e familiare. Mohammed, che avevo incontrato qualche anno fa a una rassegna cinematografica palestinese a Napoli, ha accolto con entusiasmo la mia richiesta, seguito dal “sì” di Adam e Saleh. Ho ascoltato le loro voci e provato a restituirne un racconto collettivo, dalle geografie frammentate della Svezia, di Dubai e della Palestina.
È proprio Adam a sottolineare un aspetto fondamentale: attraverso la storia di una famiglia, è possibile entrare in contatto con la storia di un popolo intero. È grazie a questa dimensione che per lo spettatore diventa più facile avvicinarsi alla vita palestinese. Parlando con Adam, mi rendo conto che da quel 1948 e dalle sue conseguenze poco è cambiato. Io, palestinese in Italia, nata e cresciuta in un paese lontano per geografia, lingua e cultura da quello di mio padre – rifugiato in un campo dove non c’erano più tende ma case in cemento armato, con inverni gelidi ed estati bollenti – riconosco in lui e in Adam, che mi parlava da Dubai, la stessa esperienza maturata nella lontananza.
Sono a Dubai, mi dice, perché è il posto più vicino per non stare troppo lontano dalla mia famiglia. Mia moglie è libanese e non può entrare in Palestina; io, come artista, non ho un futuro a casa mia a causa dei limiti imposti alla vita palestinese da Israele. Prima vivevo a New York, ma ero troppo lontano dai miei affetti.
I ruoli interpretati dagli attori rispecchiano perfettamente la loro realtà familiare, intrecciando biografia e finzione cinematografica. Nella nostra conversazione, Adam, Saleh e Mohammed raccontano questa doppia dimensione familiare e politica, in un momento in cui parlare di Nakba appare più che mai attuale. Nella storia palestinese, infatti, il passato sembra non passare mai, ma continuare a farsi presente e futuro.
Anche Saleh condivide il pensiero del fratello:
La famiglia è un cerchio. Ogni famiglia rappresenta la condizione palestinese. La nostra – i Bakri – come quella che interpretiamo nel film, gli Hammad, rappresentano il mondo palestinese e il dolore perpetuo, ripetitivo. La nostra condizione è questa: subiamo un genocidio da 80 anni, con diversa intensità, ma sempre genocidio è.
Saleh aggiunge:
Continuare a osservare il ciclo di violenza a cui siamo sottoposti e non poter immaginare una fine, una liberazione, qualcosa di diverso da ciò che abbiamo già visto o vissuto, è la nostra tragedia.
Loro padre Mohammed, quando lo interrogo su che cosa abbia significato per lui questo progetto mi dice che:
Per me non c’è differenza tra raccontare la mia storia e la nostra storia collettiva come popolo. Il mio obiettivo come palestinese nato e cresciuto sotto lo stato d’Israele è sempre stato quello di raccontare la mia storia. Raccontare la mia storia vuol dire contrastare le bugie della storia dell’Altro; qui eravamo in esilio anche se abbiamo continuato a vivere in Palestina, senza memoria. Ero un fantasma, invisibile.
Ripenso alle parole di Saleh, che mi dice:
Il genocidio non è iniziato adesso. Adesso è solo più intenso e sotto gli occhi di tutti. Noi palestinesi sopravviviamo al genocidio dal 1948, o forse anche da prima, dal tentativo degli inglesi di cacciarci dalle nostre terre per fare spazio all’insediamento sionista.
Il genocidio come struttura: la Nakba che non finisce mai
Nel dibattito giornalistico e accademico, c’è ancora molta resistenza ad affrontare il progetto sionista nella sua dimensione sistemica. Come scrive Patrick Wolfe, “il colonialismo d’insediamento non è un evento, ma una struttura” — e questa struttura si fonda proprio sulla distruzione, totale o parziale, di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Se prendiamo quindi la definizione di genocidio adottata nel 1948 — lo stesso anno dell’inizio della catastrofe palestinese — è ironico pensare che le stesse Nazioni Unite, che nel 1947 approvarono il piano di partizione della Palestina, abbiano poi definito il termine che meglio descrive ciò che da allora si perpetua contro i palestinesi.
Saleh aggiunge: “La famiglia è un microcosmo. Solo il fatto di potersi incontrare è una minaccia per il sionismo.” Ed è per questo che la grande famiglia palestinese — la nostra comunità — è dispersa e frammentata ovunque nel mondo. È la stessa ragione per cui “Israele” ha chiuso il teatro di Haifa, dove Saleh e altri artisti palestinesi lavoravano per mettere in scena la vita e la storia palestinese. Come emerge dal film e dalla loro esperienza, la macchina del controllo sionista non serve a dividere palestinesi e israeliani, ma soprattutto i palestinesi tra loro, per impedire l’incontro, creare gerarchie di dolore e disciplinare meglio le vite.
La famiglia è quindi il centro della vita palestinese, sia sul piano personale che su quello collettivo. La Nakba è per Saleh un evento individuale e collettivo al tempo stesso: tutti hanno subito e continuano a subire il dolore generato da quel 1948. Adam e Saleh sottolineano la difficoltà di aver lavorato al film in un momento in cui la Nakba continua e si intensifica con il genocidio su Gaza. Entrambi concordano sulla necessità di pensare al passato e al presente come a una struttura unica, dove ciò che conta è preservare la vita e l’identità palestinese. Qui mi vengono in mente le parole di Elias Sanbar che nel suo libro “Il Palestinese”1 si chiede che cosa sia l’identità e si risponde affermando che “l’identità dipende dal divenire; l’inquietudine relativa all’identità non si ha che quando, individui o gruppi, ci troviamo confrontati a quello che ci attende. Noi ci chiediamo “da dove veniamo” solo per rispondere all’altra domanda “chi saremo”.
Mohammed ci tiene a sottolineare che come palestinesi dobbiamo necessariamente lavorare sul monopolio della verità che Israele ha provato in questi 80 anni da detenere, “hanno preso la nostra terra e poi hanno detto che non esistevamo, non è assurdo?” mi dice Mohammed accennando una risata. Nel film infatti interpreta Sharif, sopravvissuto alla Nakba, la cui caratteristica fondamentale è la sua incapacità di dimenticare; cerca le sue arance, i suoi fichi, con il corpo a Nablus ma con l’anima ancora a Jaffa.
Ho sempre seguito con interesse la storia della famiglia Bakri, e poterli intervistare è stato per me un onore. Credo che, nonostante le difficoltà imposte alla produzione artistica, loro – come tanti altri – siano riusciti a raccontare pezzi fondamentali della vita palestinese. Ripenso al ruolo che i registi palestinesi hanno avuto nel costruire un archivio di memoria necessario per il futuro: da Khleifi a Suleiman, fino ai più contemporanei come le sorelle Jacir, i fratelli Nasser e Bakri stesso, che con Jenin, Jenin ha impresso per sempre nella storia la distruzione del campo profughi di Jenin nel 2002.
L’arte come resistenza: raccontare per non essere cancellati
È in questo che l’arte si fa resistenza: riesce a raccontare, spesso con durezza ma anche con intimità e delicatezza, ciò che le nostre famiglie non sono riuscite a dirci, vuoi per dolore, per impossibilità o per rifiuto. Raccontare la Nakba diventa quindi un modo per parlare di oggi, per restituire ciò che molti di noi non hanno potuto ascoltare dalle voci dei propri nonni – scomparsi, morti, o incapaci di ricordare per la fatica generata dalla memoria. Tutto quello che resta di te ci offre uno sguardo profondo sul significato di essere palestinesi. Non siamo sopravvissuti perché resilienti, ma perché abbiamo scelto di resistere.
Saleh mi racconta di quando, durante le riprese, con suo padre e Adam provavano a scambiarsi i ruoli assegnati, discutendo insieme di come interpretare certe scene. Mohammed, nato solo cinque anni dopo la Nakba, porta con sé una memoria ancora viva di quell’evento, avendo vissuto fino agli anni Sessanta sotto regime militare.
Nel film, suo figlio Adam interpreta il padre di famiglia, Sharif, da giovane. Il fatto che i tre Bakri, nello spazio intimo del loro ambiente familiare, si confrontino su come rappresentare esperienze realmente vissute da loro o dai loro cari rende il film un esercizio collettivo di memoria e interpretazione straordinario.
“Per me con questo film si chiude un ciclo”, mi dice Adam. “Quando come artista finisci un lavoro come questo dovresti essere felice, ma io ho provato solo un grande senso di tristezza, per la nostra storia. Per la Nakba che continua sotto i nostri occhi.”
In sala ho pianto per tutto il tempo: le immagini che scorrevano davanti ai miei occhi erano quelle della mia famiglia, di tutte le nostre famiglie. Il 1948, la perdita del paese, delle case, degli alberi e dei loro frutti; l’esperienza dei campi profughi e delle tende, elemento perpetuo della nostra storia, che continua a riempire il nostro immaginario a distanza di ottant’anni.
Le lacrime mi scendevano pensando che anche io, dalla diaspora, ho cercato di ricostruire la mia storia: portando mio padre ad Haifa alla ricerca della nostra casa, visitando con lui il campo profughi di Irbid in Giordania dove è cresciuto, nel tentativo di ricomporre una mappa, un archivio della nostra presenza su una terra che ci appare sempre più lontana.
Ho chiesto ad Adam cosa significhi per lui il Ritorno, tema rappresentato nel film attraverso l’anziana coppia, Hanan e Salim, che torna a Jaffa con un passaporto canadese. Adam mi risponde che per lui il Ritorno non significa soltanto riprendersi la terra, ma “strappare la nostra storia con forza” — taking by force our story. Per Mohammed il Ritorno oggi è “avere il diritto di essere ovunque vogliamo essere, senza un permesso israeliano” e continua “la nostra vita è il teatro dell’assurdo, dobbiamo chiedere un permesso militare anche per decidere con chi e quando fare l’amore.”
Ed è proprio questo il senso del film e delle parole dei Bakri: per loro, artisti, registi e attori palestinesi, impegnati da anni a raccontare la storia del proprio popolo, è chiaro che – come il film mostra – il tentativo di “Israele”, sostenuto dall’Occidente e non solo, sia sempre stato quello della nostra eliminazione. Fare arte in questo contesto è una responsabilità. “Non puoi essere solo un artista in Palestina”, mi dice Adam. “Senti la responsabilità di raccontare una storia che altrimenti andrebbe perduta, sepolta sotto le macerie della narrativa dominante.”
Saleh aggiunge: “Gli spazi per gli artisti palestinesi non esistono in Israele, perché raccontare la nostra storia e le nostre memorie è una minaccia per la grande menzogna della storia israeliana.” Mohammed nato negli anni ‘50 ha avuto un’esperienze diversa dai suoi figli, durante la nostra conversazione mi racconta che per lui è stato molto difficile appropriarsi della sua identità palestinese e che dopo gli anni dell’università ha dovuto fare un grandissimo esercizio di recupero dell’arabo perchè l’unica lingua in cui aveva imparato a recitare era l’ebraico. “ero una capra persa in mezzo al mare, Kanafani mi ha portato a riva e salvato”.
Con queste parole Mohammed sottolinea l’importanza del contributo politico degli autori palestinesi che l’hanno aiutato a conoscere sè stesso, a trovare un’identità, quella palestinese. “Kanafani dall’esilio, dal campo profughi. Habibi e Darwish da qui. Questi autori palestinesi mi hanno fatto diventare palestinese, mi hanno dato l’immagine completa della nostra storia.” Mohammed insiste sulla figura di Emile Habibi e mi racconta quando fu lui stesso a spiegargli come nacque “Il Pessottimista”, celebre opera di Habibi. Egli fu infatti spinto da una frase sentita pronunciare da Golda Meir, la quale durante una seduta della Knesset disse: “E’ chiaro che non esistono i palestinesi, se esistessero potremmo leggere la loro letteratura, ma non esiste”. Queste parole spinsero Habibi a lavorare su quello che è conosciuto come uno dei capolavori della letteratura e del teatro palestinese.
La tenda come destino: la condizione palestinese tra esilio perpetuo e memoria
L’immagine della tenda – elemento costante della condizione palestinese – mi fa riflettere su questo destino collettivo, che ancora oggi, dopo ottant’anni dalle prime tende piantate nei campi, continua a inseguirci come un fantasma. Mohammed, nel film, interpreta Sharif nella sua vecchiaia: il nonno palestinese, combattente, esiliato, con il corpo a Nablus e la mente e il cuore a Jaffa. Sharif custodisce la memoria della Palestina di un tempo e non riuscirà a rivederla prima di morire. Cosa che riuscirà a fare Salim, solo in tarda età, trasformata e in frantumi, accompagnato da un passaporto straniero, dopo una vita trascorsa a pochi chilometri dalla sua città natale.
Questa esperienza è, ancora una volta, la condizione universale palestinese.
Saleh in conclusione mi dice “se vivessi 10 vite non sarebbero abbastanza per raccontare tutte le storie” ed è questo per me il valore della memoria versus la storia quella con la S maiuscola, raccontata dai vincitori, dal potere e da chi definisce la narrativa. La memoria invece, quella dei dannati, degli ultimi, dei barbari e dei dimenticati continua ad essere - con le parole di Saleh - “la nostra arma contro il colonialismo e l’imperialismo”.
Ad un occhio attento, allenato allo sguardo palestinese, nel film sono evidenti i richiami alla produzione letteraria palestinese. In particolare, guardandolo, ho rivisto molte delle scene descritte da Ghassan Kanafani in Ritorno ad Haifa. Per Saleh, questi non sono semplici riferimenti, ma vere e proprie ispirazioni che, a loro volta, hanno trovato nell’ambiente politico e culturale arabo un terreno fertile per la propria espressione artistica. Said e Safya, i protagonisti di Ritorno ad Haifa, tornano dopo molti anni nella loro casa natale, sottratta dai sionisti durante la Nakba; allo stesso modo, Salim e Hanan compiono il loro ritorno. Nella mia mente, le due scene si sovrappongono: l’incontro con la famiglia israeliana, l’ingresso esitante in casa, lo stucchevole confronto tra dolori — tutti momenti che si riflettono l’uno nell’altro, intrecciando memoria e presente.
Mohammed chiude l’intervista dicendomi che lui non ha mai provato odio nella sua vita, che il motore che l’ha spinto in tutti questi anni a continuare a lavorare per la causa di liberazione della Palestina, tutta, non è mai stato l’odio ma la rabbia, quella si. “La rabbia mi ha reso creativo, è un sentimento trasformativo. L’odio mi avrebbe distrutto e annientato, ho preferito essere arrabbiato e farmi bruciare dentro questo sentimento che mi ha aiutato a pensare in maniera creativa e sofisticata a quale dovesse essere il mio contributo in questa causa”.
Non so se sono d’accordo con Mohammed, di sicuro la rabbia è il sentimento che ha dominato i miei giorni e le mie notti. Ma se c’è qualcosa che questa causa mi ha insegnato è il profondo rispetto per la vita, per le cose semplici della vita: il pane sfornato caldo intinto nell’olio prodotto dai propri alberi, le chiacchiere tra donne lontano da orecchie indiscrete, le feste di matrimonio. Forse oggi abbiamo anche il diritto di odiare chi ha cercato di strapparci tutto, soprattutto le piccole cose che in tutti questi anni ci hanno fatto rimanere in piedi.
Abbiamo una causa per cui lottare. Questo è molto. Il popolo palestinese preferisce morire in piedi piuttosto che perdere la propria causa. Che cosa abbiamo ottenuto! Abbiamo dimostrato che il re ha torto. Abbiamo dimostrato che questa nazione continuerà a lottare fino alla vittoria. Abbiamo dimostrato che il nostro popolo non potrà mai essere sconfitto. Abbiamo insegnato a ogni singola persona di questo mondo che siamo una piccola nazione coraggiosa che lotterà fino all’ultima goccia del proprio sangue. Per ottenere giustizia per noi stessi dopo che il mondo ha fallito nel darcela. Questo è ciò che abbiamo raggiunto (Ghassan Kanafani).
1Sanbar, E. (2005). Il palestinese. Figure di un’identità: le origini e il dividere, Milano, Jaca Book.
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