Poesia

Mustafa Ibrahim, il poeta malinconico della rivoluzione egiziana

In occasione dell’anniversario della Rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011, pubblichiamo una conversazione con Mustafa Ibrahim, una delle principali voci della rivoluzione e autore di un’opera poetica in cui lo slancio vitale si mescola al dolore. Con El-Zaman (“Il Tempo”), Ibrahim ha ricevuto il premio per la miglior raccolta di poesia dialettale araba. Tra i tanti temi trattati, il poeta parla anche delle ferite della sua generazione.

“La rivoluzione è arte”, Il Cairo, piazza Tahrir, aprile 2012.
Gigi Ibrahim, album Egypt Graffiti: Street Art/Flickr

Nell’ultima raccolta in arabo egiziano El-Zaman (“Il Tempo”)1 di Mustafa Ibrahim, considerato “il poeta della rivoluzione” del 25 gennaio 2011, c’è un continuo oscillare tra speranza e disillusione. Dopo aver sofferto di un blocco dello scrittore dal 2014 al 2017, il poeta ha avuto bisogno di un po’ di tempo per “fare un bilancio e rimettere insieme tutti i pezzi”.


È la voce della sconfitta o della ragione,
quella che mi sussurra all’orecchio,
lentamente, senza fiato?
Non dobbiamo per forza cambiare le nostre vite,
una piccola parte sarebbe già sufficiente,
o solo quel pochissimo dentro di noi

scrive nella raccolta pubblicata nel febbraio 2020, che gli è valso nel dicembre dello stesso anno il premio “Ahmed Fouad Negm” per la poesia dialettale araba. Negm, diventato un’icona per le sue poesie rivoluzionarie e le sue critiche feroci al regime egiziano, formò una coppia artistica con l’amico Sheikh Imam, compositore e cantante non vedente, anch’egli politicamente schierato accanto ai poveri e a chi non ha voce.

Nel corso degli anni, Mustafa Ibrahim ha imparato a fare i conti con la realtà e a frenare gli entusiasmi: “Non voglio che la sconfitta sia l’emblema della mia generazione e della rivoluzione. La vita ci mette di fronte ad una realtà che non siamo in grado di governare; saperla accettare è un segno di maturità. Siamo almeno arrivati a rompere con la stagnazione dell’epoca di Mubarak. Oggi, la vita politica è completamente bloccata, le libertà violate, ma almeno c’è stato qualche cambiamento. Alcuni sono stati profondamente segnati da quegli avvenimenti” sottolinea il poeta, nato al Cairo nel 1986 e che appartiene alla generazione delle donne e degli uomini che hanno fatto la rivoluzione. E aggiunge:

Una rivoluzione non è segnata da una cesura netta come una guerra. Per molti anni ci siamo chiesti: abbiamo vinto o abbiamo perso? Le generazioni più giovani ci chiederanno conto di quello che è successo, e la mia generazione sarà messa con le spalle al muro senza avere una risposta definitiva, perché l’esperienza rivoluzionaria non si è interamente compiuta. Quel periodo ci ha sfiniti, abbiamo brancolato nel buio. Non riuscivo neanche più a scrivere. L’essere considerato il poeta della rivoluzione mi faceva sentire troppo sotto pressione. Mi chiedevo: potrò mai scrivere su qualcos’altro? E su che cosa?

Nella sua raccolta, Ibrahim lascia intravedere uno spiraglio:


È tempo di separarci, di godere della vita,
uscire dal labirinto, ognuno a modo suo,
che si moltiplichino le nostre possibilità,
che i nostri nomi non siano più insieme, ma dispersi,
senza per questo dirci addio,
nella speranza di incontrarci per caso, di nuovo,
di tornare a sognare in grande.

“Le vecchie canzoni saranno le nostre”

Mustafa Ibrahim ha ripreso gradualmente a scrivere nel 2017, senza capire davvero cosa bloccasse la sua scrittura. Ha impiegato tre anni a raccogliere trentatré poesie che fossero in grado di riassumere l’esperienza della sua generazione. “Oggi siamo ancora giovani, domani parleremo come i nostri genitori. Le vecchie canzoni saranno le nostre, ci faranno ricordare di quando eravamo giovani, dei nostri canti. Ci racconteremo che la vita era più bella e la gente più gentile” sottolinea in una poesia dal titolo Zay ahalina (“Come i nostri genitori”).

Quella sorta di limbo in cui si trovava la generazione rivoluzionaria del 2011 è stato il motivo delle delusioni che sono arrivate dopo. “Siamo stati educati secondo la cultura e la morale degli anni Sessanta, o almeno di ciò che restava degli ideali di sinistra: ci hanno inculcato che i soldi non facevano la felicità, guardavamo gli stessi programmi televisivi, gli stessi fumetti…”, racconta ancora Mustafa Ibrahim. “Poi il nostro mondo ha cominciato a vacillare e i nostri idoli hanno cambiato rotta, anche se quello che avevano scritto aveva alimentato i nostri sogni. Quelli nati dopo di noi, hanno i piedi per terra, hanno meno illusioni e s’adattano prima al nuovo ordine mondiale e al neoliberismo. Io resto molto legato ai miei compagni, con cui ho condiviso l’esperienza sconvolgente della rivoluzione e che hanno visto gli ultimi dieci anni scivolare via tra le dita”.

Già nella seconda raccolta El Manifesto (“Il Manifesto”) del 2013, Mustafa dava una rappresentazione fedele di quei forti momenti collettivi: “Fratelli miei nati negli anni ’80, viaggiare con voi è bello, ma spaventa”. Ha scritto la cronaca della rivoluzione fallita, immaginando “un’arca di Noè” che avrebbe permesso al paese di sopravvivere al diluvio e di liberarsi dal giogo dei “generali”. In El-Zaman, continua a descrivere gli scontri tra i manifestanti e i controrivoluzionari, con l’ansia di essere testimone. Però con un tono più malinconico: “Niente in quest’universo lascia immaginare che io sia libero, quanto quei pochi istanti in cui lascio libero sfogo alle idee, seguendo l’ispirazione”, come scrive in El-Choroud (“Divagazione”).

Ogni volta che vuole isolarsi, si ritira nel suo appartamento sulle colline del Mokattam (a sud del Cairo) per lavorare il legno e costruire mobili. Il poeta ha in serbo anche il progetto di un dizionario di arabo dialettale egiziano, avviato già da qualche anno con un’équipe su iniziativa dell’Istituto francese d’archeologia orientale (IFAO). Questo gli permette d’immergersi completamente nei meandri di una lingua che ama così tanto. “Mi diverto a tradurre in arabo dialettale egiziano dei testi di poeti colombiani come Il Dio che adora di Rául Gómez Jattin2, e Notturno di José Asunción Silva3, che presto registrerò sulla piattaforma SoundCloud4. Sto preparando anche una serie di articoli su teorie ed enigmi scientifici, sulle orme del fisico italiano Carlo Rovelli, con il suo Sette lezioni di fisica5. Non so ancora se sarà in dialetto o in arabo classico”, precisa il poeta che ha completato la sua formazione da ingegnere all’università del Cairo.

“Un hippie dall’animo ribelle”

Seduto su un divano rivestito in tessuto blu da lui stesso realizzato, dà libero sfogo ai pensieri:

“Molti giovani hanno scelto di scrivere versi in lingua vernacolare all’indomani della rivoluzione, perché è una lingua più vicina al popolo e alla sua cultura. Non sappiamo ancora cosa diventerà la poesia nell’era digitale, dove tutto si trasforma in contenuti creati secondo i format delle piattaforme digitali. Tutti i grandi poeti in lingua dialettale come Fouad Haddad, Salah Jahin, Ahmed Fouad Negm, Abdel Rahman el-Abnudi e Sayed Higab6 che si sono battuti tutta la vita per la libertà e la patria, oggi non ci sono più. I loro testi sono stati la scintilla della rivoluzione. Negm, che ha dovuto scontare più di 18 anni rinchiuso in un carcere, doveva essere molto felice quando la folla in piazza Tahir ha intonato le sue canzoni, scritte molti anni prima. Ai miei occhi, lui era una specie di hippie dall’animo ribelle e il suo spirito di rivolta ci travolgeva”.

Mustafa l’aveva incontrato a più riprese nei locali della vecchia casa editrice Merit7, in via Qasr el-Nil. Questo appartamento nel centro storico cairota è stato uno dei focolai della rivoluzione per il poeta trentenne. È lì che si intratteneva tutti i giorni con degli amici ed è lì che ha tenuto il reading della sua primissima raccolta autopubblicata, Western Union, proprio come la famosa azienda americana, specializzata nel trasferimento internazionale di denaro. “Per uno strano scherzo del calendario, la presentazione del libro si è tenuta il giorno prima della rivoluzione! Ho trovato che il titolo fosse molto azzeccato, e che esprimesse molto bene anche quel periodo della mia vita, dove tutto girava intorno alla somma che mio padre mi inviava tutti i mesi dagli Stati Uniti. Aveva abbandonato me e mia madre quando avevo due anni, e solo una decina d’anni più tardi, abbiamo scoperto che era emigrato lì e si era rifatto una vita. L’ho raggiunto quando ho finito gli studi, ed ho anche ottenuto la famosa Green card, ma non riuscivo a sopportare lo stile di vita americano e sono tornato in Egitto nel giro di un anno”, racconta Mustafa Ibrahim.

Il centro della città per lui ha perduto gran parte del suo fascino dopo il trasloco e la chiusura della casa editrice, oltre alla scomparsa nel 2017 del suo amico più caro, lo scultore Bakr El-Galass. Il suo appartamento, sempre in centro, era una fucina di talenti, dove si ritrovavano quasi tutti i giovani artisti nati con la rivoluzione. Proprio a lui Ibrahim ha dedicato la sua raccolta premiata.


Mi dico sottovoce:
ha appena finito di traslocare o ha lasciato casa.
Amico mio, non è una fine, forse è l’inizio.
Non c’è niente che possa sconfiggerti ora,
nulla potrà farti del male, dopo la morte.
Non ci sono più paure per il domani,
né per il passare del tempo.
Nessuna voce ora può più disturbarti.

Per Mustafa Ibrahim, “la morte in definitiva non è che una finestra”.

1Uscito per le edizioni El-Karma, Il Cairo, 2020

2Nato nel 1945 a Cartagena de Indias, in Colombia, e morto nella stessa città nel 1997 [NdT].

3Nato nel 1865 a Bogotà e morto nella stessa città nel 1896, è considerato uno dei precursori del modernismo. Si è suicidato prima di compiere 31 anni [NdT].

5Un bestseller mondiale apparso in Italia nel 2014. È stato tradotto in 24 lingue.

6Alcuni dei grandi interpreti della poesia dialettale egiziana, nata nella prima metà del XX secolo. Sono stati tutti intellettuali di sinistra.

7Casa editrice fondata nel 1998 nel centro del Cairo da Mohamed Hachem, un intellettuale di sinistra che ha pubblicato giovani autori e pamphlet.