Dossier

A sei mesi dal terremoto, qual è la situazione oggi in Siria?

Sei mesi dopo il terremoto, le testimonianze e i dati dalle zone controllate dal regime e dai ribelli nel Nord-ovest della Siria, entrambe pesantemente colpite, rivelano una cattiva gestione dell’emergenza, mancanza di competenze e risorse limitate. In questo primo articolo di un dossier sulle conseguenze del terremoto che ha colpito la Siria e la Turchia nel febbraio 2023, frutto di una collaborazione tra OrientXXI e UntoldStories, Roger Asfar analizza le enormi difficoltà a cui deve far fronte oggi la popolazione siriana.

«It is the Great Syria».

Nelle prime ore del 6 febbraio 2023, una violenta tempesta neve si è abbattuta su Beirut. Tra fortissimi venti e una pioggia torrenziale, una scossa di terremoto senza precedenti, molto diversa dalle piccole scosse di assestamento che passano inosservate ogni anno o due, ha colpito la capitale libanese. Un terremoto che ha fatto tremare la terra e gli edifici di Beirut, gettando nel terrore i suoi abitanti, molti dei quali hanno evacuato le loro case ancor prima che si registrasse la seconda scossa.

Nel giro di qualche minuto, passato lo shock iniziale, le piattaforme social hanno cominciato a postare battute e commenti ironici sull’evento. Molti non immaginavano che a centinaia di chilometri a nord la vita di centinaia di migliaia di persone fosse stata distrutta per sempre. Gli abitanti di Beirut, che avevano provato solo molto spavento ma senza danni consistenti, davano per scontato che anche nei territori vicini c’era stato solo lo stesso spavento. Tra ironia, incoraggiamenti, notizie e voci, hanno cominciato a girare le prime immagini dalle regioni più colpite.

L’immagine scioccante del crollo del minareto della grande e famosa moschea al-Tawhid di Aleppo lasciava presagire notizie che si sarebbero rivelate ben peggiori.

Sono seguite l’immagine del crollo di un edificio situato nel distretto di al-Aziziyah ad Aleppo, insieme al resoconto delle vittime e delle persone rimaste intrappolate sotto le macerie. Con il passare delle ore, si è capita la vera entità della catastrofe dopo un iniziale caos dovuto al violento terremoto che c’era stato nella lontana Beirut. Ciò ha suscitato molti timori sulla situazione nel sud della Turchia, ad Aleppo, a Idlib e nelle regioni circostanti.

Una popolazione stremata

Nel territorio siriano, il terremoto ha avuto un vastissimo impatto, soprattutto nelle province di Aleppo e Idlib, nelle zone controllate dal regime siriano e in quelle sotto il controllo dei ribelli. Un terremoto che ha colpito durante la rigida stagione invernale, con temperature gelide e una tempesta di neve durata per vari giorni. Una tragedia che si è aggiunta alle sofferenze di una popolazione già stremata da un conflitto che dilania la Siria da oltre un decennio.

Nonostante le realtà e le diverse popolazioni nelle due zone controllate, c’è stata però una grande collaborazione tra tutti i siriani. Nelle zone sotto il controllo del regime, lo Stato è apparso inadeguato e impotente, privo di mezzi necessari, competenze e affidabilità per far fronte a un evento così catastrofico. Nelle aree controllate dalle forze d’opposizione, l’assenza di una struttura statale ha invece lasciato che la popolazione dipendesse dalle limitate iniziative e dagli interventi delle organizzazioni della società civile che potevano contare su scarse risorse e un’inadeguata assistenza personalizzata per rispondere in maniera efficace alle conseguenze del sisma.

Dopo il terremoto, sono andato in Turchia come volontario con un’organizzazione impegnata nelle operazioni di soccorso. In un primo momento, le notizie sull’operato del governo turco mi hanno dato l’impressione che non fossero all’altezza, per i gravi ritardi nella gestione dell’emergenza in termini di rapidità e tipologia d’intervento. Tuttavia, dopo aver raggiunto le zone colpite in Turchia e aver assistito agli ingenti danni e al loro vastissimo impatto, tenuto conto delle condizioni meteorologiche avverse, la mia percezione è cambiata radicalmente: se un paese con un governo forte, infrastrutture all’avanguardia e una consolidata esperienza nell’ambito delle catastrofi aveva avuto difficoltà a garantire aiuti adeguati nei primi giorni a causa della gravità e dell’entità dei danni, allora cosa poteva fare la Siria senza uno Stato efficiente, senza risorse e senza alcun sostegno?

Le informazioni e le testimonianze che seguono si basano su diverse fonti, tra cui interviste condotte con tre attivisti umanitari nelle città di Aleppo, Idlib e nelle campagne di Idlib.

Gravi ritardi nella distribuzione degli aiuti

Sappiamo che, nelle aree sotto il controllo del regime siriano ad Aleppo, la popolazione fosse già allo stremo ancor prima del terremoto, dopo 12 anni di conflitto. Una situazione drammatica aggravata dall’inflazione, dal calo del reddito pro-capite e dal peggioramento delle condizioni di vita. In particolare, nelle aree a maggioranza cristiana, una parte consistente della popolazione è diventata dipendente dagli aiuti e considera un diritto acquisito i fondi ricevuti dalle organizzazioni a loro destinati.

Nella città di Aleppo, la situazione della popolazione colpita e gli aiuti prestati con grande sforzo si possono schematizzare, con poche eccezioni, in due zone: una in cui vive la popolazione cristiana e un’altra in cui vive la maggioranza musulmana. Una suddivisione che non si basa su un criterio settario in senso stretto, ma piuttosto sui vantaggi di cui godeva prima la comunità cristiana, che non spettavano ai loro vicini musulmani. I vantaggi, in particolare, derivavano da una forte rete di solidarietà all’interno delle chiese, stretti legami con associazioni di cooperazione in Occidente (sia religiose che non religiose) e un certo livello di tolleranza o indulgenza da parte del regime verso le attività svolte all’interno delle comunità cristiane.

Per quanto riguarda le due comunità, le persone colpite dal disastro hanno ricevuto sovvenzioni non ufficiali senza una sistematica distinzione in base ai danni subiti. A facilitare la distribuzione degli aiuti sono stati soggetti non autorizzati e gruppi locali, che hanno fatto affidamento soprattutto sugli espatriati siriani. Le testimonianze dei cittadini che hanno promosso iniziative di assistenza attraverso i social hanno però evidenziato alcune criticità, come le difficoltà nella raccolta e nel trasferimento delle donazioni alla Siria. Inoltre, il sistema d’ingresso e distribuzione degli aiuti umanitari all’interno delle aree controllate dal regime non era basato su una metodologia chiara, in particolare nei primi giorni dopo il terremoto.

In ultimo, non c’è stata la consapevolezza di riconoscere che la grande ondata di solidarietà e unità, manifestata attraverso aiuti e donazioni, non sarebbe durata a lungo.

Nelle aree controllate dei ribelli, la situazione si è rivelata decisamente peggiore. Mentre il regime criticava gli scarsi aiuti ufficiali dall’estero alle vittime del terremoto nelle sue zone, le regioni sotto il controllo delle forze d’opposizione hanno fatto fronte alla paralisi dovuta alla chiusura delle strade di collegamento con i territori turchi, dove transitavano i convogli degli aiuti umanitari. Questioni diplomatiche e tentativi di sfruttare l’emergenza del dopoterremoto per ottenere vantaggi politici non hanno fatto altro che aggravare ulteriormente la situazione, con pochi riguardi per le vere vittime. Al confine turco, invece, erano impegnati nella gestione dei propri morti e feriti, e ciò ha limitato ancor di più l’assistenza alle aree controllate dai ribelli.

In entrambe le aree, un livello accettabile di prime necessità, come cibo e indumenti, è stato assicurato a una buona parte della popolazione colpita dal disastro. Ma la vera sfida è stata quella di prestare aiuto alle migliaia di rifugiati. La diminuzione del potere d’acquisto nelle aree controllate dal regime ha impedito alle vittime di trovare un alloggio adeguato. Di conseguenza, moschee e chiese sono diventate rifugi temporanei per migliaia di senzatetto, fornendo un riparo sicuro anche a chi aveva risorse limitate prima di poter far ritorno a casa. Nelle aree controllate dai ribelli, c’è stata invece una grave carenza rispetto alla richiesta di tende, nonostante i fondi disponibili per l’emergenza.

Una difficile ricostruzione

Un aspetto da considerare in entrambe le regioni è stata la distribuzione degli aiuti e delle operazioni di soccorso che è stata canalizzata soprattutto verso le zone principali, come i centri urbani, trascurando le aree periferiche. I principali donatori hanno spesso messo in dubbio l’affidabilità delle autorità nella gestione delle sovvenzioni e dell’assistenza. Nelle aree controllate dal regime, la gente ha fatto affidamento per prudenza a una rete di parenti, conoscenti, gruppi non ufficiali, che operavano in maniera attenta in modo da evitare il controllo del governo, oppure ad altre entità autorizzate che godevano di una buona reputazione, come la al-Ihsan Charitable Society. Nelle aree controllate dai ribelli, sono stati, invece, i Caschi Bianchi e la Molham Volunteering Team le principali realtà nell’ambito dell’assistenza.

Da quanto emerso da fonti e analisi dalle zone controllate dal regime, non ci sono dati attendibili in merito alla distribuzione degli aiuti annunciati da alcuni Stati alle vittime del terremoto. Alcuni aiuti sarebbero stati persino venduti nei mercati. Ci sono stati anche casi dove non è stato possibile fornire aiuti alle zone controllate dal regime per motivi d’ordine burocratico. In altri c’è stato il tentativo del Syrian Trust for Development di monopolizzare e controllare la distribuzione degli aiuti. Secondo una delle fonti, avvalorata dai media ufficiali siriani, ci sarebbe stato l’arrivo di oltre 150 aerei e numerosi tir che hanno trasportato centinaia di tonnellate di aiuti umanitari. Da quanto emerso però non c’è stata una risposta adeguata nella distribuzione degli aiuti, condotta in modo non trasparente ed equo alla popolazione colpita.

Dopo lo shock iniziale delle prime due settimane dopo il sisma, sono stati eseguiti vari rilievi ingegneristici per valutare l’entità dei danni alle abitazioni nelle aree controllate dal regime. Rilievi post-sisma condotti a vari livelli di professionalità, sia da associazioni cristiane e non cristiane locali, sia attraverso il coinvolgimento del Sindacato degli Ingegneri, oltre al Dipartimento per le Relazioni Ecumeniche e lo Sviluppo del Patriarcato greco-ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente e il monastero francescano di Aleppo. Tuttavia, malgrado le promesse fatte riguardo gli interventi di ricostruzione sulla base dei rilievi effettuati, finora è stata completata solo una parte limitata dei progetti di riedificazione. Il numero di case riparate e la qualità dei materiali impiegati nella ricostruzione sono stati in molti casi insufficienti. Di conseguenza, molti hanno dovuto fare affidamento sulle proprie forze per riparare le proprie case come meglio potevano, cercando l’aiuto dei parenti all’estero o ricorrendo persino a prestiti. Altri hanno fatto ritorno alle loro case rimaste ancora in piedi, nonostante i rischi del caso. Lo stato di spaesamento nei rifugi temporanei, unito al calo delle risorse necessarie per soddisfare i bisogni dei rifugiati, ha spinto molti a cercare soluzioni individuali, ma inadeguate e talvolta pericolose.

È importante sottolineare in questo contesto che il costo dei materiali da costruzione e ristrutturazione è notevolmente aumentato, e inoltre manca anche una manodopera qualificata.

Nel villaggio di Jibreen, vicino ad Aleppo, per la prima emergenza sono stati forniti 500 alloggi temporanei. Non è ancora chiaro però chi potrà beneficiare degli alloggi, perché, secondo alcune voci, saranno assegnati agli sfollati, e non solo alle vittime del terremoto.

Nelle aree controllate dai ribelli, le regioni più colpite comprendono i distretti di A’zaz, Afrin, Jindires, Salqin, Harem, Sarmada e al-Dana. In alcune zone delle aree colpite, la percentuale degli edifici gravemente danneggiati arrivano fino al 40%. Il fatto che molte fossero palazzine di due o tre piani, piuttosto che grattacieli, ha in qualche modo attenuato l’impatto del terremoto.

Qual è la situazione oggi?

A distanza di sei mesi, gli effetti più devastanti del sisma sono ancora evidenti in molte aree. L’apparente ritorno alla normalità nasconde ancora notevoli criticità e gli abitanti sono ormai abituati, dopo l’ultimo decennio, a fare affidamento solo sulle proprie forze. Ogni nuova tragedia, che si tratti di bombardamenti, inflazione o terremoti, spinge i siriani sempre più verso il baratro, che infatti denunciano le attuali durissime condizioni anche se paragonate ai problemi affrontati in passato.

Una delle cause dell’attuale situazione si deve all’enorme impatto avuto dal sisma, perché – come scrive un attivista che opera nelle zone rurali di Aleppo – “non c’è alcun paese in circostanze normali che può essere pronto ad affrontare un terremoto di tale magnitudo”. Inoltre, il grave peggioramento del tenore di vita nell’ultimo decennio ha privato gran parte della popolazione dell’autosufficienza finanziaria e psicologica, lasciandola senza i mezzi necessari per far fronte e adattarsi in fretta a questa realtà. Per contro, il terremoto ha riportato l’attenzione sui siriani, oltre all’assistenza e agli aiuti umanitari. Ma l’attenzione rivolta al terremoto e alle sue vittime ha privato le fasce più deboli delle cure essenziali, come l’assistenza medica e sanitaria.

In varie regioni resta la necessità urgente di identificare e classificare la popolazione colpita dal disastro, suddividendola in categorie in base all’entità dei danni e al livello di assistenza necessaria. Ma è di cruciale importanza stanziare aiuti sostenibili, compresi gli alloggi, oltre a un sostegno iniziale alla ripresa delle condizioni di vita e alle infrastrutture essenziali come le scuole. È necessario garantire soluzioni legali per il crollo parziale o totale degli edifici, oltre ad affrontare il problema della perdita dei documenti indispensabili. Senza dubbio è fondamentale un supporto psicologico specializzato, libero da pratiche non professionali, per una larga parte della popolazione – a prescindere dalle loro fasce d’età – che vive nelle aree colpite dal disastro.

Ma non ci può essere alcuna risposta a medio-lungo termine senza consistenti finanziamenti, totale sostegno e magari consulenti esterni per dare assistenza alle zone più colpite, ma soprattutto non può esserci senza un vera svolta politica a Damasco.