Reportage

Sudan. L’orizzonte incerto di un accordo politico

Mentre la giunta militare sudanese, al potere dall’ottobre 2021, sta affrontando forti sanzioni e una mobilitazione popolare che non conosce tregua, si intensificano i negoziati per una transizione democratica. Sarà una prospettiva realizzabile o è destinata a restare un miraggio?

Manifestazione di massa contro l’accordo per mettere fine alla crisi causata dal golpe militare del 2021, nella zona di Bashdar, a sud di Khartoum, il 5 dicembre 2022.
Ebrahim Hamid/AFP

Sono in otto, tutte donne, alcune avvolte nel loro tob, la tipica veste sudanese; altre hanno la testa e le spalle coperte da un hijab. Sedute all’ombra sui gradini fuori dall’ospedale Jauda, a poca distanza dal centro di Khartoum, si sventolano con delle rigide foglie a forma di ventaglio. La data del giorno è indicata tra le foto di bambini su una lavagna – in mezzo alla natura – per maestri sprovvisti di tutto: la marcia rivoluzionaria di oggi è in segno di solidarietà con lo sciopero degli insegnanti che chiedono un aumento salariale da fine novembre 2022. Davanti passano piccoli gruppi di ragazzini e adolescenti. Alcuni portano scudi fatti in casa ricavati da lastre di metallo o plastica, altri maschere o grandi sciarpe intorno alla bocca, tutti indossano occhiali protettivi. Si dirigono verso il centro della città, da dove proviene il rumore sordo dei gas lacrimogeni.

Le difficoltà della vita quotidiana

Fatin Abu Zeid Sabiq, t-shirt fucsia a maniche lunghe e tob rosa, non perde una manifestazione. Anche se le passa seduta sui gradini con le sue amiche. “Beh, i nostri figli sono là fuori, stanno affrontando la polizia”, dice mentre indica un punto in lontananza. “Li sosteniamo con tutte le nostre forze, ma ormai siamo troppo vecchie per metterci a correre sotto i gas lacrimogeni e i proiettili!”. Oggi le loro priorità sono altre. Un anno fa, queste donne marciavano per lo più contro i militari e il colpo di stato che il 25 ottobre 2021 ha interrotto il periodo di transizione democratica. Gli slogan rivoluzionari, “Libertà, pace, giustizia”, “è impossibile tornare indietro”, “potere ai civili” restano impressi nella loro memoria. Oggi però sono le difficoltà della vita quotidiana a spingerle in piazza. “I prezzi aumentano di continuo, sono davvero troppo alti, così diventa difficile garantire due pasti al giorno”, brontola Fatin, sostenuta a gran voce dalle sue compagne. “Solo per andare al lavoro con i mezzi pubblici va via quasi tutto lo stipendio!”.

Poco più in là, c’è un insegnante che sta scioperando, Bushra Mighrani. Tiene tra le mani un cartello che contesta i militari e il generale Abdel Fattah al-Burhan, comandante in capo dell’esercito e capo della giunta. Oltre alle aspirazioni democratiche, anche lui è esasperato dalle condizioni economiche. Guadagna 90.000 sterline sudanesi (SDG) al mese, circa 145 euro. Una volta pagato il pulmino per andare da casa sua a scuola, gli restano appena 48 euro in tasca per alloggio, cibo e tutte le altre spese. In pratica niente, visto che un chilo di carne costa più di 6 euro e i prodotti importati al dettaglio hanno prezzi più simili a quelli dei supermercati francesi.

Dopo la secessione del Sud Sudan nel 2011 e la perdita delle entrate del petrolio, l’economia è entrata in crisi. La destituzione del regime militare-islamista di Omar al-Bashir nell’aprile 2019 e la creazione, quattro mesi dopo, di un governo civile hanno portato all’inizio della ricostruzione. Il primo ministro Abdallah Hamdok era molto popolare qui, oltre ad essere apprezzato dai paesi occidentali e dai finanziatori internazionali. Il Sudan era così tornato nella comunità internazionale, le sanzioni americane revocate con il risanamento del mercato dei cambi e un piano per combattere la povertà. C’era stato quindi un leggero miglioramento, nonostante l’inflazione fuori controllo – oltre il 359% nel 2021, in parte dovuta alla speculazione, alla crisi per la pandemia di Covid-19 e allo stallo politico.

Il congelamento dei fondi internazionali

Il golpe militare del 25 ottobre 2021 ha fatto però precipitare il Paese nel baratro. Tra lo stupore dei vertici, sono stati congelati tutti gli aiuti internazionali: prestiti, sovvenzioni, negoziati sul debito, assistenza tecnica. Gli investitori che stavano timidamente iniziando a mettere piede nel Paese si sono immediatamente ritirati. L’inflazione è salita a livelli insostenibili, oltre il 300% nel 2022, prima di scendere negli ultimi mesi “solo” all’87% nel gennaio di quest’anno. “Questo non significa che la situazione del Paese sia migliorata, anzi è il segno che è entrato in recessione”, sostiene un economista che lavora per un’agenzia internazionale, con l’obbligo quindi di mantenere il riserbo. “La popolazione non riesce più ad acquistare nemmeno i beni di prima necessità. Non c’è più domanda, quindi l’aumento dei prezzi si sta attenuando. La giunta non ha fatto assolutamente nulla dal punto di vista economico, anzi il golpe ha interrotto il timido rilancio che c’era prima. La povertà e la disoccupazione sono aumentate. È assolutamente necessario il ritorno a un governo civile per ottenere nuovi finanziamenti”.

È proprio su questa necessità che i civili della coalizione Forze per la Libertà e il Cambiamento – Consiglio centrale (FFC-CC) stanno insistendo per motivare i loro negoziati segreti con i generali golpisti. Incontri che si sono svolti sotto il patrocinio del meccanismo trilaterale, istituito nel maggio 2022, che riunisce la Missione Integrata di Assistenza alla Transizione delle Nazioni Unite in Sudan (UNITAMS) - la missione dell’ONU responsabile del sostegno politico -, l’Unione africana e l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD), un’organizzazione di cooperazione regionale, che guida ufficialmente le procedure.

Ma come per ogni questione relativa al Sudan, ci mettono lo zampino un po’ tutti. Anche i paesi della “Troika” – Stati Uniti, Norvegia, Regno Unito – che hanno fatto sentire tutto il loro peso politico sul piatto della bilancia, per non parlare dell’Unione europea (UE). È coinvolto anche il “Quartetto”, composto da Stati Uniti, Regno Unito, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

L’esito in questi mesi di trattative riservate ha portato a un accordo-quadro firmato ufficialmente il 5 dicembre 2022. Sul versante militare: il capo della giunta e comandante in capo dell’esercito, il generale Al-Burhan, il suo rivale e secondo Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemeti”, a capo delle Forze di supporto rapido (RSF), un corpo paramilitare composto da janjawid, sanguinosi miliziani filogovernativi impegnati nella guerra civile in Darfur. Sul fronte civile: una quarantina di partiti e gruppi, il più importante dei quali è la FCC, il braccio politico della rivoluzione.

Come per qualsiasi soluzione del conflitto in Sudan, l’accordo ha un’architettura complessa e lascia fuori le cinque questioni più importanti e spinose su cui il governo civile di Abdallah Hamdok si era andato a schiantare: lo smantellamento del vecchio regime, la revisione degli accordi di Juba, la situazione nell’Est Sudan, la giustizia di transizione e la riforma del settore militare. Tutte questioni che sono state discusse durante le conferenze con esponenti politici, consulenti e parti interessate. Le loro linee guida dovranno essere parte integrante dell’accordo finale prima della formazione di un governo civile di transizione. La road map, che prevedeva la nomina di un primo ministro entro la fine di gennaio, è già stata sforata. A gennaio, è stato preso in esame anche lo smantellamento del regime di Omar al-Bashir, compresa l’incetta di fondi e incarichi da parte degli alleati del dittatore. La revisione dell’accordo di pace di Juba, concluso nell’ottobre 2020 tra il governo centrale e quasi tutti i gruppi armati, ha sollevato molte domande e suscitato proteste. La conferenza si è tenuta pertanto solo nei primi giorni di febbraio.

Poi c’è il caso dell’Est Sudan, dove si mescolano questioni relative a sviluppo, tentazioni separatiste o giochi geopolitici, in quanto l’accesso al Mar Rosso è ambito da una serie di potenze regionali e internazionali, tra cui Egitto, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Stati Uniti e Russia. La giustizia di transizione prenderà in esame sia i crimini commessi durante le guerre da parte del vecchio regime sia la repressione dell’opposizione. La conferenza darà il via a workshop in varie regioni, prima dell’incontro finale di Khartoum.

Un paese stanco delle sue forze di sicurezza

L’ultimo enorme complicato tassello riguarda la riforma delle forze di sicurezza, di cui il Sudan è ormai stanco, oltre a quella dell’esercito nazionale e delle Forze di supporto rapido, a malapena intaccate. I gruppi armati firmatari dell’accordo di pace di Juba non solo non hanno ordinato il disarmo, ma hanno continuato a reclutare. Al momento, resta ancora una promessa il loro reintegro nell’esercito nazionale. “È fondamentale riformare l’accordo di Juba e realizzare la riforma della sicurezza”, secondo Babiker Faisal, che fa parte del Partito unionista democratico (DUP), che ha firmato l’accordo-quadro del 5 dicembre 2022 con le FFC. “Al-Burhan e Hemeti devono consultarsi per arrivare a integrare le forze in un unico esercito. Altrimenti, si arriverà a uno scontro aperto tra l’esercito nazionale e le Forze di supporto rapido che porterà alla distruzione del paese”.

Malgrado la rilevanza delle questioni irrisolte, i civili delle FFC vogliono fare in fretta. Il governo di transizione annunciato per fine gennaio ora è previsto, nella migliore delle ipotesi, tra fine febbraio e metà marzo. “Il tempo degli indugi è finito, bisogna arrivare a una conclusione in modo da poter nominare un governo che affronti le priorità”, dice Babiker Faisal, ex ministro di Abdallah Hamdok. “Per prima cosa, è necessario riallacciare i rapporti con la comunità internazionale e i finanziatori, tra cui il FMI e la Banca Mondiale. La priorità è occuparsi della riforma del sistema bancario, poi la creazione di posti di lavoro”.

Portare rapidamente a termine questo lungo processo, anche per mettere a tacere i numerosi attacchi provenienti da ogni parte politica. Soprattutto dai fautori del vecchio regime, gli islamisti ovviamente. Ma anche da alcuni firmatari dell’accordo di pace di Juba, tra cui il Movimento Giustizia e Uguaglianza (MGU) di Gibril Ibrahim e il Movimento di Liberazione del Sudan (MLS) di Minni Minnawi. Insieme a decine di altre formazioni riunite in un blocco democratico, questi movimenti hanno preso parte a una conferenza alternativa al Cairo, in cui anche l’Egitto ha avuto il suo ruolo nell’attuale grande gioco sudanese. C’è da scommettere che questi ex gruppi armati, che hanno sostenuto il golpe del generale Abdel Fattah al-Burhan contro i loro alleati civili, venderanno a caro prezzo il loro appoggio. Quando verrà raggiunto l’accordo finale, sarà difficile tenerli fuori, a meno di non riprendere le armi.

Negoziati poco trasparenti

Gli analisti, compresi quelli vicini alle FFC, hanno criticato aspramente la segretezza dei negoziati – un regalo ai militari, in particolare al generale Hemeti – oltre al fatto che il gioco risulta falsato dal principio. “In realtà, i cinque punti discussi nelle conferenze sono stati risolti a monte, compresa l’impunità per Abdel Fattah al-Burhan e per Hemeti”, sostiene Amjad Farid, ex capo dello staff di Abdallah Hamdok, fermamente contrario all’accordo-quadro. “Si servono delle conferenze per far credere che ci sia una partecipazione pubblica. Così, al momento della firma dell’accordo finale, potranno dire che ci sono state delle consultazioni pubbliche”.

Per molti critici, l’intero processo è inficiato ab origine dalla segretezza e dalla reale mancanza di partecipazione. “A negoziare c’è solo un esiguo numero di membri delle FFC. Senza alcuna concertazione. Avevano paura delle ripercussioni nel caso in cui la popolazione fosse venuta a conoscenza dei contatti intrapresi con i militari”, riporta Farid.

Perché gli slogan dei Comitati di resistenza, organizzazione di base della rivoluzione rimasta per le strade dopo il colpo di Stato, si riducono a un rifiuto totale delle discussioni con i militari. Durante la marcia, i manifestanti cantano i tre no: “nessun negoziato, nessun compromesso e nessuna legittimità”, oltre agli slogan “potere ai civili”, “è impossibile tornare indietro”. L’ultimo allude alla dichiarazione costituzionale dell’agosto 2019 che ha istituito la ripartizione del potere tra civili e militari, anche se questi ultimi continuano a mantenere il controllo sui ministeri della Difesa e dell’Interno, oltre ad avere la metà dei seggi del Consiglio Sovrano, l’organo che sovrintende alla transizione. Agli occhi dei Comitati di resistenza, il golpe ha messo a nudo l’illegittimità dei generali.

“Con questo accordo-quadro, stanno cercando di salvare il sistema che ha prevalso dopo l’indipendenza del 1956: l’alleanza di potere tra esercito e partiti politici tradizionali”, ne è sicuro il portavoce dei Comitati di resistenza di Khartoum Ahmad Ismat. “Neanche un nuovo governo civile sarà in grado di cambiare dall’interno le strutture dello Stato. Da parte nostra, abbiamo reso nota la nostra posizione e non siamo interessati a questo processo. Stiamo cercando di prendere il controllo delle autorità locali, delle comunità. È così che cambieremo questo paese. Questo accordo è una dichiarazione di resa nei confronti dei militari”.

“Al contrario, abbiamo fatto in modo che i militari rinunciassero al potere e tornassero nelle loro caserme!” replica Yasser Arman, capo di uno dei gruppi del Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) e membro delle FFC. “Il governo sarà composto solo da civili, compresi i ministeri della Difesa e dell’Interno. È chiaro che hanno molto da perdere e non sono entusiasti. Ma spetta a tutti noi, oltre che alla comunità internazionale, continuare a fare pressione”.

Yasser Arman, insieme ad altri, confida nel fatto che la posizione dei Comitati di Resistenza sia molto in linea con quella del Partito Comunista Sudanese. Sono in corso delle riunioni e qualcosa comincia a muoversi, da quanto trapela a Khartoum. Le FFC sperano nella mobilitazione delle forze attive della rivoluzione e dei firmatari dell’accordo di pace di Juba. Perché i militari stanno facendo sentire la propria voce in maniera minacciosa: a distanza di 24 ore, i due ufficiali più alti in grado del Paese, i generali Abdel Fattah al-Burhan e Kabashi, hanno dichiarato che un accordo firmato da una minoranza per loro non sarebbe un vincolo. Ma sia il generale Hemeti, che si presenta come il nuovo campione della democrazia in Sudan, che gli attivisti per i diritti umani hanno espresso una forte disapprovazione. D’altro canto, nei Comitati di resistenza nessuno dimentica il ruolo avuto dalle Forze di supporto rapido nella repressione delle manifestazioni.

“Non c’è altra soluzione”, secondo Babiker Faisal. “E poi i generali sanno bene che è impossibile tentare un nuovo colpo di stato. Quello del 25 ottobre è stato un completo fallimento. Per il Sudan è il momento di voltare pagina con il governo dei militari”. È pur vero però che fare la rivoluzione, in Sudan come in qualunque altro luogo, richiede un incrollabile ottimismo.