Gaza. L’Arabia Saudita congela gli accordi con Israele

L’attacco del 7 ottobre e lo scoppio della guerra a Gaza hanno segnato una battuta d’arresto per gli accordi di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, scatenando il malcontento degli Stati Uniti. Ma sono già diversi anni che il regno saudita cerca una maggiore indipendenza sul fronte diplomatico in un contesto segnato dall’indebolimento dell’Occidente.

l Segretario di Stato americano Antony Blinken (a sinistra) incontra il ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan, a Riyad, il 14 ottobre 2023.
Jacquelyn Martin/POOL/AFP

Il Consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Joe Biden, Jake Sullivan, accogliendo con favore la ritrovata stabilità del Medio Oriente, aveva scritto sul numero di settembre-ottobre 2023 della prestigiosa rivista Foreign Affairs: “La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto non lo sia mai stata negli ultimi due decenni”. Righe scritte solo pochi giorni prima dell’attacco sferrato da Hamas il 7 ottobre 2023 che ha sconvolto l’intera regione: oggi a Gaza ci sono decine, se non centinaia di morti al giorno, in Cisgiordania la situazione è sul punto di esplodere, Hezbollah è in guerra contro Israele, gruppi islamisti attaccano i militari americani in Iraq, Siria e Giordania, i miliziani Houthi dello Yemen stanno lanciando missili contro le navi mercantili nel Golfo di Aden.

Gli Stati Uniti hanno fatto male i conti

Allora com’è possibile che gli Stati Uniti, con i loro specialisti in relazioni internazionali e le loro agenzie di intelligence, abbiano fatto una valutazione così errata dello scenario regionale, non riuscendo a comprendere la conflittualità che esisteva in Medio Oriente? Prima del 7 ottobre, come dimostra l’articolo di Jake Sullivan, gli Stati Uniti erano sicuri di un imminente ritiro dalla regione ormai stabilizzata, in modo da poter poi “contenere” le mire di Cina e Russia. C’era la convinzione che la questione palestinese non fosse più centrale, ridotta ormai a sporadici scontri in Cisgiordania e a periodiche tensioni nella città di Gaza. Inoltre, gli Stati Uniti erano convinti che Hamas e l’Autorità palestinese, in perenne rivalità, non fossero più in grado di avanzare richieste politiche in linea con i loro slogan nazionalistici. Una dinamica auspicata dagli israeliani e dagli americani, paghi del fatto che i palestinesi, ormai sviliti, non fossero più un avversario politico da temere.

I timori erano semmai rivolti all’Iran e al suo braccio armato in Libano, Hezbollah, dotato di un nuovo e potente arsenale. Visto che il Medio Oriente era ormai una regione relativamente tranquilla, era necessario consolidare la fragile stabilità regionale, incoraggiando i paesi arabi a stabilire relazioni diplomatiche con Israele, includendolo nella geopolitica locale. Gli accordi avrebbero dissuaso l’Iran sciita da un attacco agli arabi sunniti, ormai alleati di Israele, che poteva accorrere in loro aiuto. È sulla base di questa logica che sono stati ideati gli Accordi di Abramo , firmati nel 2020 sotto l’amministrazione Trump, e che il suo successore democratico, Joe Biden, ha cercato di estendere all’Arabia Saudita. Gli Stati Uniti – ma anche Israele – speravano che, dopo la firma dell’accordo, le ricche monarchie del Golfo avrebbero investito in Cisgiordania e Gaza, con un vantaggio economico per i palestinesi e politico per gli israeliani. Come una calamità naturale, l’attacco mortale di Hamas del 7 ottobre ha però messo in luce un altro volto del Medio Oriente.

I limiti degli accordi di Abramo

Alla luce delle reazioni dei paesi arabi dopo l’attacco del 7 ottobre, appare chiaro che gli Accordi di Abramo non hanno avuto alcun effetto dal momento che nessuno dei paesi firmatari ha sostenuto Israele fornendo sostegno diplomatico, malgrado la cooperazione di sicurezza tra Israele e gli Stati del Golfo e le informazioni confermate da Israele di un “ponte terrestre” per trasportare merci da Abu Dhabi al porto di Haifa, attraverso il territorio saudita, giordano (ma Amman ha smentito) ed egiziano, per bypassare il Mar Rosso.

Tutti gli Stati del Golfo hanno quindi espresso piena solidarietà alla popolazione di Gaza, chiedendo di mettere fine ai raid dell’aviazione israeliana. La condanna degli attacchi di Hamas è arrivata solo dagli Emirati Arabi Uniti (EAU). Il 12 febbraio 2024, il loro rappresentante presso le Nazioni Unite ha sostenuto anche la necessità di rafforzare la cooperazione tra Abu Dhabi e Tel Aviv, pur esprimendo le preoccupazioni dei paesi del Golfo per la guerra in corso a Gaza. Ma gli Emirati hanno anche contestato la linea di Israele, presentando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione che chiede un immediato cessate il fuoco, mozione poi respinta per il veto americano.

Inoltre, nessun paese arabo, ad eccezione del Bahrein che ospita una base navale americana, ha condannato gli attacchi degli Houthi contro le navi mercantili che attraversano lo stretto di Bab el-Mandeb, né ha accettato di far parte della coalizione militare contro di loro. Anche in Egitto, dove si registra un forte calo delle entrate del Canale di Suez, il governo ha espresso disappunto per i bombardamenti in Yemen da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito.

È chiaro che gli Accordi di Abramo non hanno avuto alcuna efficacia politica, né hanno fornito il sostegno diplomatico che Israele si aspettava dai nuovi alleati. Viene anche il dubbio che ci fosse un patto non scritto che ne abbia limitato l’efficacia. Israele non si aspettava forse che i firmatari dell’accordo rinunciassero alla solidarietà con i palestinesi? Gli Stati arabi firmatari non speravano invece di incoraggiare Tel Aviv a riconoscere, in una forma o nell’altra, uno Stato palestinese? Ma israeliani e americani hanno continuato a credere che gli Accordi di Abramo avessero definitivamente estromesso la questione palestinese, auspicando anche l’entrata dell’Arabia Saudita nell’accordo. Una speranza che però non teneva conto delle intenzioni di Riyad di bilanciare le sue alleanze strategiche con un diverso gioco geopolitico regionale per affermare la propria autonomia.

Le ambizioni di autonomia di un alleato strategico

È almeno dal 1945 che Stati Uniti e Arabia Saudita hanno interessi in comune nella regione. Gli americani avevano bisogno del petrolio saudita, mentre i sauditi avevano bisogno di un potente alleato per difendersi dai vicini ostili, che negli anni 1950-60 sono stati rappresentati dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e negli anni 1980-90 dall’ayatollah Ruhollah Khomeini. Un patto informale di difesa che ha funzionato fino a quando due episodi non hanno fatto nascere dubbi a Riyad.

Il primo episodio risale alla reazione avuta dall’amministrazione Trump, giudicata deludente, dopo gli attacchi del 14 settembre 2019 ai pozzi petroliferi nel regno. I sauditi avevano puntato il dito contro l’Iran che aveva prontamente smentito. Il secondo alla delusione del mancato sostegno da parte dell’amministrazione Biden al principe ereditario Mohamed bin Salman (alias MbS) sul caso dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. È da lì che è nata la volontà dei sauditi di riequilibrare le loro relazioni geopolitiche. Vista l’alleanza dell’Iran con la Russia e la Cina, il gioco è stato quello di avvicinarsi alle due superpotenze, senza rompere con Washington, il loro alleato strategico. È in questa prospettiva che il regno ha ristabilito le sue relazioni diplomatiche con l’Iran nel maggio 2023, suscitando le proteste di Israele e degli Stati Uniti che invece volevano isolare Teheran.

Riyad ha sviluppato relazioni economiche con la Cina, diventando il suo primo partner commerciale, con un volume di esportazioni pari a 66 miliardi di dollari e 40 miliardi di importazioni. L’Arabia Saudita attende anche che Pechino le fornisca quelle tecnologie che non può ottenere in Occidente. Contrariamente alle aspettative, il regno ha firmato nel gennaio 2024 un accordo di cooperazione per entrare a far parte dei BRICS, i cui membri hanno intenzione di apportare un cambiamento nell’ordine internazionale dominato dall’Occidente. Ma i maggiori timori da parte americana riguardano il riavvicinamento con la Russia all’organizzazione OPEC+ che fissa le quote di produzione del petrolio sul mercato. In un’intervista alla CNN il 10 ottobre 2022, il senatore democratico Chris Murphy ha invitato l’Arabia Saudita a non scegliere la Russia a scapito degli Stati Uniti.

Ma il principe ereditario Mohamed bin Salman non ha seguito il consiglio del senatore, anzi ha intensificato le relazioni con Mosca. Scegliendo di adottare una posizione neutrale nel conflitto in Ucraina, MbS non ha condannato l’invasione russa, suscitando l’irritazione del governo americano. All’inizio di dicembre 2023, MbS ha ricevuto Vladimir Putin a Riyad per parlare di scambi economici e militari, cosa che ha ulteriormente contrariato i governi occidentali impegnati a isolare il presidente russo. Ma le vere divergenze con gli Stati Uniti sono soprattutto relative alla questione palestinese. Già all’indomani dell’attacco del 7 ottobre e dopo i raid israeliani sulla Striscia di Gaza, il ministero degli Esteri saudita ha condannato “l’attuale processo di occupazione, la privazione dei legittimi diritti del popolo palestinese e le continue provocazioni contro i luoghi santi”1.

Non è una semplice coincidenza temporale che la sospensione dei negoziati sulla normalizzazione con Israele sia stata annunciata il 14 ottobre 2023, lo stesso giorno in cui il segretario di Stato americano Antony Blinken si trovava a Riyad. Sono tutti elementi che dimostrano la perdita d’influenza degli Stati Uniti sull’Arabia Saudita. All’apparenza conciliante, il principe ereditario MbS si è invece dimostrato intransigente. Ciò che le autorità americane e la stampa occidentale non vedono è che il regno, come centro spirituale del mondo musulmano, non può permettersi di non esprimere solidarietà ai palestinesi o non sostenere le loro rivendicazioni su Gerusalemme, il terzo luogo più sacro al mondo per l’Islam.

Condizioni difficili da rispettare

In un’intervista del settembre 2023 sul canale tv americano Fox News, MbS ha dichiarato che i negoziati sulle relazioni diplomatiche con Israele sono sulla buona strada, ma che non bisogna però dimenticare l’importanza della questione palestinese. I giornalisti hanno largamente commentato la prima parte della dichiarazione, minimizzando la seconda. Dall’analisi delle condizioni poste dall’Arabia Saudita, la normalizzazione delle relazioni non avverrà a breve, perché le condizioni sono inaccettabili sia per Tel Aviv che per Washington: uno Stato palestinese sovrano con capitale Gerusalemme Est, un’industria nucleare civile e un trattato di difesa militare con gli Stati Uniti.

Ovviamente, le prime due condizioni verranno rifiutate dal governo Netanyahu che non vuole uno Stato palestinese sovrano, né vuole spostare gli oltre 700.000 coloni che vivono in Cisgiordania.

Inoltre, Israele si opporrà al principio che un paese della regione possa accedere all’energia nucleare, anche civile. Quanto agli Stati Uniti, non vogliono essere vincolati da un trattato militare di mutua difesa con un paese situato in una regione dalla grande conflittualità. C’è anche il timore di restare invischiati in una guerra contro l’Iran o contro gli Houthi dello Yemen, nel caso di un eventuale attacco contro il regno. Mohamed bin Salman aveva previsto che almeno due delle condizioni poste avrebbero avuto poche chance di essere accolte. Ma accettando l’idea del negoziato, MbS ha risposto in maniera lucida alle pressioni degli Stati Uniti, suo partner strategico.

L’Arabia Saudita ha finalmente preso coscienza che la sua potenza finanziaria le consente di giocare un ruolo diplomatico sullo scacchiere geopolitico regionale senza allinearsi con una potenza o con l’altra. Nel mondo bipolare della guerra fredda, l’Arabia Saudita non aveva scelta in merito alle sue alleanze. Nel mondo multipolare del dopoguerra fredda, il regno saudita può stringere alleanze a seconda delle sue esigenze strategiche.

1“Attaque du Hamas: le rapprochement entre Israël et l’Arabie saoudite à l’épreuve de la guerre”, Hélène Sallon, Le Monde, 9 ottobre 2023