Focus Gaza-Israele

Little Big Horn in Palestina

Abitanti di Ashkelon, nel sud di Israele, guardano i danni causati dai razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, 7 ottobre 2023.
Ahmad Gharabli / AFP

La storia risale a quasi 150 anni fa. Il 25 giugno 1876, una coalizione di guerrieri Lakota (Sioux) e Cheyenne, guidata dai capi tribù Toro Seduto e Cavallo Pazzo, riuscì ad attirare in una trappola il 7º Reggimento di cavalleria dell’esercito americano sulla collina di Little Big Horn, nello stato del Montana, nel nord-ovest degli Stati Uniti. Il battaglione era guidato dal tenente colonnello George Armstrong Custer, uomo noto per il suo esasperato razzismo coloniale nei confronti di quelli che chiamava erroneamente “gli indiani”, cioè i nativi. Nella disfatta di Little Big Horn, perse la vita il generale Custer e quasi metà degli uomini del suo battaglione, senza contare centinaia di feriti.

Una vittoria dei “nativi”

Fu una delle pochissime “vittorie” che i nativi riuscirono a riportare durante la “conquista del West”, portata avanti dal governo americano con la sistematica espropriazione delle loro terre e delle loro proprietà. Lo scopo degli espropri era quello di raggruppare i nativi in “riserve” – il termine bantustan non era ancora stato inventato. Tronfio e pieno di sé, il generale Custer era convinto che gli “indiani” fossero solo dei barbari incapaci, degli esseri inferiori, e così guidò la carica del suo battaglione verso l’accampamento indiano, ma fu sorpreso dall’organizzazione dei guerrieri Sioux e Cheyenne, dalle loro armi da fuoco, dalla preparazione tattica e logistica. La battaglia durò appena 36 ore, ma la rapida e imprevista sconfitta lasciò negli americani un senso di grande sconcerto, di disorientamento.

Una sconfitta che ha lasciato una ferita profonda nella cultura americana. Sono innumerevoli i romanzi, le opere teatrali e i film dedicati alla battaglia. Per 100 anni (dal 1876 al 1976), il generale Custer ha interpretato l’eroe americano che affronta il barbaro nativo, cacciatore di scalpi. Ma a partire dal film di Arthur Penn “Little Big Man”1 del 1976 e poi da altri film e opere, avviene un capovolgimento totale: il capo indiano diventa nella cultura americana l’eroe che difende la sua giusta causa. Tuttavia, la vittoria dei nativi a Little Big Horn non cambiò le sorti che erano state decise per loro dai coloni europei. Troppo impari il rapporto di forze in campo. Sia il governo che l’esercito degli Stati Uniti crearono però numerose “commissioni d’inchiesta” per cercare di capire le ragioni di una simile disfatta militare. Ciononostante, la conquista del West da parte dei coloni andò avanti con un’ostinazione ancora maggiore.

Anche in Israele, oggi sono in molti a chiedere che vengano istituite delle “commissioni d’inchiesta” per punire i responsabili dell’incredibile “flop dei servizi d’intelligence” del 7 ottobre. In televisione, sui canali radiofonici, sulla carta stampata, deputati ed esperti di vario genere polemizzano, dispensando consigli alle autorità. C’è anche chi mette in guardia: affinché non accada di nuovo, è necessario che a Gaza vengano uccise “migliaia di persone”. Per altri, bisogna “ripulire Gaza senza fare prigionieri”. Altri ancora credono che finché i palestinesi rimarranno lì, non ci potrà esser alcuna soluzione. In altre parole: alla fine, dovranno essere espulsi. Su un canale della tv israeliana, Channel 13, l’ex numero due dello Stato maggiore israeliano, Dan Harel, ha detto a chiare lettere: “D’ora in poi, o andiamo avanti o non c’è più niente da fare qui”. In breve, l’aver subito una sconfitta ha suscitato in sostanza sentimenti di rivalsa e di vendetta. Ormai la storia è ben nota: Israele è sempre troppo buono con i palestinesi. Quanto allo stupore che ha colto quasi tutti i cittadini, è lo stesso stupore che colse gli americani dopo Little Big Horn: ma chi avrebbe mai immaginato che dei selvaggi, dei barbari sarebbero stati capaci di farsi beffe di noi fino a questo punto!

È ancora troppo presto per trarre delle conclusioni da quanto è accaduto il 7 ottobre. Ma possiamo fare alcune brevi considerazioni.

La disfatta dei servizi d’intelligence

Un’operazione di tale portata come l’attacco lanciato dalle forze di Hamas non può essere compiuta senza mesi – forse anni – di preparazione. Oltre alla partecipazione di migliaia di persone, per lo più giovani (fino ad oggi, diverse centinaia di giovani palestinesi sono già morti in operazioni condotte fuori dalla Striscia di Gaza). A quanto pare, né lo Shin Bet né l’intelligence militare avevano sospetti sulla loro esistenza. “Nel momento della verità, eravamo all’oscuro di tutto”, scrive Amos Harel2, corrispondente militare del quotidiano Haaretz per 26 anni.

Nulla, né le famigerate capacità di cybersecurity->4528] per controllare la popolazione palestinese (lo Shin Bet è al corrente ogni giorno di che tipo di caffè o tè bevono a colazione i leader di Hamas), né le “barriere protettive” erette da Israele per rinchiudere i palestinesi – a Gaza, in una prigionia a cielo aperto o nei ghetti sorvegliati dai checkpoints in Cisgiordania – né i “collaborazionisti” delle varie organizzazioni e gruppi palestinesi, né infine l’incommensurabile superiorità militare dell’esercito israeliano, hanno permesso di prevedere quello che sarebbe successo il 7 ottobre 2023. Per la cronaca, il giorno prima, Israele aveva commemorato il 50° anniversario della guerra del Kippur dell’ottobre 1973, iniziata con l’attacco improvviso dell’esercito egiziano che colse di sorpresa l’esercito israeliano, costretto a ritirarsi dopo i primi tre giorni di guerra dalla penisola del Sinai.

In questo momento, gli israeliani sono concentrati sulla disfatta dei loro servizi di intelligence, come fecero nel 1973. Un flop innegabile, ma non solo “tecnico” o “operativo”. Prima di tutto, si tratta di un flop politico e anche culturale. Nel comunicato letto prima dell’offensiva palestinese, il capo delle Brigate Ezzedine al-Qassam, Muhammed Deif, lo ha detto senza ambiguità. In sintesi: la situazione nei territori palestinesi occupati peggiora di giorno in giorno. Il numero di palestinesi uccisi quasi quotidianamente dall’esercito o dai coloni continua a crescere. Le condizioni dei prigionieri politici palestinesi sono notevolmente peggiorate per iniziativa del nuovo ministro della polizia israeliano, il kahanista Itamar Ben Gvir. I negoziati su uno “scambio umanitario” tra Hamas e Israele – cioè, uno scambio tra prigionieri palestinesi e soldati israeliani – sono in fase di stallo.

“L’occupazione deve essere sradicata [...] è finito il tempo in cui agivano impunemente”, queste le parole del leader di Hamas:3.

La bozza d’intesa con l’Arabia Saudita è finita in un vicolo cieco

Solo pochi giorni fa, dopo i suoi incontri negli Stati Uniti con il presidente americano Joe Biden e Mohammed bin Salman (MbS), il principe ereditario saudita, Benjamin Netanyahu e il suo entourage pontificavano sull’intesa israelo-saudita, dandola ormai per certa. Si trattava di giorni, forse di qualche mese. Anche MbS aveva in parte confermato, assicurando che “Gerusalemme e Riyad si avvicinano ogni giorno”4 . In fondo, le parole non costano nulla. Netanyahu aveva parlato della sua visita negli Stati Uniti come il più grande successo della sua carriera politica. E i palestinesi? Non erano stati invitati al tavolo. Il loro destino sarebbe stato deciso da loro tre: Washington, Riyadh e Gerusalemme. I palestinesi avrebbero ricevuto denaro e pertanto dovevano accontentarsi. Cos’altro potevano fare?

Questo grottesco progetto, basato sulla convinzione che la “questione palestinese” fosse ormai chiusa, ha fatto però un buco nell’acqua. Il messaggio inviato da Hamas e dalle sue forze il 7 ottobre è stato chiaro: Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita possono escogitare tutti i progetti che vogliono, ma non si concluderà nulla senza tenere conto delle richieste palestinesi. O, detta più semplicemente, senza tener conto dell’esistenza dei palestinesi. Certo, in questo momento sono in una posizione di estrema debolezza, da un punto di vista politico ma anche sociale, e l’operazione “Diluvio di Al-Aqsa”, come l’hanno pomposamente chiamata le Brigate Ezzedine Al-Qassam, l’ala militare di Hamas, non contribuirà sostanzialmente a cambiare questo stato di cose. Anzi, potrebbe solo peggiorarle.

Infatti, la frangia apertamente fascista del governo israeliano, incarnata dai ministri Ben Gvir e Smotrich, sente già il vento in poppa per adottare al più presto decisioni molto più radicali contro i palestinesi. Ma il 7 ottobre ha mostrato agli israeliani che non si libereranno tanto facilmente dei loro ingombranti “nativi”. E che la più grande delle avversità non riesce a farli capitolare.

E domani?

L’attacco di Hamas dimostra inoltre che i muri più alti e blindati restano comunque fragili. In una prima fase, è prevedibile che ci sarà una reazione di forza forse senza precedenti da parte dell’esercito israeliano. Come è noto, dopo il fallimento dell’operazione militare in Libano nel 2006 (la “guerra dei 33 giorni”), l’esercito israeliano ha adottato una strategia nota come “dottrina Dahiya”, un piano che prevede la massiccia distruzione di infrastrutture e abitazioni nelle zone civili. Una strategia di combattimento scelta per “dissuadere” da eventuali possibili attacchi. Nelle numerose offensive militari lanciate su Gaza, l’esercito israeliano aveva già colpito quasi sempre dei civili palestinesi. Lì, Israele, almeno inizialmente, beneficerà del sostegno americano-europeo (già in corso). E le immagini dei corpi dei civili israeliani uccisi a sangue freddo nelle loro case dalle forze di Hamas non aiuteranno certo a far cambiare idea sul sostegno.

Non si può escludere anche che la guerra potrebbe estendersi su altri fronti. La cosa più difficile per Israele sarebbe dover fronteggiare una rivolta palestinese in Cisgiordania. Finora, non si intravede, ma ciò non significa che non possa accadere. Allo stesso modo, Hezbollah potrebbe per la prima volta impegnarsi in un conflitto in cui non è implicato direttamente. È nota la sua capacità nelle azioni di disturbo, specialmente in una guerra missilistica. Meno nota è l’effettiva portata bellica, come la capacità di Israele di rispondere agli attacchi. Ma “è lecito ipotizzare che il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ora abbia il dito poggiato sul grilletto”5. I leader israeliani hanno già lanciato segnali all’Iran per tenere alla larga Hezbollah, mentre, in Israele, tutti temono l’apertura di un “Fronte del Nord”. Rimane ancora impresso il ricordo degli attacchi missilistici imprevisti di Hezbollah contro il nord di Israele nel 2006. Ma l’esercito sa bene che, nonostante il bombardamento sistematico in Siria dei convogli iraniani che riforniscono armi a Hezbollah, l’organizzazione paramilitare libanese ha notevolmente aumentato e potenziato il suo arsenale missilistico.

La questione dei prigionieri e il dilemma degli ostaggi

Infine, non è da escludere – anche se suscita timori da parte dello Stato Maggiore israeliano – un’operazione israeliana per rioccupare territorialmente la Striscia di Gaza, o alcune parti dell’enclave costiera. Tuttavia, in Israele, sono in molti a invocare vendetta, anche se tali appelli potrebbero incontrare presto una serie di ostacoli. Il sostegno occidentale potrebbe rapidamente venir meno se le immagini delle conseguenze dei bombardamenti israeliani sulla popolazione civile di Gaza fossero ancora una volta insopportabili, come già accaduto durante gli scontri nella primavera del 2021. A quanto pare, stavolta Hamas avrebbe catturato circa 100 ostaggi israeliani, tra militari e civili. Qualunque sia la portata della reazione israeliana a Gaza, Israele dovrà affrontare un dilemma molto più grande di quello che esisteva prima del 6 ottobre. La contropartita politica per ottenere il rilascio di 100 ostaggi non è la stessa rispetto a quella di un solo ostaggio.

Oggi, da parte israeliana, prevale un senso di rabbia e sopraffazione, dovute in parte alla sua sconsiderata politica. Il maggiore generale Giora Eiland, considerato un militare equilibrato, ha proclamato a gran voce:

“Dobbiamo rinchiuderli [i palestinesi], interrompendo le forniture d’acqua e di cibo, fino a quando non ci restituiranno i nostri ostaggi”.

Tuttavia, vi è motivo di temere che, per Israele, le cose da qui in avanti non saranno più così semplici. La domenica mattina dell’8 ottobre, sulla tv israeliana N12 è andato in onda un animato dibattito con vari ospiti. La tensione in studio è palpabile. La maggior parte degli interventi sono favorevoli all’adozione immediata di misure molto più drastiche. Poi la discussione si focalizza sulla questione degli ostaggi: bisogna salvarli o sacrificarli? Una giornalista, Dafna Liel, si dice preoccupata: “Nel gabinetto di sicurezza, si sta tenendo la stessa discussione”, osserva Liel. “Smotrich e Ben Gvir stanno premendo per radere al suolo Gaza, e al diavolo gli ostaggi”. Il generale Amos Gilad, ex capo dell’intelligence israeliana, è visibilmente irritato.

“Sono persone che non hanno mai combattuto”, dice. “Sono loro i responsabili dei nostri fallimenti. Gaza aveva un solo ostaggio, Gilad Shalit6. L’hanno liberato le Forze di difesa israeliane (IDF)? L’ha trovato lo Shin Beit? No. Eppure, era detenuto a 5 chilometri di distanza da una delle nostre caserme. Per questo è stato necessario negoziare per liberarlo. Così ora ci sono decine e decine di ostaggi, e ovviamente dovremo negoziare! E non rioccuperemo Gaza“

Un discorso che vuole essere sensato, ma che al momento rimane inascoltato in Israele. Ma il dibattito in corso rivela anche il profondo senso di sgomento che attanaglia oggi gli israeliani.

1In italiano “Piccolo grande uomo” [NdT].

3Déclaration de Mohamed Deïf, 7 ottobre 2023.

5[[ « Israel-Gaza War », op. cit. ].

6Il 18 ottobre 2011, a seguito di un accordo tra Hamas e il governo israeliano con la mediazione dell’Egitto, veniva liberato il militare Gilad Shalit, dopo una prigionia di 5 anni, dietro la contropartita della liberazione di un migliaio di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane [NdT].