Europa

Lettera aperta dal campo profughi di Ritsona

Parwana Amiri è una giovane attivista afghana impegnata nella lotta per i diritti dei rifugiati. Aveva 15 anni quando ha cominciato a raccontare sotto forma di lettere la vita nel campo di Moria, dove è arrivata nel 2019, e poi nel campo di Ritsona (Atene). Il testo presentato qui è tratto dalla raccolta Suspended lives – Letters to the world from Ritsona, in cui denuncia la violenza strutturale delle politiche migratorie europee. Alla luce degli ultimi eventi, con l’accoglienza di migliaia di rifugiati ucraini in Europa, le sue parole ci ricordano che concedere i diritti in modo arbitrario non può che riprodurre un sistema di sopraffazione.

Louisa Gouliamaki/AFP

Al mondo dei politici: una lettera, in attesa di risposta

Mi chiamo Parwana Amiri. In questo momento vivo nel campo di Ritsona, con altre 3.000 persone, tra cui centinaia di ragazze come me. Vi scrivo non perché abbia fiducia o creda in voi, ma perché devo dare voce alle tante persone attorno a me che continuano a sperare in voi. Riconosco questa speranza sui loro volti quando ridono, la percepisco nelle loro vene quando mi tengono per mano, nella scintilla che si accende nei loro occhi quando incontrano i miei. Posso sentirla anche continuando a percepire quel silenzioso oceano di rabbia che cercano di contenere.

Riuscite a capire di cosa parlo? Noi siamo qui, in migliaia, feriti. Ci chiedono di dimostrare la nostra vulnerabilità. Eppure, nessuno ci vede né ci ascolta veramente, nessuno cerca davvero di capire le nostre ferite, men che meno di curarle.

Vi è mai capitato di scrivere una lettera e aspettare una risposta? Non importa di cosa parli. Scrivete e vi aspettate una risposta, anche banale. Allo stesso modo, noi aspettiamo una risposta alle lettere che vi mandiamo. Un piccolo cambiamento nella nostra condizione, almeno una vaga e distante attenzione rivolta sinceramente alle nostre rivendicazioni basterebbe per darci una speranza, la speranza di essere accettati nonostante la nostra diversità, la speranza che il sogno dell’integrazione non potrà mai realizzarsi costringendoci a cambiare e a comportarci secondo costumi a noi estranei, ma solo accettando di vivere con noi, rispettandoci come autentici esseri umani.

Vivo in una no man’s land, determinata ad ascoltare e a raccogliere ogni giorno migliaia di storie diverse. Nel frattempo, la sola cosa che siete disposti a fare è votare leggi sempre più restrittive nei nostri confronti, leggi basate su una conoscenza così limitata su di noi, acquisita attraverso così brevi e superficiali incontri. Redigete queste leggi con una penna, ma noi le sentiamo giorno e notte sulla nostra pelle, sin dentro le nostre ossa e la nostra anima.

Vi scrivo da una casa all’interno del campo, osservando dalla finestra il muro che ci circonda. Fuori, giocano dei bambini. Sono certa che nessuno di voi né nessun altro accetterebbe tali condizioni per i propri figli.

La sensazione di confinamento diventa opprimente. Ai nostri occhi viene impedito di vedere il mondo esterno. Le persone passano in macchina accanto al campo ogni giorno, mi chiedo se anche loro condividano la stessa sensazione di oppressione, quella di essere tenuti all’oscuro su quanto accade all’interno del campo, al di là del muro.

Posso vederlo, dalla mia finestra. È alto tre metri. Questa immagine mi resterà impressa nella mente per sempre, ricordandomi che sono stata costretta a vivere dietro a questo muro come una prigioniera.

Ci dicono che serve a tenerci al sicuro, ma non siamo mai stati minacciati dalla gente che sta fuori. E se anche fosse, imprigionarci non può essere la risposta. E ciò lo prevede la giustizia sociale, non io.

Non avrei mai immaginato che in Europa delle persone venissero confinate e rinchiuse perché minacciate dall’esterno e perché la prigionia può tenerle al sicuro – una sicurezza che non avranno mai per davvero. Perfino la polizia non entra in questa prigione. Non vi chiedo di mettervi nei nostri panni. Quello che vi chiedo è di fermarvi a riflettere, mentre passate accanto al campo. Quali sentimenti provate al pensiero che delle persone siano tenute prigioniere nel vostro paese, mentre voi, da cittadini di questo stesso paese, non avete idea di chi siano, delle loro vite, delle ragioni che le hanno spinte a fuggire da casa loro? Che ne fate di questa gente gettata ai margini della capitale, che non venite a trovare nemmeno una volta al mese, a cui non parlate nemmeno una volta a stagione o che non vedete nemmeno una volta all’anno – tutti diritti sui quali anche i criminali in carcere possono contare? Questa prigionia mi fa soffrire. Immensamente. E lotto per andare a scuola, imparare, crescere, sempre col timore di ciò che gli altri penseranno di me, della mia vita…

Ritsona è il riflesso del sistema carcerale all’interno di un complesso industriale radicato nella schiavitù, nel colonialismo e nel capitalismo razzista. I soldi spesi per il muro sono quelli dei cittadini. Il denaro per lo sviluppo dell’Europa. Non dovrebbe essere adoperato per perpetuare vecchi sistemi di dominazione oppressiva. Dovrebbe invece essere investito per migliorare la qualità di vita dell’intera società europea, in modo che ogni essere umano possa prosperare.

Noi esigiamo il nostro diritto a una vita decente, a un lavoro decente, a un alloggio decente, alla salute e all’educazione. Finché saremo privati di questi diritti, noi continueremo a contestare le fondamenta della vostra società.

Noi sfidiamo il mondo perché capisca la complessità con la quale razza, classe, nazione, e le capacità di ciascuno, s’intrecciano fra loro. Solo interrogando tale complessità potremo trovare la via per superare le categorie divisive, comprendere l’interrelazione di idee e processi presentati di solito come separati e scollegati, e combattere, insieme, per il bene comune.

Da una montagna di forza e trasportata da un’onda di energia, io, Parwana Amiri

Luglio 2021.