Letteratura

Questione algerina. Sfatare il mito di Camus

A più di 63 anni dalla morte, il nome di Camus viene costantemente evocato nell’ambito delle commemorazioni legate alla colonizzazione francese in Algeria per sostenere l’idea di una “posizione intermedia” tra l’OAS e il Fronte di liberazione nazionale algerino (FNL). Nel dibattito che continua a suscitare l’autore, però non c’è mai alcun accenno al suo ultimo romanzo (incompiuto) Il primo uomo. Eppure, il manoscritto ritrovato esprime una concezione mitica della conquista coloniale, che ricade in un immaginario reazionario.

L'immagine ritrae un uomo in primo piano che legge un giornale, con una sigaretta tra le labbra. Indossa un soprabito chiaro e sembra assorto nella lettura. Sullo sfondo, si possono vedere altre persone che camminano per strada, in un contesto urbano. L'atmosfera è retro e richiama un'epoca passata, con un'illuminazione naturale e dettagli architettonici tipici di quel periodo.
Albert Camus, 1953
STF/AFP

Sono pochi gli scrittori francesi, soprattutto del XX secolo, che oggi possono vantare la fama postuma di Albert Camus, diventato a partire dagli 1990 – dopo la caduta del blocco comunista e la costruzione di uno spazio europeo – uno scrittore “universalista”. In un’epoca in cui parlare di “estremismi” può risultare addirittura politicamente scorretto, va sottolineata la lucidità visionaria dell’autore de L’uomo in rivolta che, già all’epoca, metteva sullo stesso piano nazismo e stalinismo come due forme di terrorismo di Stato. La figura di Camus rappresenta oggi il consenso unanime nella liberal-democrazia, la “giusta misura” di una morale centrista capace di stabilire un’equivalenza tra la violenza del colonizzatore e quella del colonizzato, riproponendo la famosa querelle tra Sartre e Camus dove il primo ne esce inesorabilmente perdente. A dire il vero, lo scrittore algerino che, alla domanda se fosse di sinistra, aveva risposto “sì, sono di sinistra malgrado lei e malgrado me”, è stato da allora recuperato da una destra radicale, persino reazionaria, con la proposta dell’ex presidente Sarkozy nel 2009 di trasferirne le spoglie al Pantheon, o la fantasiosa (e piena zeppa di errori) biografia scritta dal filosofo Michel Onfray1.

Se molti testi di Camus non hanno perso nulla della loro bellezza o potenza, se alcune citazioni rientrano in quelle che vengono chiamate punch lines2 (“Dare un nome sbagliato alle cose contribuisce all’infelicità del mondo”; “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”; “Il fascino è l’arte di farsi dir di sì senza aver posto alcuna domanda esplicita”), c’è però un tema che si ripresenta ciclicamente: quello della posizione dell’autore sulla questione algerina. Da una parte c’è chi difende Camus da gravi incomprensioni, difendendo la complessità di un uomo tormentato che “aveva male all’Algeria, come si ha male ai polmoni”, come scrive nei Taccuini3. I difensori sono sempre pronti a scomodare i testi giovanili come la serie di reportage per il quotidiano Alger républicain “Miseria della Cabilia” (1939), il racconto L’ospite incluso nella raccolta L’esilio e il regno (1957) o le sue domande di grazia in favore degli algerini condannati a morte per terrorismo, soprattutto per le richieste dell’antropologa Germaine Tillion. Mentre al contrario, va certamente ricordato l’omicidio dell’arabo ne Lo straniero o la citazione “Io credo nella giustizia ma difenderei mia madre prima della giustizia” – un’interpretazione estrapolata da ogni contesto, secondo la tesi dell’altra parte.

Ma in entrambi i casi, non c’è alcun accenno ai due testi a cui stava lavorando Camus in piena guerra di liberazione: le Cronache algerine (Actuelles III) pubblicate nel 1958, e il suo ultimo romanzo, Il primo uomo, rimasto incompiuto per la morte prematura dell’autore in un incidente d’auto il 4 gennaio 1960, pubblicato postumo nel 1994.

Poveri e senza risentimenti

Nelle due opere, l’intenzione dello scrittore, fresco di Nobel (1957), era quella di rompere il silenzio sulla questione algerina, su cui non si era ancora espresso pubblicamente dal 1956. In entrambi i libri c’è l’idea di riportare una certa “verità”, scegliendo “la sola testimonianza personale, con tutte le precauzioni indispensabili”, secondo quanto scrive Camus nella prefazione alle Cronache, dove condanna “con la stessa forza e senza riserve” le torture esercitate dall’esercito francese in Algeria e il terrorismo contro i civili francesi. Agnès Spiquel dirà in merito alla scelta del titolo del libro che quel “plurale lascia intendere che i fatti possano parlare da soli limitandosi a registrarli”. Testimoniare, dunque, per raccontare il suo rapporto con “uomini e donne col suo stesso sangue”.

Tormentato dai dubbi di fronte alla complessità e alla gravità della situazione, Camus ritorna ne Il primo uomo alla sua infanzia, agli anni vissuti in Algeria in una famiglia di cui viene descritta più l’appartenenza socio-economica che lo status di francesi algerini. Nelle Cronache, Camus scrive: “Ho riassunto qui la storia degli uomini della mia famiglia che erano, per di più, essendo poveri e senza risentimenti, non hanno mai sfruttato né oppresso nessuno4. E aggiunge che “i tre quarti dei francesi d’Algeria sono come loro”. Nelle pagine di questo racconto personale si percepisce la grande Storia. La nuova edizione nel 1958 dei suoi primi saggi dal titolo “Il rovescio e il diritto”, con una nuova prefazione, non fa che rafforzare la sua volontà di essere testimone: “Ecco la mia famiglia, i miei maestri, ecco da dove vengo”.

Nel “regno di miseria” della sua infanzia espresso da Camus ne Il primo uomo attraverso il ritratto della famiglia del suo alter ego Jacques Cormery, tutto appare sotto il segno della parsimonia e dove i beni materiali sono l’espressione dei sentimenti. Siamo ben lontani dall’infanzia borghese del Jean-Paul Sartre de Le parole, con una madre che ha difficoltà a pronunciare anche la parola “biblioteca”. Ma non ci si lasci ingannare: certo si parla di un’infanzia povera, ma pur sempre felice, e soprattutto dignitosa, all’insegna di un ascetismo improntato a una “povertà nuda come la morte”. Qui per l’autore il ricordo della madre sembra voler espiare la colpa di chi ha frequentato la borghesia intellettuale di Saint-Germain-des-Prés: “Jacques, fin dove si spingevano i suoi ricordi, l’aveva sempre vista stirare l’unico paio di pantaloni di suo fratello e i suoi, prima di partire e di entrare nel mondo delle donne che non lavano e non stirano”.

Ne ritroviamo un’eco anche nelle Cronache dove Camus trasforma il conflitto politico che lo contrappone agli intellettuali francesi che sostengono l’indipendenza algerina in una questione di classe sociale: “Bisogna richiamare alla decenza una certa opinione metropolitana, che insiste nell’odio nei loro confronti [verso i francesi d’Algeria]”5. Il libro, rivolto polemicamente a Sartre, rappresenta una duplice atto d’accusa sia a chi riduce la realtà algerina a considerazioni teoriche sulla politica e sulla giustizia, sia al “sostenitore francese del FLN” che intrepreta in maniera caricaturale i francesi d’Algeria, “rei di essere complici e beneficiari di un sistema che opprime e sfrutta la popolazione locale”. Camus contrappone “agli articoli scritti disinvoltamente in una comoda redazione” alla concretezza di un argomento autorevole. Un dipinto raffigurante una Natività quasi cristiana apre inoltre il suo romanzo autobiografico, con l’ambizione di presentare un manifesto cosmopolitismo e la possibilità di una vita pacifica tra le “due comunità d’Algeria”. Nell’immaginario dell’autore, la miseria diventa una patria dove tutte le strade convivono e convergono, pur restando separate.

Un mito biblico

Ed è proprio al mito che il libro ricorre a partire dal capitolo intitolato “Ricerca del padre”, dove Camus cerca di ricostruire gli eventi della vita di suo padre morto in guerra nel 1914 quando lo scrittore aveva appena un anno. Tuttavia, alla luce dei pochi documenti a sua disposizione, Camus può ricostruirla solo parzialmente: “Il resto bisognava immaginarlo”. La figura paterna è quindi in parte realistica e in parte romanzata, come una storia d’altri tempi che l’immaginazione finisce per trasformare in leggenda. Il compito era quello di dargli un volto e una voce, così come a tutta la sua famiglia e, di conseguenza, a tutta la sua comunità, risalendo alle ondate di coloni del 1848 e del 1871: “Strappare quella famiglia povera al destino dei poveri, quello di sparire dalla storia senza lasciare traccia. I Muti”.

Il suo doppio, Jacques Cormery, ritorna quindi in “pellegrinaggio” nella sua città natale, a Mondovì (Dréan). Oltre a dare un forte valore simbolico a quel viaggio, evocare il rito dà l’idea di una ripetizione, che configura il mito attraverso l’attualizzazione delle gesta ancestrali della fondazione. Così facendo, l’eroe ripete le gesta degli “emigranti” del 1848 che arrivarono per la prima volta su queste terre. “Lo stesso arrivo di notte in un luogo miserabile e ostile, gli stessi uomini”.

Nella piazza del paese, “i francesi [...] avevano tutti la stessa espressione cupa e proiettata verso il futuro, come quelli che un tempo erano arrivati qui col Labrador6, o quelli approdati altrove nelle stesse condizioni e con le stesse sofferenze”. L’arrivo della “pioggia algerina, enorme, violenta, inesauribile” che “era caduta per otto giorni” evoca il diluvio universale, e segna l’avvento di una nuova “razza” che ha già le sue piaghe e i suoi martiri, a causa di un’epidemia che provoca più di una decina di morti al giorno. Entrano in gioco dei gesti collettivi, come la danza tra due funerali, che assumono di volta in volta un valore simbolico.

A questo punto della storia, il proposito di Camus è chiaro: nella sua evocazione non c’è quasi traccia degli “arabi”, anche se lo scrittore fornisce un resoconto particolareggiato dei crimini contro i coloni. Certo, il personaggio del dottore è lì per ricordare vagamente che “li avevano chiusi nelle grotte con tutta la famiglia” e che “avevano tagliato i coglioni ai primi berberi”. Ma si tratta di atrocità prive di significato politico, fuori da ogni contesto storico e geografico, per essere solo una nuova rappresentazione di un mito ancestrale e biblico, quello del primo omicidio della Storia, il primo fratricidio, che si confonde nella massa anonima e banale degli omicidi che gli uomini si sono sempre inflitti: “E allora bisogna risalire al primo criminale, che si chiamava Caino: è da allora che c’è la guerra e gli uomini sono tremendi, specie sotto un sole feroce”, scrive citando Lo Straniero.

Una terra senza popolo per un popolo senza terra

Ci sono già tutte le premesse di una tale lettura nel capitolo che racconta il viaggio dalla metropoli ad Algeri di Cormery figlio per andare da sua madre. Anche qui, sposando il punto di vista di quest’ultima, la storia ignora completamente qualsiasi presenza arabo-berbera. Lo spazio algerino diventa oggetto di una lotta che vede contrapposti solo francesi e tedeschi, una lotta però iniziata nella Francia metropolitana e che continua in questa colonia francese. È una terra che accoglie reietti, mendicanti, emarginati, tutti quelli che non ha avuto fortuna da nessuna parte. Sul suolo algerino, che appare ancora incontaminato nelle pagine di Camus, arriva chi fugge dalla guerra e chi muore di fame.

In questa rappresentazione, l’Algeria orientale è una terra senza popolo, un paese “piatto, circondato da alture lontane, senza una casa, senza un pezzetto di terra coltivata, coperto soltanto da una manciata di tende militari color terra, nient’altro che uno spazio nudo e deserto [...]”. I suoi antenati sono venuti a occupare questa “Terra Promessa” che ricorda l’Eldorado americano, mentre c’è solo una vaga presenza di arabi “a distanza”, silenziosi e “ostili”, “a gruppi” come l’immagine della muta ululante dei cani cabili. Si pensi a Frantz Fanon che scrive ne I dannati della terra: “Il linguaggio del colono, quando parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico”7.

“Conquistatori” e “avventurieri” evocano l’immaginario del Far West americano o quello delle conquiste spagnole8. Come un tempo gli uomini di Hernán Cortés o Francisco Pizarro, anche i coloni in Algeria sono esposti a continui pericoli: epidemie, il mutare delle stagioni, oltre ad essere “assediati dai leoni con la criniera nera, dai ladri di bestiame, dalle bande arabe e, a volte, anche dalle razzie di altre colonie francesi, vogliose di distrazione o provviste”. Ma “sempre con intorno fucili e soldati”. È vero anche che il romanzo fa riferimento “alle terre degli insorti del ‘71, uccisi o imprigionati” date agli spagnoli di Port Mahon e agli alsaziani, ma è un riferimento generico all’insurrezione dei fratelli Mokrani nel marzo 1871, in Cabilia, dove quasi 500.000 ettari di terra furono a quell’epoca confiscati e assegnati ai coloni. Ma sono dei “persecutori perseguitati”, morti nelle tante battaglie che segnano la storia dell’umanità, e di cui non devono portare il peso della responsabilità.

L’epopea coloniale descritta ne Il primo uomo attualizza quell’ideale religioso, secolare o di redenzione, dove l’Altro è nella migliore delle ipotesi inferiore, nella peggiore non esiste. È così che nasce il mito di un popolo di conquistatori che non deve dar conto dell’impresa coloniale, “dove ognuno era il primo uomo”, aggiornando il mito dell’uomo povero e conquistatore suo malgrado, e che ad ogni generazione deve continuare a combattere da solo, “imparare da solo, crescere da solo, in forza e in potenza, trovare da solo la sua morale e la sua verità”. Perché non c’è trasmissione all’interno di quest’“etnia”, nessuna eredità o memoria tra chi non ha il diritto di parlare e che quindi non può trasmettere nulla. L’unica cosa che questa tribù ha lasciato in eredita è questa terra, che, per il suo valore simbolico, è avvolta da un’aura di sacralità. È la terra che dà senso a tutto, compresa la vita stessa dell’autore: “Perduta la mia terra, non varrei più nulla”9. Ed è anche attraverso questo legame comune con la terra che, secondo le parole del colono Veillard, francesi e “arabi” saranno costretti a convivere di nuovo insieme: “Continueremo ancora un po’ ad ammazzarci, a tagliarci i coglioni, a torturarci. Poi ricominceremo a vivere tra uomini. È il paese che lo vuole”. Ancora una volta, l’aspirazione di francesi e “arabi” sarebbe un futuro utopistico in cui vivere fraternamente grazie al miracolo della comune presenza geografica.

Un’epoca superata

Facendo ricorso a questa costruzione mitica per ripercorrere – o immaginare – la storia della sua famiglia, malgrado qualche esplicito riferimento a qualche data, Camus si astrae dal tempo storico per immergersi nel tempo sacro. Perché solo la temporalità del mito è in grado di trovare un posto a coloro che finora sono stati fuori dalla Storia senza alcuna consapevolezza del suo fluire. Così la madre di Cormery, “che non aveva la più pallida idea della storia o della geografia” e che non distingue la “guerra d’Algeria” da un catastrofe naturale:

La guerra era come una brutta nuvola, gravida di oscure minacce, ma non si poteva impedirle d’invadere il cielo, come non si potevano impedire l’arrivo delle cavallette o gli uragani devastatori che s’abbattevano sugli altipiani algerini.

L’universo di Cormery è quindi attraversato dalla Storia solo in una prospettiva di distruzione, simboleggiata dall’attentato che spazza via quell’atmosfera cordiale della domenica mattina dove francesi – paracadutisti compresi! – e “arabi” si ritrovano fianco a fianco.

È esattamente il rifiuto di Camus a riconoscere il corso della Storia ciò che Jean Sénac aveva criticato nel marzo 1956. Nella sua “Lettera a un giovane francese d’Algeria”10 pubblicata sulla rivista Esprit, Sénac11, che era amico di Camus, si oppone totalmente a quella rappresentazione, accusando il destinatario di “avere dei falsi miti”. Per il poeta, nato anch’egli in Algeria e che condivide con Camus le origini spagnole, la povertà non è solo un dato sociologico: è figlia della repressione coloniale, poiché il bambino che non ha di che mangiare è lo stesso a cui la polizia coloniale dà la caccia. Lontani dagli operai arabi della tenuta di Saint-Apôtre che, ne Il primo uomo, lamentano la partenza del loro capo francese per Marsiglia, quelli di cui parla Sénac hanno un sogno di “rivalsa”. E laddove Camus non smette mai di sognare la fraternità, Sénac gli parlerà di dignità: “La dignità, dovrai pur ammettere che tutti gli uomini ne hanno bisogno e che, se gliela tolgono, finiranno comunque per riconquistarla”. Nelle pagine di Sénac la parola “arabi” è sempre scritta tra virgolette. Ma soprattutto, il poeta rimprovera al suo destinatario una posizione che può essere definita solo come reazionaria e che dovrebbe essere estranea alla loro generazione: Sénac accenna anche “alle pretese egoistiche dei [loro] padri” per dire loro “che la patria algerina è già stata fondata”. L’anonimo destinatario della sua lettera, un francese d’Algeria che probabilmente è Camus, appare ai suoi occhi troppo attaccato a un’“epoca superata” e adotta un conservatorismo disperato: “Lo vedi da solo che la corda si sta spezzando, eppure continui a tirare lo stesso”.

Se da una parte Sénac condivide con il “teppista algerino”, come Sartre chiamava con scherzosa affettuosità Camus, l’attaccamento alla terra dov’è “nato, dove è cresciuto e si è realizzato”, dove ha anche “i [suoi] genitori e i [suoi] morti, i [suoi] ricordi e le [sue] speranze”, dall’altra il poeta oppone al mito dei pieds-noirs di Camus un’ambizione più vicina a quella dei pieds-rouges12: “Sono ancora convinto che, da vecchi occidentali, questa rivoluzione ci riguarda, che abbiamo un ruolo da svolgere in questa nazione e che anche noi abbiamo un certo numero di mattoni da apportare alla causa comune”.

1Michel Onfray, L’ordine libertario. Vita filosofica di Albert Camus, trad. it. di Michele Zaffarano, Milano, Ponte alle Grazie, 2013

2Il termine punchline viene dal rap e significa letteralmente “battute finali”. Solitamente vengono utilizzate per “colpire” in maniera teorica il proprio avversario, spesso e volentieri offendendolo o prendendolo in giro, e destando stupore nell’ascoltatore. [NdT].

3Albert Camus, Taccuini, trad. it. di Ettore Capriolo, Giunti, Firenze, 2018

4Albert Camus, Prefazione a Cronache algerine in Id.La rivolta libertaria, trad. it. di Guido Lagomarsino, Milano, Elèuthera, 1998, p. 146

5Albert Camus, Prefazione a Cronache algerine, op. cit., p. 145

6Nome della nave su cui erano sbarcati i coloni

7Franz Fanon, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 1962

8“L’Algeria coloniale è sotto certi aspetti un estremo sud”, Jeanyves Guérin, Albert Camus, littérature et politique

9Albert Camus, Taccuini, Milano, Bompiani, 2018

10Jean Sénac, Per una terra possibile, Oltre Edizioni, Sestri Levanti, 2019

11Jean Sénac, nato a Béni Saf, nella provincia di Orano, ebbe una lunga amicizia epistolare con Albert Camus, che durò dal 1947 al 1958. Dopo il suo ritorno in Algeria, verrà assassinato, in circostanze oscure, il 30 agosto 1973. [NdT].

12Il termine “pied-rouge” indica i francesi, di sinistra o di estrema sinistra, rimasti o giunti in Algeria dopo l’indipendenza per contribuire alla ricostruzione e allo sviluppo del paese. [NdT].