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Palestina. Un popolo che non vuole morire

L’offensiva israeliana a Gaza dopo il 7 ottobre ha mostrato più che mai la totale impunità di Israele, con il sostegno incondizionato a Tel Aviv della maggior parte delle potenze occidentali. Una narrazione della guerra secondo la retorica dello scontro di civiltà contro i “barbari”, a cui risponde il direttore di OrientXXI Alain Gresh con il suo ultimo libro Palestina. Un popolo che non vuole morire, uscito giovedì 2 maggio.

Nell'immagine si vede un giovane che si sta arrampicando su una roccia, con una città sullo sfondo. La città è composta da edifici di diversi piani, molti dei quali di colore chiaro. L'area è circondata da colline verdi e il cielo è parzialmente nuvoloso, suggerendo un clima variabile. Si possono notare anche alcune strutture agricole e aree di terreno aperto in primo piano.
13 gennaio 2024. Giovani palestinesi lanciano pietre contro le forze israeliane durante un raid nel campo di Al-Faraa, vicino alla città di Turbas, nella Cisgiordania occupata.
JAAFAR ASHTIYEH/AFP

La paura diventa un pericolo per coloro che la provano; perciò, non bisogna lasciarle giocare il ruolo di sentimento dominante. È anche la principale giustificazione dei comportamenti spesso definiti “disumani”. […] La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari. E il male che faremo sarà maggiore di quello che temevamo di subire1.

Questa guerra ci ha confermato che questo mondo non ci vede come uguali. Forse è il colore della nostra pelle. Forse è perché siamo nella parte sbagliata di un’equazione politica. Si dice che se è necessario uccidere 100 palestinesi per prendere un solo “militante di Hamas”, così sia. Se ai loro occhi non siamo umani, agli occhi di Dio nessuno può dire lo stesso. L’ipocrisia e il razzismo del mondo occidentale è trasparente e spaventosa. Prendono le parole dei palestinesi sempre con sospetto

Nella sua omelia di Natale potente e dolorosa, il reverendo Munther Isaac, pastore della Chiesa luterana di Betlemme, si rivolgeva a coloro “che ci mandano bombe, mentre celebrano il Natale nella loro terra”. Un sermone che ha suonato come una maledizione. Tre mesi dopo, gli Stati Uniti, dopo l’invio incessante di armi e bombe per radere al suolo Gaza, hanno preso la decisione di paracadutare aiuti alimentari a chi è vittima di quelle stesse bombe e di quei proiettili. Allo stesso tempo, per riprendere un mantra del presidente francese Macron, una vignetta mostrava dei missili e delle baguette cadere nell’enclave a dimostrazione dell’ipocrisia occidentale.

La guerra a Gaza ha messo a nudo il doppio volto dell’Occidente, da una parte a sostegno della pace, dei diritti umani e dell’universalismo; dall’altra a favore dei massacri, del genocidio e del razzismo.

“Ai nostri amici europei dico” - queste le parole del reverendo Munther Isaac a conclusione del sermone - “non voglio mai più, mai più che nessuno di voi ci dia lezioni sui diritti umani o sul diritto internazionale. Mai più. Non siamo bianchi, e immagino che il diritto, secondo la vostra logica, per noi non valga. All’ombra dell’impero hanno scambiato il colonizzatore per vittima e il colonizzato per aggressore”.

“L’agonia di una certa idea dell’Europa e dell’Occidente”

Anche il premier malese Anwar Ibrahim si è espresso con le stesse parole, nel corso di una conferenza stampa congiunta l’11 marzo 2024, in risposta al discorso rassicurante del cancelliere tedesco Olaf Scholz, a capo di un governo che sostiene senza riserve la politica israeliana, criminalizzando la solidarietà con la Palestina:

Non è possibile trovare una soluzione se si resta così unilaterali, focalizzandosi solo su un aspetto e cancellando sessant’anni di atrocità. La soluzione non consiste solo nel liberare gli ostaggi. E le colonie? Che dire dei quotidiani e continui attacchi dei coloni? E dell’espropriazione (dei palestinesi)? La loro terra, i loro diritti, la loro dignità, i loro uomini, le loro donne, i loro figli? È un problema che non ci riguarda? Dov’è finita la nostra umanità? Perché questa ipocrisia?

E non sarà l’astensione di Washington sul voto di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite alla richiesta di un cessate il fuoco di due settimane il 25 marzo a cambiare le carte in tavola, almeno fino a quando continueranno a inviare armi a Israele per distruggere Gaza.

Al di là delle sofferenze umane – che, dal 7 ottobre, sono incommensurabili – e delle distruzioni, Gaza ha assunto l’aspetto di un paesaggio lunare. Al di là dei conflitti che si estendono dal Libano al Mar Rosso, è proprio una certa idea dell’Europa e dell’Occidente ad essere in agonia. Già la guerra in Ucraina aveva mostrato la distanza tra il Nord e il resto del mondo, non convinto in un impegno a favore di Kiev portato avanti in nome del “diritto internazionale” da parte di chi il diritto lo viola quando gli fa comodo. Gaza rappresenta un punto di svolta tragico in questa lunga discesa all’inferno dove l’unica cosa che conta è la ragione del più forte.

In una serie di considerazioni allarmate postate su X (ex-Twitter) nel febbraio 2024, Peter Harling, direttore di Synaps, un centro di ricerca innovativo sul Mediterraneo con sede a Beirut, che lavora in Medio Oriente da quasi trent’anni, si dice preoccupato per

la pericolosa e sempre più profonda frattura tra l’Europa e il mondo arabo. Perché questa è più profonda e pericolosa rispetto alle nostre altre dispute secolari? Perché si tratta di una totale mancanza di comunicazione. In passato, le nostre narrazioni si sono spesso scontrate, ma all’interno di un contesto in gran parte condiviso. Gaza sta creando una situazione in cui le differenze non sono solo profonde, ma incomunicabili. […] Non si tratta di un nuovo ciclo: questa volta, la maggior parte degli Stati europei ha scelto di sostenere, apertamente o indirettamente, un genocidio nel Mediterraneo. (...) A vacillare è l’idea che l’Europa rappresenti valori e diritti universali.

“I “barbari” palestinesi

Da osservatore che si occupa da cinquant’anni degli avvenimenti in una regione così vicina al Vecchio Continente – dal punto di vista geografico, ma anche umano – a cui siamo legati da una lunga storia, compresi i suoi lati oscuri, non posso far altro che prendere amaramente atto di questo distacco. Ne sono socienti i leader europei - proprio loro che sono arrivati a sanzionare le Ong del Sud che denunciano l’aggressione israeliana, delle Ong dirette da “nostri amici”, gli arabi democratici, elementi di spicco delle primavere arabe, che difendono valori in cui ci riconosciamo, sempre più a torto? L’Europa si mobilita contro l’antisemitismo, ma chiude un occhio sull’islamofobia, convenendo con le posizioni dell’estrema destra che, per il suo sostegno a Tel Aviv, è stata assolta dalla sua costante giudeofobia. Ovunque in Europa, stiamo assistendo a una violenta campagna contro i “barbari” palestinesi, dove i musulmani vengono accusati di “separatismo” o di essere presunti complici dei terroristi. Lontana dagli ideali universalistici di cui si ammanta, l’Europa sta accentuando divisioni e spaccature.

Al momento, in Europa non c’è alcun dibattito serio su questa frattura sempre più profonda, né da parte dei politici, né degli intellettuali, né dei media. Dopo l’11 settembre, ci siamo rinchiusi in una visione angosciante del mondo fondata sulla paura dei “barbari” e che, come aveva predetto Tzvetan Todorov, ci sta facendo diventare barbari. Vediamo come unico scenario futuro una guerra tra l’Occidente e il “resto del mondo”, una “guerra dei mondi” basata sull’idea arrogante di essere gli unici rappresentanti della “civiltà” con la possibilità di aggirare il diritto internazionale per combattere il “Male”.

Nel 2003, avevo chiuso il mio libro Israele-Palestina. Le verità su un conflitto con un racconto biblico della storia di Sansone, uno degli eroi della lotta del popolo ebraico contro i Filistei. Sansone viene fatto prigioniero dai suoi nemici che gli cavano gli occhi e lo conducono a Gaza. Un giorno, i Filistei se lo fanno portare per divertirsi con lui:

Sansone toccò le due colonne di mezzo sulle quali posava la casa: si appoggiò ad esse, all’una con la destra, all’altra con la sinistra. Sansone disse: “Che io muoia insieme con i Filistei!”. Si curvò con tutta la forza e la casa rovinò addosso ai capi e a tutto il popolo che vi era dentro. Furono più i morti che egli causò con la sua morte di quanti ne aveva uccisi in vita.2

Già allora temevo che il perdurare dell’occupazione avrebbe trascinato palestinesi e israeliani verso un abisso. I miei timori sono stati confermati oltre ogni immaginazione.

Trent’anni dopo, il crollo del tempio rischia di travolgerci tutti, sia al Sud che al Nord. Come abbiamo cercato di dimostrare, a Gaza è in gioco il futuro delle relazioni internazionali. In questo momento si profilano all’orizzonte due strade. La prima è quella di una guerra infinita regolata dalla legge della giungla, una guerra di tutti contro tutti, dove vari governi coinvolti vogliono far valere i propri interessi, da Mosca a Washington, da Nuova Delhi a Brasilia, da Parigi a Città del Messico. La seconda è quella di rifondare l’ordine internazionale sulla base del diritto, come suggerito dalle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) su Gaza, che di certo è una via stretta, ma è anche l’unica in grado di evitare l’apocalisse. In altre epoche, il generale de Gaulle di fronte all’aggressione israeliana nel giugno 1967, Jacques Chirac e Dominique de Villepin quando gli Stati Uniti si preparavano a invadere l’Iraq nel 2003, avevano saputo trovare le parole giuste per difendere il diritto internazionale, esprimendo un forte dissenso contro la guerra con un’eco vastissima in tutto il mondo, al Nord come al Sud. È deplorevole che oggi, tra dichiarazioni e silenzi, iniziative e inerzia, l’Europa sia complice di un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

1Tzvetan Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, trad. it. Emanuela Lana, Garzanti, Milano 2009.

2Alain Gresh, Israele-Palestina. Le verità su un conflitto, trad. it. di Monica Guerra, Einaudi, Torino, p. 113.