Dossier

Iraq 2003. Un crimine senza colpevoli

Il 20 marzo del 2003 iniziava la guerra contro l’Iraq. A partire da oggi e per le prossime settimane, OrientXXI e Orient XXI Italia pubblicheranno articoli e approfondimenti dedicati a questo ventennale, a firma di diversi autori e autrici.

© Thierry Cauwet, 2012/Fonds de dotation Alain Oudin

E così la storia si ripete. Ogni volta, l’intervento straniero contribuisce ad aggravare problemi che dovrebbe risolvere, caricando la popolazione di ulteriori sofferenze che, invece, dovrebbe alleviare. E ogni volta, gli eventi smentiscono le belle promesse di un futuro migliore, facendo allontanare l’orizzonte di un ordine internazionale più giusto mentre la guerra diventa il modus operandi per risolvere le crisi. E ogni volta, ci sono alcuni – colti da amnesia – che ci spingono a scatenare una nuova guerra.

Gli esempi da citare sono tanti. In Libia, l’obiettivo era sbarazzarsi di un dittatore megalomane e sanguinario; il risultato è stato quello di avere un paese diviso, il crollo dello Stato e le conseguenze della caduta del regime oggi ricadono su tutta la regione del Sahel. In Afghanistan, con un clamoroso ritiro delle truppe dopo vent’anni, gli Stati Uniti hanno lasciato un paese in rovina e al loro destino le donne afghane che pretendevano di liberare, mentre i talebani, proprio quelli che Washington voleva punire per gli attentati dell’11 settembre 2001, sono oggi di nuovo al potere. Mai il famoso detto “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni” è apparso tanto vero.

Nella classifica dei disastri, alla guerra contro l’Iraq del 2003 spetta senza dubbio il primo posto. Sarà “la madre di tutte le battaglie” aveva promesso il presidente iracheno Saddam Hussein il 16 gennaio 2003, quando gli Stati Uniti, il Regno Unito e i loro alleati – in quella che fu chiamata “la nuova Europa” – invasero il suo Paese. Bastarono poche settimane per mettere fine alle spacconate del raïs, ma ci sono voluti anni prima che Washington trovasse la via d’uscita. Un evento che metteva insieme il folle sogno in stile dottor Stranamore dei neoconservatori con quello dell’ex presidente George W. Bush che ambiva a ridisegnare il Medio Oriente e favorire gli appetiti delle grandi compagnie petrolifere che miravano al petrolio iracheno nazionalizzato nel 19721.

Attraverso la voce del suo ministro degli Esteri dell’epoca Dominique de Villepin, la Francia, con l’ovazione di gran parte dei presenti a quella storica sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, aveva osato protestare contro quella folle avventura. La sfida lanciata da Parigi all’arroganza americana le costò una crisi senza precedenti con Washington e una campagna antifrancese che raggiunse il culmine in quell’anno. Ma questo coraggio non durò a lungo. In netto contrasto con lo spirito e la lettera della Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza – e quindi anche la Francia – approvò la risoluzione a sostegno dell’invasione americana e la decisione di affidare all’aggressore il compito di gestire l’Iraq. A una condotta criminale e illegale, gli Stati Uniti aggiunsero poi un’incompetenza dovuta all’ideologia dei neocon e alla scarsa conoscenza della regione.

È difficile stabilire il bilancio di questa guerra. Non sapremo mai il numero esatto dei morti iracheni: centinaia di migliaia secondo alcuni, un milione secondo altri. A cui vanno aggiunti la miriade di profughi, la distruzione delle infrastrutture, il collasso del sistema scolastico. Decretando un rigido confessionalismo politico che divide il potere tra sunniti, sciiti e curdi, gli apprendisti stregoni americani hanno reso ingovernabile il Paese. E ancora oggi, gli Stati Uniti continuano a controllare le entrate petrolifere irachene conservate nei caveau della Banca Centrale. Per quanto riguarda le conseguenze geopolitiche, sono ben lontane dal corrispondere ai sogni dei neoconservatori che prevedevano la nascita di un Iraq democratico, solido alleato di Israele.

Ironia della sorte, la guerra in Iraq ha permesso all’Iran, nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti, di intrufolarsi nel cuore del sistema politico e delle milizie irachene; dando vita all’organizzazione dello Stato Islamico (IS), come la guerra americana in Afghanistan aveva dato vita a quella di Al-Qaeda.

Per tutti questi crimini – crimini di aggressione, crimini contro l’umanità e crimini di guerra2 – non verrà processato alcun leader occidentale. Né George W. Bush, né Tony Blair, né Silvio Berlusconi, né José Maria Aznar, nessuno di loro sarà trascinato davanti a un tribunale internazionale come un qualsiasi leader africano.

La guerra in Iraq è stata cancellata troppo in fretta, di certo è stato un “errore”, ma dal quale non si imparerà alcuna lezione: a Washington e Tel Aviv non stanno già parlando di una nuova spedizione contro l’Iran? Un’amnesia che fa capire il grado di scetticismo dei popoli e dei governi del “Sud globale” nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina. Non perché la approvino – anzi la maggior parte dei governi l’ha condannata – ma si dichiarano estremamente scettici di fronte all’indignazione occidentale per l’aggressione della Russia, l’occupazione inaccettabile di un territorio con la forza e i crimini del suo esercito. Sono fortemente convinti che gli occidentali non difendano affatto il diritto internazionale, la pace e la democrazia in Ucraina, ma si preoccupino solo dei loro interessi. Di ciò vedono un’ulteriore prova nel rifiuto da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea di adottare misure per porre fine all’occupazione della Palestina, che va avanti ormai da decenni.

1Jean-Pierre Sereni, «Échec d’une guerre pour le pétrole», Le Monde diplomatique, marzo 2013.

2[[Tra questi crimini, vedi Alain Gresh, “Haditha, un massacro impunito in Iraq”, Le Monde diplomatique, “Nouvelles d’Orient”, 29 gennaio 2012.