Dossier

COP27. I nodi sul tavolo: emergenza clima e repressione.

Il vertice internazionale COP27 che si terrà in Egitto fino al 18 novembre 2022 offre a Orient XXI l’opportunità di fare il punto sulla questione ambientale in Nord Africa e nel Vicino Oriente. Un dossier di articoli inediti e contributi d’archivio dal 2013 per analizzare le sfide impegnative che attendono una regione dove la questione climatica fa raramente notizia. Dal problema dell’acqua all’urbanistica, fino alle difficili forme di protesta degli attivisti, le questioni in agenda sono della massima importanza.

Marocco, 8 agosto 2022. Il letto prosciugato della diga di Al-Massira presso il villaggio di Ouled Essi Masseoud, a circa 140 chilometri da Casablanca.
Fadel Senna/AFP

La Conferenza delle parti “COP 27” sui cambiamenti climatici che ha preso il via nella località balneare egiziana di Sharm el-Sheikh rappresenta l’occasione per il presidente Abdel Fatah Al-Sisi per un’ulteriore messinscena del suo delirio d’onnipotenza. L’eccessiva repressione e il controllo poliziesco esercitato (grazie a un’applicazione di accreditamento via smartphone che permette la geolocalizzazione) su giornalisti e ONG che prenderanno parte alla conferenza, probabilmente non impediranno ai governi di tutto il mondo di pretendere, in un altro forum multilaterale e a forza di promesse, una risposta all’emergenza ambientale. Proprio quei governi che si gireranno di nuovo dall’altra parte di fronte alla repressione degli/lle attivisti/e dei diritti umani, tra cui c’è anche Alaa Abd El-Fattah che, il 6 novembre in occasione dell’inaugurazione della COP, ha iniziato, all’interno del carcere dov’è recluso, uno sciopero della fame totale.

Se le speranze di attivisti impegnati nella tutela dell’ambiente e degli scienziati sono molto ridotte, il forum planetario, organizzato per la quarta volta in un paese arabo dal 1995 (nel 2023 si terrà a Dubai) è un chiaro segnale della volontà delle autorità in Medio Oriente e Nord Africa di mettersi in luce, mostrando di avere a cuore le questioni legate all’emergenza ambientale. Tuttavia, sia qui che altrove, la prassi non sembra essere all’altezza delle sfide, che sono specifiche e più gravi rispetto ad altre regioni del mondo.

In una zona complessivamente arida, se non desertica, il riscaldamento globale rischia di rendere interi territori inadatti alla vita umana dal punto di vista fisiologico. Un rapporto tra umidità dell’aria e temperatura – calcolato in gradi detti wet-bulb temperature (temperatura di “bulbo umido”) o Tw –, fissato a 35° Tw, non consente più al corpo umano di autoregolarsi. In Pakistan, Oman, Emirati Arabi Uniti, comprese le aree appena urbanizzate, tale soglia mortale è stata recentemente già superata per diverse ore consecutive, ponendo il problema dell’abitabilità di questi luoghi nel medio periodo.

Città presto invivibili

Allora, che senso ha investire e costruire infrastrutture in città che nel giro di qualche anno e per alcune stagioni non permetteranno, secondo l’opinione degli scienziati, di respirare all’esterno per più di una decina di minuti? L’incremento globale delle temperature sta già moltiplicando e prolungando questi periodi in zone che diventano davvero invivibili. La sfida del surriscaldamento globale, qui più forte e tangibile rispetto ad altri luoghi del pianeta, soprattutto nelle aree dove l’aria è umida come sulle rive del Golfo Persico, non sarà in alcun modo decisa dalla regolazione della climatizzazione. Nelle aree urbane ha, infatti, come effetto quello di incrementare la temperatura esterna. Inoltre, l’innalzamento del livello del mare mette a rischio numerosi centri urbani, molti dei quali sono stati sottratti al mare, a Tunisi come a Doha.

Incentrati per lo più su questioni identitarie, sociali ed economiche, sono davvero rari i dibattiti pubblici in Nord Africa e nel Vicino Oriente sulla questione del cambiamento climatico. A fronte di alcune sporadiche mobilitazioni da parte della società civile, come mostrano i vari articoli del dossier, i governi invece sembrano avere maggiore fiducia in soluzioni tecniche sempre più sofisticate, persino distopiche, come il progetto “The Line” nel nord-ovest dell’Arabia Saudita1: un edificio in vetro e acciaio lungo 170 km e alto 500 metri costruito nel deserto e che dovrebbe ospitare fino a 9 milioni di abitanti. Definire ecosostenibile la costruzione di una struttura di questo tipo, che richiede l’impiego di un ingente quantitativo di materiali con grandi emissioni di CO2, che si stima siano quattro volte le emissioni annuali del Regno Unito2, rappresenta solamente uno specchietto per le allodole. Ciononostante, i lavori sono stati ufficialmente avviati ad ottobre 2022.

Il tema centrale dell’habitat

La promessa di un impatto ambientale a emissioni zero dei Mondiali di calcio in Qatar, per quanto approvata con una certa compiacenza da parte del Comitato FIFA, è poco attendibile, e passa più attraverso meccanismi di compensazione delle emissioni di CO2, che sono altamente discutibili in termini di efficienza ed etica, che per un piano di austerità energetica. Sta arrivando un fiume denaro alle aziende che praticano il “greenwashing”, piantando alberi in altre zone, anche se è una soluzione che non comporta in alcun modo una riduzione effettiva delle emissioni di gas serra.

La questione dell’habitat è centrale per affrontare il cambiamento climatico. Dal Marocco all’Oman, il mancato rispetto di soluzioni regolamentate a carattere locale, in particolare utilizzando la tecnica del pisé3 o la pietra, ha un effetto molto negativo in termini di bilancio di CO2. Si è scelto di usare il calcestruzzo e il cemento, senza alcun isolante per proteggersi dal caldo e dal freddo. Questi materiali espongono però le popolazioni a una grande vulnerabilità verso gli agenti atmosferici, creando isole di calore, che richiedono sistemi di climatizzazione attivi in tutti gli edifici con il ricorso a grandi quantità e vari tipi di sabbie, che a volte devono essere importate (ormai sono rare) perché paradossalmente non sempre sono disponibili nella regione.

I modelli urbanistici privilegiati mettono in risalto anche l’espansione incontrollata. Il coinvolgimento delle multinazionali occidentali in tali progetti, spesso assurdi, dimostra il sostegno delle economie del Nord nelle logiche dello spreco di risorse. Su questo aspetto, le città del Golfo sono estremamente problematiche e sono diventate lo standard (autostrade, case unifamiliari, artificializzazione4, privatizzazione degli spazi) che si sta diffondendo in tutto il mondo arabo, dalla Turchia all’Iran5. Basti pensare solo che il piano di sviluppo della nuova capitale amministrativa egiziana non prevede l’integrazione delle infrastrutture di trasporto pubblico. L’ampliamento della rete metropolitana del Cairo verso la nuova capitale è stata annunciata solo molto tardi, mentre i lavori non sono ancora iniziati.

Dipendenza dalle entrate del petrolio e del gas

Non si intravedono all’orizzonte politiche di austerity o quantomeno ambiziose nel contrastare le fonti di inquinamento, in gran parte causate dal traffico automobilistico e dalle fabbriche, comprese quelle di cemento. Così Teheran deve spesso far fronte a picchi impressionanti che portano alla chiusura delle scuole da parte delle autorità. Il Cairo, Istanbul, Sana’a e Beirut – ognuna di queste città è costretta a farlo per le particolari configurazioni geografiche che a volte intrappolano l’aria viziata da polveri sottili e ozono.

Lo spazio concesso ovunque alle auto private e al mantenimento di un’urbanizzazione a bassa densità giustificano l’entusiasmo del momento per l’idrogeno come fonte d’energia alternativa. È intorno a questa soluzione, però molto complessa e ancora incerta, che si struttura la previsione di emissioni zero da parte degli Stati del Vicino Oriente e del Nord Africa. Il sultanato dell’Oman promette di raggiungere questo obiettivo entro il 2050, facendo leva soprattutto sull’energia solare che permetterebbe di produrre e esportare dell’idrogeno verde. L’Arabia Saudita ha annunciato enormi investimenti nella ricerca in questo settore, di cui oltre 3 miliardi di dollari (3,03 miliardi di euro) insieme a partner egiziani, con il progetto ambizioso di produrre soprattutto fertilizzanti agricoli.

La regione si caratterizza per la sua dipendenza totale dalle entrate del petrolio e del gas. Le differenze sono evidenti tra, ad esempio, il Kuwait, che ha un bilancio statale basato al 91% sulle entrate degli idrocarburi nel 2022 e la Tunisia, che è diventata importatrice netta nel 2000. Una dimensione che costituisce già di per sé un motivo di forte contraddizione nella lotta contro i cambiamenti climatici. Al momento, non c’è alcuno stato che sia disposto a interrompere le esportazioni di idrocarburi o il loro sfruttamento fino a quando ci sarà una domanda (e i prezzi così alti come nel contesto della guerra in Ucraina) o finché le risorse potranno essere bruciate a costi ridotti per fornire elettricità a una tariffa competitiva. Il sogno dello sfruttamento nel Mediterraneo orientale dei giacimenti di gas da parte del Libano e di Israele ne rappresenta una chiara prova.

I governi e le élite economiche sembrano disposti tutt’al più a usare una parte di questa rendita per investirla nelle rinnovabili, in particolare nell’energia solare che di fatto sembra inesauribile nella regione. Ma queste nuove fonti di energia sostituiscono solo in rari casi l’energia fossile e servono quindi principalmente a rispondere a un aumento della domanda. Una crescita legata all’aumento considerevole della popolazione e delle sue abitudini, nonché allo sviluppo di nuove attività come il “mining”6 di criptovalute, che sono ad altissimo consumo energetico in quanto impiegano giganteschi server informatici che hanno bisogno oltretutto d’essere refrigerati7. La rendita petrolifera porta a ulteriori incentivi per gli investimenti nel settore delle infrastrutture commerciali e turistiche, causando sempre più flussi d’aria ed emissioni, nonostante quest’ultime siano in apparenza compensate con l’acquisto di quote d’emissione per ridurre l’inquinamento.

L’obiettivo prefissato di un’emissione pari a zero assomiglia quindi a un gioco di prestigio, senza essere parte integrante di politiche pubbliche o pratiche quotidiane. Resta aperta la questione sulla reale presa di coscienza del pubblico, al di là di gesti simbolici o politici come la Marcia Verde in Marocco o i tanti “boulevard de l’environnement ” nelle città tunisine, passando per le campagne contro lo sversamento illegale di rifiuti un po’ ovunque. Le migliaia di tonnellate di rifiuti di plastica che inquinano anche i paesaggi più remoti e i litorali, la graduale riduzione della biodiversità, l’uso ricorrente delle bottiglie d’acqua, le abitudini alimentari come gli sprechi di ogni tipo sono il simbolo del recente, a volte brutale, ingresso del Nord Africa e del Vicino Oriente nella società del benessere e del consumo eccessivo. I problemi urgenti legati alla povertà o alla guerra, che scandiscono la vita quotidiana, non sembrano del resto favorire una via d’uscita impellente da quel modello.

Di chi è la responsabilità?

Nella regione, come altrove in Asia, Africa sub-sahariana e America Latina, è diffusa indubbiamente la sensazione di una minore responsabilità rispetto a quella dell’Occidente nella lotta contro il cambiamento climatico. Se non è sbagliato di certo fare un confronto tra le emissioni pro capite di un marocchino e un americano nell’ultimo secolo, la cosa però potrebbe legittimare una certa apatia. Una sensazione rafforzata dalle richieste di finanziamenti per affrontare le perdite e i danni nei paesi del Sud del mondo. Queste misure dovrebbero essere al centro delle discussioni a Sharm el-Sheikh, portate avanti in particolare dall’Egitto8. Ma è una logica che mira a far passare in secondo piano le cattive pratiche “climaticide” nei paesi che hanno fatto richiesta di finanziamenti e, in ogni caso, restano al centro delle aspirazioni delle élite, o di una parte della società. Il modello Dubai, sempre più verticale e in cemento, basato sul consumismo e i suoi stratagemmi, non esercita per ora un effetto deterrente. Al contrario, viene imitato a suon di centri commerciali, moschee faraoniche, autostrade urbane e quartieri degli affari con grattacieli più o meno riusciti.

Oltre alle questioni legate al clima, all’inquinamento e all’energia, ce n’è un’altra da affrontare in modo piuttosto urgente: quella dell’acqua. La regione, anche per le grandi disparità, ha una carenza generale di una risorsa assolutamente vitale, oltre che dal suo eccessivo sfruttamento, accentuato dalla crescita demografica. I fiumi, in particolare il Nilo come l’Eufrate, sono un motivo di contesa tra gli Stati che li attraversano. Per di più, lo spreco delle fonti di superficie, ad esempio in Iraq a causa di una rete di adduzione idrica e irrigazione totalmente carente, porta a una reale vulnerabilità delle popolazioni e rende impossibili i modelli agricoli e gli stili di vita tradizionali. L’esempio del sud dell’Iraq dove le paludi sono scomparse è da questo punto di vista terribile, così come lo è il prosciugamento del Giordano e del Mar Morto nella Palestina occupata, a causa dell’accaparramento di terre e acqua da parte di Israele. Anche la siccità nel nord della Siria, durante il primo decennio del secolo, è stata considerata uno dei fattori scatenanti della rivolta del 2011, e in seguito della guerra.

La situazione è particolarmente tesa anche negli altopiani dello Yemen intorno alla città di Sana’a, dove la prospettiva della desalinizzazione dell’acqua di mare (modello sviluppato nella regione) è incomprensibile a causa dell’altitudine. Le falde acquifere sono già eccessivamente sfruttate (fino al 140% del rinnovo annuale dalle acque piovane) e potrebbero presto prosciugarsi, con un conseguente e massiccio spostamento di popolazioni. Paradossalmente, nello stesso bacino intorno alla capitale yemenita, aumentano i rischi di inondazioni a causa delle tempeste tropicali, mettendo in evidenza i punti deboli della pianificazione urbana, senza però risolvere la questione della mancanza strutturale d’acqua sia per gli abitanti che per le colture.

In un contesto di guerra e fallimento dello Stato, il recente sviluppo dei pannelli solari nelle campagne yemenite è il simbolo di quanto complesse siano le questioni. I pannelli hanno come effetto indesiderato quello di favorire lo sfruttamento eccessivo delle falde acquifere. Offrono infatti un’energia in apparenza gratuita per prelevare acqua e irrigare senza limiti, mentre prima le motopompe a diesel erano a pagamento.

In Nord Africa e nel Vicino Oriente, le questioni legate all’ecologia, o più in particolare al clima, risentono del fatto di essere state a lungo ignorate. Le società stesse, come i Paesi dell’intera regione, non se ne sono ancora pienamente rese conto. Oltretutto, i movimenti di protesta sono spesso oggetto di repressione, perché qui, più che in Europa o in altre zone temperate, è probabilmente in gioco la sopravvivenza.

3Il termine pisé indica una tecnica costruttiva che si basa sulla realizzazione di mura con terra poco compattata con appositi strumenti, dentro casseforme lignee di limitata altezza e smontabili, per consentirne lo spostamento. [NdT].

4Soppressione dello stato naturale da parte dell’uomo. Ciò porta alla perdita di risorse naturali e all’impermeabilizzazione dei suoli. [NdT].

6Il termine mining deriva dall’inglese to mine, che significa estrarre, e nel caso dei bitcoin rappresenta il processo di condivisione della potenza di calcolo degli hardware dei partecipanti alla rete. [NdT].