Femminismi

Le femministe irachene portano avanti il cambiamento in un paese diviso

Nel suo ultimo libro, Zahra Ali parla della lotta delle donne irachene, della questione di genere e dei femminismi in un paese segnato dalla guerra e dalla violenza da diversi decenni. Attraverso un’analisi femminista della storia dell’Iraq, il saggio combina brillantemente gli strumenti teorici degli studi decoloniali con la ricerca sul campo, lontana da ogni essenzializzazione “orientalista”, “occidentale” e da ogni logica binaria.

Piazza Tahrir, Baghdad, 13 febbraio 2020. Le donne partecipano a una manifestazione contro il governo.
Ahmad Al-Rubaye/ AFP

“Decolonizzare il femminismo”: secondo Zahra Ali è questa la premessa necessaria per qualsiasi analisi che prenda in esame le lotte delle donne nel mondo arabo. In un’intervista a Investig’action pubblicata nel 2016, l’autrice chiarisce ciò che significa “rivendicare modelli alternativi di lotta contro il patriarcato, emancipati dalle norme imposte dai femminismi egemonici bianchi e borghesi e rifiutare ogni essenzialismo”. A suo avviso, è importante comprendere che i femminismi – di conseguenza plurali – nascono e vivono in contesti diversi, e non a partire da modelli predefiniti di emancipazione.

Zahra Ali è una sociologa, nota per i suoi contributi su razzismo, gender e islam, che fa parte della corrente di pensiero del femminismo cosiddetto “decoloniale”1 che mette in luce i limiti dell’approccio femminista “bianco” che si dichiara universalista, ma anche la quasi totale assenza di critica al patriarcato quando si prende in considerazione la lotta delle donne in un contesto (post)coloniale. In tal senso, Femmes et genre in Irak2 è uno studio sociologico approfondito in cui, mescolando etnografia e storia sociale, politica e orale, si applica brillantemente e in modo convincente questa griglia d’analisi.

Intendo dimostrare che la questione femminile, di genere e le lotte femministe in Iraq devono essere analizzate in una prospettiva complessa, relazionale e storica, senza far ricorso alla tesi di una “cultura” o di un “islam” indifferenziato per spiegare delle realtà sociali, economiche e politiche. […]

Un’indagine sul campo “post-invasione”

Per due anni, dal 2010 al 2012, Zahra Ali ha condotto ricerche sul campo nell’Iraq post-invasione statunitense, nelle città di Baghdad, Erbil e Sulaymaniyya. Ha raccolto le storie di vita di attiviste per i “diritti delle donne” o considerate “femministe” dai 21 ai 74 anni, “provenienti da ogni sfera etnica, religiosa, confessionale e politica” (arabe, curde, musulmane, cristiane, sunnite, sciite, comuniste, nazionaliste o islamiste). “È così che sono riuscita a mettere insieme una storia orale transgenerazionale delle donne, che rispecchia l’evoluzione della loro vita, il loro attivismo politico e le questioni di genere dopo gli anni ‘50”, spiega nell’introduzione.

Lo statuto personale in un contesto caratterizzato dalla frammentazione della nazione

Il libro ripercorre la storia irachena dalla fine della Prima guerra mondiale alle proteste popolari degli ultimi anni, con una domanda: in che modo la condizione femminile e le questioni di genere sono state plasmate dai giochi di potere?

In primo luogo, la colonizzazione ha frammentato la nazione irachena attraverso una politica di differenziazione disomogenea in materia di diritti giuridici basata su divisioni di classe, etniche, comunitarie e regionali. La rappresentazione delle donne musulmane (dominate, sottomesse, senza diritti) è, qui come altrove nel mondo coloniale, interpretata dai colonizzatori come conferma e “prova” della differenza sostanziale tra un Occidente “civilizzato” e un Oriente “barbaro”. Una tesi che nazionalisti e riformisti musulmani tendono a ribaltare facendo della “donna” (madre), al contrario, “la responsabile biologica” della Nazione ideale.

Durante la prima Repubblica irachena (1958-1968), la difesa dei diritti delle donne diventa quindi un elemento centrale della moderna politica nazionalista del nuovo regime – anche se l’islam resta un simbolo chiave di autenticità culturale, in particolare per le femministe nazionaliste. Il legame tra una Nazione unificata e l’emancipazione della donna passa poi attraverso l’istituzione del Codice sullo Statuto Personale (CSP, 1925) che consente di superare le differenti giurisdizioni architettate dall’impostazione coloniale, riconoscendo a tutti/e gli stessi diritti, in una sorta di livellamento verso l’alto. Ma presto, un colpo di Stato ad opera del partito Baath nel 19683 instaura un autoritarismo “sanguinario” che succede al precedente periodo rivoluzionario. La repressione e la violenza politica annullano ogni processo di cambiamento sociale, nonché l’idea di unità nazionale su cui le attiviste per i diritti delle donne facevano affidamento nelle loro rivendicazioni.

Perdita dei diritti acquisiti e violenza di Stato

Ha inizio un periodo di “barbarie sociale, politica ed economica”, segnato dalle politiche anti-curde e anti-sciite degli anni ‘70 e ‘80, dalla guerra contro l’Iran (1980-1988) e dalla militarizzazione della società, dall’invasione del Kuwait nel 1991 fino all’embargo imposto dall’ONU allo Stato e alla società irachena, che “ha inciso in maniera profonda sul suo funzionamento e sul suo tessuto sociale e culturale”, ridefinendo la vita delle donne, le norme e le pratiche di genere. È qui che si crea un sistema che Zahra Ali, riprendendo una formula di Hisham Sharabi4, definisce “neo-patriarcato”: un patriarcato modernizzato, per non dire “rivisitato”, portato dalla piccola borghesia urbana e incarnato dalla figura del “Padre della Patria”. Un neo-patriarcato ambivalente che promuove sia un miglioramento delle condizioni di vita delle donne (fino alla crescita economica legata ai proventi del petrolio), sia forme di protesta che seguono linee identitarie. È il caso in particolare della militanza islamista sciita, che sviluppa le proprie norme di genere: forse una sorta di diritti per le donne, ma circoscritti.

In un Iraq profondamente diviso, le donne perdono i diritti acquisiti durante la prima Repubblica e le loro condizioni di vita cominciano a deteriorarsi. Solo le donne che fanno parte o sono vicine al partito Baath riescono a cavarsela in questa difficile situazione, a seconda della loro partecipazione allo sforzo bellico e della loro appartenenza comunitaria. Ma per la stragrande maggioranza delle donne irachene, “l’aumento della povertà e la crisi umanitaria causata dalle sanzioni hanno spinto […] la società verso meccanismi di sopravvivenza, inasprendo il peso delle norme di genere”.

Il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti invadono l’Iraq, occupandolo fino al ritiro definitivo, che avverrà solo nel dicembre del 2011. La nuova élite politica, contraria al partito Baath e portata al potere dalle forze della coalizione internazionale che guida l’invasione, è d’orientamento filo-iraniano. La creazione di uno Stato etnico-confessionale frammentato genera di nuovo violenza, caos politico e l’ascesa delle forze conservatrici.

Ong-izzazione e “confessionalismo politicizzato”

Le attiviste per i diritti delle donne hanno a che fare con uno Stato debole, incapace di garantire i diritti dei/lle suoi/e cittadini/e. La partecipazione delle donne alla vita politica avviene solo nell’ambito del sistema settario che viene introdotto: sono accettate come “rappresentanti” della loro comunità, ma non delle donne in generale. Tuttavia riescono, attraverso questo piccolo spiraglio, a entrare nel governo, nel Parlamento e nei consigli provinciali.

Sotto l’occhio paternalistico dello zio Sam, le militanti svolgono attività essenzialmente orientate agli aiuti sociali e umanitari. Per fare questo, preferiscono contare su fondi esteri piuttosto che su uno Stato in dissesto, debole e corrotto. “Poiché i gruppi e le reti di donne sono principalmente finanziati da donatori americani, dall’ONU o europei e internazionali, il loro attivismo, i loro programmi, le campagne, le attività e persino il loro vocabolario sono stati profondamente influenzati da questo sostegno ricevuto”, spiega Ali

“L’Iraq post-2003 ha riproposto la “questione della donna” post-coloniale in forma confessionale. […] Come avvenuto durante il periodo coloniale, la “nuova Nazione” richiedeva la costruzione di una “nuova donna”. Il legame tra lo Stato-nazione e il genere è stato definito in un contesto in cui l’intervento militare statunitense stava imponendo una nuova élite politica e una versione settaria e confessionale dell’identità irachena. Il risultato è stato un “confessionalismo politicizzato” che ha messo in discussione la cosiddetta eredità “laica” dello Stato iracheno. Zahra Ali rifiuta però la linea di frattura tra laicità e religione, che finisce sempre per confermare o sottintendere che sia il potere religioso fondamentalista a inferiorizzare le donne. L’autrice sostiene infatti che la situazione vissuta dalle donne in Iraq non sia

Solo l’esito di una lettura errata dell’“islam”, ma la diretta conseguenza di una serie di guerre e invasioni che hanno portato alla frammentazione identitaria e socio-politica, nonché all’ascesa delle forze conservatrici.

Una nuova generazione di femministe

Oggi in Iraq non c’è un solo femminismo, ma vari femminismi. Le attiviste più radicali promuovono una riforma altrettanto radicale del Codice sullo Statuto Personale (CSP) per ottenere piena parità dei diritti in materia di eredità, matrimonio, divorzio, divieto della poligamia, ecc. Le femministe islamiste propongono spesso le stesse rivendicazioni, ma non attraverso gli stessi punti di riferimento: se rivendicano una lettura antipatriarcale del Corano, della giurisprudenza (fiqh) e dei testi religiosi, difendono anche un riformismo su base confessionale. Tra questi due poli si pongono le femministe per i diritti umani, musulmane e/o militanti di sinistra, che inquadrano le loro rivendicazioni nell’ambito dei diritti umani, così come definiti nella Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, pur conservando riferimenti all’impianto “islamico” del CSP e alla “cultura irachena” in forma molto fluida, per permettere di raggiungere un bilanciamento.

“Dare significato alla violenza, una prassi femminista” è con questo titolo che si conclude lo studio di Zahra Ali, che restituisce visibilità alla rivolta dell’ottobre 2019 contro il regime post-2003, in cui le donne hanno svolto un ruolo fondamentale. La loro massiccia mobilitazione ha liberato e dato nuovo slancio a un femminismo puntualmente irretito dal potere politico e/o religioso. Le giovani attiviste mettono sullo stesso piano rivendicazioni sociali, politiche ed economiche e insistono sull’importanza delle libertà individuali. La loro lettura dei giochi di potere e delle violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato, dall’esercito o dalle milizie fa parte di quell’utopia portata avanti dal movimento di protesta che ha voluto ridiscutere un nuovo contratto sociale.

1Per un primo approccio al femminismo decoloniale si rimanda al libro di Françoise Vergès, Un femminismo decoloniale, trad. it., Verona, Ombre Corte, 2020.

2Zahra Ali, Femmes et genre en Irak, Editions Syllepse, 2022. In inglese Women and Gender in Iraq. Between Nation-Building and Fragmentation, Cambridge University Press, 2018.

3L’8 febbraio del 1963, un colpo di Stato rovescia il generale Kassem, che era stato, a sua volta, a capo di un gruppo di ufficiali, autore di un golpe contro la monarchia nel 1958. Il 17 luglio del 1968, un’altra branca del partito Baath attua un secondo golpe, rovesciando il governo in carica. La branca irachena del partito Baath, che può contare sui fedelissimi di Saddam Hussein, diventa potente e strutturata.

4Neopatriarchy: A Theory of Distorted Change in Arab Society, 1988.