Arte e letteratura nel mondo arabo dopo il 2011: la nascita di una nuova cultura popolare?

Teresa Pepe recensisce per noi il volume collettivo Arabpop: Arte e Letteratura in rivolta nei paesi arabi, a cura di Chiara Comito e Silvia Moresi, Mimesis edizioni, 2020, che esplora, attraverso diversi capitoli scritti da otto autrici italiane, le evoluzioni di diverse forme d’arte ed espressione nel mondo arabo durante gli anni delle rivolte.

Copertina di Arabpop in N&B

Arabpop è un volume collettivo scritto da otto studiose e ricercatrici italiane, e dedicato alla produzione culturale araba contemporanea.

L’immagine di copertina del volume riporta un’illustrazione della disegnatrice libanese Lena Merhej che raffigura un gruppo di eroine in rivolta, richiamando la squadra tutta al femminile che è dietro la realizzazione del volume, il legame con le rivolte arabe e il riferimento all’arte pop.

Come annunciato nell’introduzione, “I contributi del volume intendono dare merito a questa incredibile stagione culturale che si è aperta nel 2010 e far conoscere al pubblico italiano le produzioni culturali più originali, nate e sviluppatesi durante le rivolte” (p. 10-11).

E infatti, sebbene questa rinascita culturale sia iniziata anche prima,1 il libro fornisce una panoramica ampia e variegata del campo culturale arabo, includendo il fumetto, il cinema, le arti visive, la musica pop, il romanzo, la poesia, il teatro e la performance art, i graffiti e la street-art. Ogni capitolo si concentra su un dominio specifico della produzione culturale araba analizzandone gli sviluppi in diversi paesi della regione, e focalizzandosi sul periodo immediatamente precedente o successivo alle rivolte del 2011.

Alcuni capitoli risaltano più di altri per il loro rigore scientifico e la ricchezza empirica. Il capitolo della Fischione, ad esempio, analizza la musica pop araba riscontrandone radici e riferimenti nel filone della canzone politicamente impegnata degli anni ‘60; l’analisi e traduzione dei testi è eseguita in riferimento al contesto politico arabo, e si avvale di termini critici tratti dalla scena musicale araba e globale.

Musiche ribelli

Fischione analizza una serie di canzoni di Ramy Essam, il cantautore egiziano che ha iniziato a comporre brani voce e chitarra da piazza Tahrir durante i 18 giorni della rivolta del 2011, e legge i suoi testi come un diario della rivoluzione egiziana, dall’entusiasmo di Irhal (Vattene!) in cui Essam mette in musica alcuni degli slogan cantati in piazza dai manifestanti contro l’ex presidente Mubarak, a Idrabni (Picchiami) rivolto ai militari che lo hanno picchiato e torturato insieme ad altri manifestanti nei giorni successivi alle proteste, fino a 8 ibril (8 aprile), una canzone dai toni nazionalistici e gratificanti nei confronti dei militari scesi in piazza contro il governo di transizione guidato dal maresciallo Tantawi.

Lo studio si ferma al 2013, ma è interessante notare come Ramy Essam e alcuni membri della sua band abbiano dovuto abbandonare l’Egitto in seguito alla presa di potere del generale al-Sisi, unendosi ad altri artisti e scrittori arabi attualmente in esilio, come Naji, Ganzeer, Maazen Maarouf, menzionati negli altri contributi del volume.

Di particolare effetto è l’analisi che la Fischione fa di Jimmy, un personaggio ricorrente nei brani dei rapper palestinesi El-Ras e Fira3i; “la caricatura dei white men che arrivano in Palestina a seguito delle organizzazioni umanitarie, vanno alle manifestazioni con i palestinesi, ma quando arrivano i lacrimogeni, i loro governi mandano un Buraq (il cavallo alato del Profeta Muhammad, n.d.a) per farli tornare a casa… Si accalcano attorno al buffet durante le feste a casa degli ambasciatori, scambiandosi, in un mix di cinico e frivolezza, opinioni su come sono venute le foto nei campi profughi” (p.79). Questi versi sono un esempio dell’ironia sferzante e cinica di questi rapper e, tradotti in italiano, regalano un sorriso e forse una simpatica “frecciatina” ad alcuni dei potenziali lettori di Arabpop.

Il capitolo di Catherine Cornet, “Dis-orientamenti visivi” analizza la “rivoluzione nel campo delle arti visive” generata dall’adozione dei social network. Dal punto di vista della diffusione, la Cornet dimostra come l’uso delle piattaforme digitali, in aggiunta agli investimenti da capogiro provenienti dal Golfo, stia spostando l’asse geografico dell’arte araba verso le capitali del Golfo come Doha, Dubai, e stia trasformando alcuni artisti in vere e proprie «star digitali».

Per quanto riguarda la produzione, l’autrice illustra come i mezzi digitali siano utilizzati per sperimentare con la tecnica del remix nelle arti visive, che consiste nell’assemblare volti e icone tratti dalla cultura araba e globale in modi insoliti e originali, con l’esplicito intento di “dis-orientare” il pubblico e sradicare i pregiudizi relativi alla cultura araba. Il suo capitolo, come anche gli altri contributi, va letto muniti di carta e penna (o di tablet), per poter prendere nota dei tanti artisti arabi attualmente celebri su piattaforme come Pinterest, Instagram, Tumblr o Behance.

Anche il capitolo di Luce Lacquaniti sulla street art e in particolare la sezione sul collettivo tunisino Ahl el-Kahf (Gente della caverna) sono degni di nota. “Scrivere e disegnare sui muri è in sé un gesto di ri-appropriazione di quello spazio pubblico, un tempo paradossalmente inaccessibile, perché’ dominato dalla paura, dal controllo, dalla delazione, dalla censura. La presenza di un graffito lo segnala come uno spazio rivoluzionario, ovvero sottratto al controllo dello stato”, scrive Lacquaniti (p. 199-220). E infatti, l’autrice dimostra come non sia affatto un caso che mentre i corpi dei manifestanti riempivano le piazze, i muri di Tunisi, Cairo, Baghdad, Beirut, Damasco si arricchivano di scritte e illustrazioni.

Sebbene i graffiti abbiano ricevuto una forte attenzione mediatica e accademica negli ultimi anni, l’originalità del suo studio si deve all’inclusione di slogan e scritte sui muri, che sono altrettanto poetiche e significative, come quello apparso nella città di Dara’a, in Siria, all’inizio delle rivolte nel 2011 “Sta arrivando il tuo turno, dottore” rivolto al presidente (oculista) siriano Bashar al-Assad.

Commovente è la traduzione e lettura dei testi poetici inclusi nel capitolo sulla poesia di Silvia Moresi. L’idea di leggere il biglietto lasciato a suo madre da Mohammad Bouazizi (il giovane tunisino che decise di farsi fuoco in piazza e diede inizio alle proteste del 2010/11) come la prima poesia in prosa della primavera araba, è di grande effetto, e si ricollega bene all’idea di “Arabpop” come arte dal basso, richiamata nell’introduzione.

Alla ricerca del pop arabo

A tal proposito, mentre i singoli capitoli sono caratterizzati da una ricchezza di dettagli e informazioni, il volume avrebbe beneficiato di un’introduzione volta a stabilire un dialogo tra i vari contributi, identificare tracce e temi comuni, e ricollegarli in maniera più convincente al concetto di cultura popolare che si intende esplorare.

Infatti, nell’introduzione si legge: “se in Italia il termine pop viene utilizzato per descrivere un’espressione culturale artistica commerciale, qui va invece inteso secondo due accezioni della parola italiana popolare: famoso e distante dalla cultura formale e d’élite. Il termine pop descriverà quindi i movimenti culturali nati dal basso, che dileggiano e contrastano la cultura ufficiale e di regime, e che anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione e alla cassa di risonanza delle rivoluzioni, sono riusciti a raggiungere un buon successo localmente e spesso anche al di fuori dei confini nazionali.” (p. 11).

Eppure, non tutti i capitoli sembrano esplicitare il rapporto tra le opere analizzate e le due accezioni di pop qui citate. Il capitolo della Cornet fa riferimento al pop come a un’estetica ben precisa, quella dell’arte pop degli anni ‘50, e individua le sue tracce nelle arti visive arabe contemporanee; inoltre, l’autrice coglie la popolarità di questi artisti nel numero di followers dei loro profili digitali; anche la Fischione analizza il rap, la trap e l´hip-hop come sotto-generi della musica pop, quindi, di nuovo, come parte di un genere o un’estetica definita; eppure, come lei stessa ammette, il capitolo tralascia il genere musicale che è forse il più “pop-olare” in assoluto in Egitto e nel mondo arabo, ovvero i mahraganat; Gabai nota che il fumetto non è popolare , nel senso di famoso, in quanto viene prodotto e fruito in circoli alternativi e ristretti ma è decisamente in opposizione alla cultura di regime; la Moresi mette in luce la popolarità della poesia nella cultura araba, capace di riempire stadi, mobilitare popoli in rivolta e diventare oggetto di competizioni televisive, ma decide di dedicare il suo studio a poeti che sono spesso voci marginali, come Maazen Maarouf e Youssef Rakha.

A tal punto viene da chiedersi; cosa è che rende popolari i romanzi menzionati da Chiara Comito nel capitolo sul romanzo? Sono forse i premi letterari e le fiere del libro? Quanto si discostano questi dalla cultura d’élite, considerato che sono finanziati essi stessi da governi e istituzioni? Cosa invece rende pop i documentari arabi o le performance teatrali, che spesso circolano principalmente tra i festival culturali europei? Queste sono questioni affascinanti, che tuttavia restano aperte nel volume, e andrebbero esplorate più a fondo. In sostanza, il concetto di “Arabpop” appare promettente e accattivante, e ha un forte potenziale teorico, che tuttavia il libro manca di esplorare appieno. Tale mancanza può essere dovuta al fatto che, come le redattrici puntualizzano nell’introduzione, il volume “non intende essere una ricerca per gli addetti ai lavori ma per un pubblico italiano più ampio, un libro che incuriosisca i lettori italiani”.

In questo senso, il volume compie un egregio lavoro. I capitoli sono scritti in maniera fluida e accessibile a un pubblico non specializzato; sono corredati di immagini belle e significative; focalizzando l’attenzione del lettore su arte e letteratura, il volume è capace di raccontare le rivolte e i cambiamenti subiti dalle società arabe in maniera efficace.

Il volume potrebbe essere anche utilizzato per scopi didattici o di studio, se abbinato a testi accademici volti a contestualizzare e problematizzare le questioni descritte nel volume, e inserire il discorso sul pop arabo in un dibattito più ampio che tenga in considerazione anche nozioni endemiche di pop (penso a termini arabi come sha‘bi, baladi, o thaqafat al-gamahir, ovvero cultura di massa)2.

Il momento del romanzo arabo

Infatti, mentre alcuni capitoli abbinano la descrizione dei materiali empirici con riflessioni teoriche e storiche, altri contributi sono caratterizzati da un approccio prevalentemente descrittivo, e nel tentativo di includere quanti più paesi ed esempi possibili, a volte finiscono per limitarsi a fornire una carrellata di titoli e trame. Ad esempio, nel primo capitolo, la Comito esplora la questione: “È il momento del romanzo arabo”, una domanda/affermazione che l’autrice attribuisce allo scrittore libanese Jabbour Douaihy incontrato ad Abu Dhabi nel 2016, e che tuttavia echeggia il titolo del famoso saggio Zaman al-Riwaya (L’Epoca del Romanzo) del critico egiziano Gaber Asfour, pubblicato nel 1999.

Una lettura di Arabpop in congiunzione con Modernità Arabe (monografia, anch’essa in italiano, pubblicata da Casini, Paniconi e Sorbera nel 2013) metterebbe in luce come in realtà il momento del romanzo è già in atto nei primi decenni nel XX secolo, quando emerge come l’arte per eccellenza atta a raccontare la società egiziana moderna e l’idea di nazione; e che già nel 1945 è il premio Nobel Naguib Mahfuz, sulle pagine della rivista al-Risalah, ad eleggere il romanzo come la forma artistica più adatta a raccontare i tempi moderni.

La stessa questione viene posta da Jacquemond nel suo libro Coscience of the Nation (2008, versione aggiornata dell’edizione originale francese Entre scribes et écrivains del 2003), in seguito al successo dei romanzi Palazzo Yacoubian di Alaa Aswani (2004) e Ragazze di Ryad (Rajaa al-Sanea, 2007), segno che l’anima pop del romanzo arabo non fuoriesce con la primavera araba.

Tuttavia, i titoli menzionati dalla Comito dimostrano come le rivolte arabe abbiano contribuito ad arricchire il romanzo arabo di linguaggi ed estetiche presi in prestito da altre arti, come il fumetto, il memoir, il fantasy etc., facendo sì che esso diventi sempre più incline alle logiche di mercato e dei premi letterari.

In ogni caso, il volume offre una vivida fotografia della scena culturale araba degli ultimi anni, e, conscio di essere un work in progress, rappresenta un’iniziativa editoriale encomiabile, che si spera apra la strada ad altri studi simili.

1Si pensi al 2004-2005 in Egitto con il ritorno alle manifestazioni di piazza, l’uso dei blog come forum di espressione, e la risonanza dei best-seller letterari

2Si veda a tal proposito il contributo di F. Langrange in Culture pop en Égypte: entre mainstream commercial et contestation, a cura di Frédéric Lagrange e Richard Jacquemond, Editore Riveneuve, 2020, pp. 7-48