Documentario

Jamal Khashoggi. Anatomia di un crimine di Stato saudita

The Dissident, documentario di Bryan Fogel, racconta la barbara uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Un terrificante tuffo nel mondo del principe ereditario Mohammed Bin Salman.

L’omicidio di un giornalista raramente diventa oggetto di un film documentario di due ore. Ma quando si tratta di un crimine di Stato, in cui il mandante è il principe ereditario dell’Arabia Saudita, e la vittima è stata tagliata a pezzi in una zona diplomatica, si ottiene The Dissident. Il documentario è di Bryan Fogel, che ha realizzato anche un altro filmato esplosivo, Icarus (2017). sul doping in Russia, che ha vinto il premio Oscar come miglior documentario dell’anno (2018). Nonostante tutto, il film è stato rifiutato dalle grandi piattaforme streaming che non hanno voluto inimicarsi il forte uomo saudita.1 Sicuramente non per mancanza di qualità.

Realizzato brillantemente, questo thriller politico non si accontenta di descrivere la morte atroce di Jamal Khashoggi, 59 anni, giornalista del grande quotidiano americano The Washington Post, soffocato e poi smembrato il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia. Il regista esplora con ottimo brio la profondità di campo di questo fatto di cronaca mondiale che ha appena assunto una nuova dimensione con la pubblicazione da parte del presidente Joe Biden di un rapporto dell’Office of the Director of National Intelligence (ODNI) che presenta il principe erede Mohammed Bin Salman (MBS) come colui che ha «convalidato» l’operazione.

Dietro al percorso di un giornalista “ufficioso”, costretto all’esilio e diventato oppositore, vediamo l’Arabia Saudita muoversi in un’autocrazia violenta, ossessionata dal controllo assoluto della sua popolazione grazie alla tecnologia più avanzata. Questo incubo si incarna anche nel destino di un giovane militante saudita, anche lui in esilio, braccato sino in Canada dal regime che si vendicherà odiosamente. Il film dà la parola anche alla compagna di Jamal Khashoggi, l’accademica turca Hatice Cengiz che avrebbe dovuto sposare poco tempo dopo, in una storia illustrata da messaggi e foto toccanti. Hatice Cengiz ha aspettato il suo compagno per ore davanti al consolato in cui era venuto a cercare dei documenti che certificassero il suo divorzio da una precedente moglie.

THE DISSIDENT | Teaser trailer italiano — YouTube

«È arrivato l’animale del sacrificio?»

Jamal Khashoggi è morto quasi immediatamente dopo il suo ingresso nell’edificio, soffocato in un sacchetto di plastica. Le autorità turche, ai ferri corti con Ryadh, hanno fornito al regista tutti gli elementi della loro indagine. Le trascrizioni delle registrazioni dei servizi di informazione turchi, che avevano nascosto microfoni in tutto il consolato, fanno rivivere i fatti secondo per secondo. I membri dell’équipe di assassini, arrivati in aereo speciale, ridono e parlano come in un film di Quentin Tarantino: “è arrivato l’animale del sacrificio?” chiede il dr. Salah Al-Tubaigi, medico forense con una sega per ossa. “Le articolazioni non sono un problema”, aggiunge. “Ma mi chiedo se il tronco e il bacino ci stanno in una borsa”. Poi, terminato lo smembramento: “no, quella borsa, la inviamo a Riyadh per l’identificazione”.

“Si sente Jamal Khashoggi soffocare e gemere per sette minuti e mezzo”, precisa il procuratore turco impassibile. Delle immagini girate dalla polizia mostrano le tracce di sangue sulla moquette, rivelate dal Luminol, il composto chimico della scientifica. Si prosegue con il ritrovamento di un forno sepolto nel giardino del console saudita, dove verosimilmente sono stati bruciati i resti. “il giorno dell’omicidio, il console ha ordinato trenta chili di carne da un famoso ristorante” precisa il procuratore. Per mascherare l’odore ma anche le tracce di DNA.

Questo omicidio di carattere medievale vuole servire da esempio,secondo un amico di Khashoggi, ex dirigente del canale del Qatar Al Jazeera. Il messaggio è chiaro: qualsiasi opinione diversa da quella del leader è ora vietata.

Jamal Khashoggi non era un rivoluzionario. Per trent’anni è stato un giornalista vicino alla monarchia, ha gestito diversi giornali di proprietà dei principi anche se ciò significava essere messo da parte quandosi spingeva troppo in là con la critica dell’establishment religioso. Era anche il consigliere dei potenti. Il principe Turki Bin Faysal Al-Sa’ud, per molto tempo a capo dei servizi segreti sauditi, ha nominato Jamal Khashoggi suo portavoce quando è stato nominato ambasciatore a Londra e poi a Washington. Formatosi negli Stati Uniti, Jamal Khashoggi faceva parte dei giornalisti sauditi incaricati di formulare le posizioni del regno per la stampa estera. In un’intervista alla radio pubblica statunitense PBS,2 ha presentato la guerra condotta dall’Arabia Saudita in Yemen come una guerra contro l’Iran, che ha paragonato alla Germania nazista.

Dal sostegno alla critica a «MBS»

Sarà più critico nei confronti di questa guerra in uno dei suoi editoriali per il Washington Post che lo aveva accolto nel 2017 dopo che il giornalista aveva optato per l’esilio, sentendosi in pericolo. Khashoggi aveva sostenuto il nuovo principe ereditario Mohammad Ben Salman, modernizzatore di 35 anni che aveva ringiovanito il regno, autorizzando i concerti e infine permettendo alle donne di guidare. Ma MBS ha anche bloccato le libertà politiche con arresti di massa nella stessa famiglia reale, così come chiunque potesse sembrare un simpatizzante per i diritti umani. Poi è stata la volta di Jamal Khashoggi, per un articolo che criticava Donald Trump, sostenitore incondizionato di MBS.

Alla fine del 2016, i suoi regolari contributi nella stampa saudita sono stati brutalmente soppressi. Il palazzo lo avverte, racconta: “non devi più scrivere né esprimerti sui social”. Il vecchio ordine politico fondato sul consenso familiare tra i figli del re Abdulaziz, fondatore del regno moderno, aveva lasciato spazio alla dittatura di un solo uomo. Esiliato, Khashoggi denuncia l’autocrate MBS dalle colonne del Washington Post. Leggendo i suoi contributi americani,3 si assiste all’evoluzione del giornalista. Senza chiedere la fine della monarchia, esprime la sua ammirazione per le Primavere Arabe in Tunisia ed Egitto. Chiede anche agli Stati Uniti di accettare di vedere i Fratelli Musulmani (di cui aveva fatto parte in gioventù) nel dibattito politico nel Vicino Oriente. Una linea rossa assoluta per l’Arabia Saudita.

Per il regista di The Dissident, l’omicidio di Khashoggi è stato innescato dall’incontro del giornalista con un militante saudita. Omar al-Zahrani. Anche lui in esilio, in Canada, rivela che Jamal Khashoggi gli aveva fatto un trasferimento per finanziare il suo grande progetto: un commando di militanti cibernetici incaricati di contrastare su Twitter l’esercito virtuale messo in piedi da MBS per rintracciare, denigrare e neutralizzare gli oppositori del principe ereditario, numerosi in questo social, soprannominato “il parlamento degli Arabi”.

In questa guerra virtuale, racconta il film, il regime saudita è più preparato, grazie alla tecnologia israeliana. Gli esperti spiegano come, grazie al software israeliano Pegasus, MBS ha potuto infiltrarsi nei telefoni dei militanti per seguirne le tracce. Compreso quello di Jeff Bezos, presidente di Amazon e proprietario del Washington Post, colpito dallo stesso MBS durante un incontro tra i due uomini. Per Jamal Khashoggi, il giovane principe ha fatto ricorso a metodi più brutali.