Serie tv

“Regina Cleopatra”, tra negrofobia e afrocentrismo

La docuserie Queen Cleopatra in onda su Netflix, prodotta dalla regista Tina Gharavi e dalla produttrice e voce narrante Jada Pinkett Smith, ha sollevato un polverone di critiche già all’uscita del trailer ufficiale per la scelta di far interpretare la regina d’Egitto a Adele James, attrice d’origine afroamericana. Dopo la messa in onda il 10 maggio, gli egiziani hanno intentato una causa contro Netflix per un’evidente mistificazione storica, scatenando una polemica dai toni razzisti. Dall’altra parte, c’è chi punta il dito contro una negrofobia ammantata da pretesti culturali.

La docu-fiction prodotta da Jada Pinkett Smith va contestualizzata nel movimento “Black Royalty” o “Black is King” (titolo di un musical prodotto da Beyoncé nel 2020). Al di là della presenza militante di alcune figure storiche, nella miniserie c’è la volontà di costruire una dignità nera dopo secoli di subalternità e umiliazione e di far comprendere la storia e la civiltà millenarie dell’Africa “nera”, soprattutto attraverso la messa in scena di una regalità nera. Gli aspetti della regalità sono una forma di utopia decoloniale – un re è l’opposto assoluto di uno schiavo – che permette di riappropriarsi di una storia decimata dal concetto di “bianchezza” coloniale.

È proprio l’eurocentrismo, basato sulla supremazia bianca, che ha inventato e rappresentato la storia dei popoli dominati, soprattutto per rendere “naturale” la sua egemonia e, di conseguenza, la subalternità dei colonizzati. Il colonialismo euro-americano non sarebbe potuto esistere senza l’invenzione della razza, così come la conseguente gerarchizzazione della razzia ha permesso di “rendere naturale” il dominio coloniale, che perdura ancora oggi, in un mondo dove la produzione di conoscenza resta prigioniera dell’eurocentrismo della Storia, nonostante questa concezione venga sempre più messa in discussione. L’inferiorizzazione della “blackness”, necessaria alla tratta transatlantica degli schiavi alla base dell’ascesa del capitalismo e delle economie del Nord del mondo, non ha generato solo il razzismo nella sua concezione classica, ma ha anche influito sul modo in cui ancora oggi viene rappresentata la cartografia del continente nero.

Una spartizione coloniale dell’Africa

L’Africa nella sua forma attuale è il prodotto di una tripartizione coloniale ideata dal filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel: la prima si riferisce a un’Africa “europea”, quella posta al nord del deserto; la seconda, alla regione fluviale del Nilo “che si congiunge con l’Asia” e la terza all’Africa “vera e propria”, quella che oggi chiamiamo sub-sahariana, ma che, in epoca coloniale, veniva chiamata semplicemente “Africa nera”. Per Hegel, l’Africa “è un mondo privo di storia, chiuso, che è ancora del tutto prigioniero nello spirito naturale”1. Una trasposizione quotidiana di questa cartografia radicalizzata del continente è la pratica di chiamare “africano” un sub-sahariano nel Nordafrica. Questa tendenza a non considerarsi africani e ad assimilare l’africanità al fatto di essere neri, alimenta la negrofobia arabo-africana. Anche la campagna lanciata in Egitto contro la serie tv si è in gran parte concentrata sulla “purezza” del DNA egiziano, molto diverso da quello “africano”. Così, un comunicato stampa del Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano del 27 aprile ha criticato i tratti “africani” di Cleopatra, che “aveva la pelle chiara, e non nera”, sostenendo l’assimilazione storica di qualsiasi “tratto straniero” agli egiziani. Il mito di una nazione (in termini etnici) omogenea, rafforzata dai processi nazionali post-indipendenza, è in linea con la negazione dell’africanità, un’identità tuttora considerata legata a un’Africa nera primitiva e ai margini della modernità.

Paradossalmente, la negrofobia in Nordafrica si basa sulla negazione di qualsiasi origine nera della regione, un rifiuto che riguarda in particolare la riscrittura della storia africana ad opera degli africanisti occidentali che hanno interiorizzato la tripartizione hegeliana del continente, operando un’analogia numerica tra la tratta transatlantica e quella transahariana, come Humphrey Fisher, Ralph Austen, John Hunwick e Philip Curtin. Secondo quest’interpretazione, i neri africani del Nordafrica possono essere senza dubbio considerati discendenti dagli schiavi che formano una sorta di “diaspora africana in Africa”. Per l’eminente studioso keniota Ali Mazrui, ritenere però che “nulla è africano se non è nero, significa ricadere nel sofisma dell’uomo bianco”2.

Alla luce di tali premesse, la teoria dell’afrocentrismo ha fatto di un Egitto “nero” il caposaldo della sua retorica. Nel mondo francofono, la teoria di un Egitto negro-africano, culla delle civiltà sub-sahariane, è stata elaborata dallo storico e antropologo senegalese Cheikh Anta Diop. Una teoria che rappresenta lo scollamento del continente africano all’indomani delle speranze suscitate dalle dichiarazioni d’indipendenza e dello spazio concesso a figure e teorie della liberazione radicale del Sud, in particolare con il soggiorno di alcuni intellettuali afroamericani al Cairo nei primi anni ‘60, e ad Algeri, divenuta la “Mecca rivoluzionaria” per un certo numero di movimenti radicali, incluse le Pantere Nere.

È inoltre la tesi di una “prossima riappropriazione” di un Nordafrica “colonizzato” che si pensava fosse soltanto delle “guerre culturali” (cultural wars) americane che nel febbraio-marzo 2023 hanno alimentato la psicosi contro i migranti sub-sahariani in Tunisia, strumentalizzata da un gruppo fascista appoggiato dal governo. Ovunque era possibile assistere a manifestazioni del razzismo più abietto, giustificato da un presunto piano di colonizzazione del Maghreb da parte dei migranti subsahariani.

Egemonia americana e post-colonialismo

In primo luogo, l’afrocentrismo va inteso come una reazione alla retorica coloniale secondo la quale l’Africa sub-sahariana è stato un continente privo di storia prima della sua colonizzazione europea, e che ogni traccia di civiltà sarebbe necessariamente importata dall’Oriente, dai berberi, dagli arabi o dall’Europa. Si tratta quindi di un movimento che mira a rovesciare un tale pregiudizio e a riscrivere la Storia dal punto di vista dell’Africa, che qui viene spesso confuso con il punto di vista afroamericano sull’Africa, poiché l’afrocentrismo nasce dalla riflessione di intellettuali afroamericani a partire dal contesto razziale americano.

Il nostro modo di pensare la razza, e quindi il razzismo, rimane intrinsecamente legato alla semantica e all’esperienza vissuta dagli afrodiscendenti nella tratta transatlantica degli schiavi. Dall’avvento degli studi postcoloniali e decoloniali, i ricercatori del Sud che si sono formati nelle università nordamericane come Hassan Mohamed, Ali Mazrui o più recentemente Abdelmajid Hannoum e Hisham Aïdi hanno messo in guardia contro una lettura “americanizzata” della tratta araba degli schiavi, e contro la divisione radicalizzata dell’Africa. Secondo la tesi di questi studiosi, il concetto di razza è da collocare nella modernità occidentale. Eppure, per quanto riguarda la “de-americanizzazione” della razza, la sfida è tutt’altro che vinta: in primo luogo perché la tratta transatlantica degli schiavi è stata determinante per l’espansione del capitalismo, del razzismo e dell’equiparazione della figura del “nero” a quella dello “schiavo”. In secondo luogo, perché gli afro-discendenti negli Stati Uniti hanno svolto un ruolo fondamentale per la nascita e la diffusione dell’ideologia panafricanista. E infine, perché gli Stati Uniti, grazie alla loro egemonia culturale sul mondo, fanno sì che concetti e dibattiti nati al loro interno vengono esportati in tutto il mondo, imponendoli soprattutto attraverso i mass media e la produzione accademica.

Le serie tv che promuovono la dignità nera dovrebbero essere incoraggiate e acclamate perché rappresentano una liberazione per le nostre soggettività postcoloniali e ci permettono di immaginarci oltre lo sguardo del colonizzatore. È bene però non perdere di vista la questione del potere. Una riappropriazione della Storia non deve avvenire a spese di un’altra comunità che condivide un comune destino di dominazione.

La serie Regina Cleopatra si apre con le parole di Shelley P. Haley, docente di studi africani: “Mia nonna è stata la mia fonte di ispirazione. Tornavo a casa e le raccontavo cosa stavo studiando. [...] “Oggi abbiamo studiato Cleopatra”. Ricordo come fosse ieri che mi disse: “Shelley, non importa cosa ti dicono a scuola, Cleopatra era nera”. Nel documentario non è solo Cleopatra a essere rappresentata come nera, ma tutto l’Egitto, richiamando l’immaginario di un Egitto, culla delle civiltà negro-africane. Una rappresentazione che forse sarebbe passata inosservata se il documentario non fosse stato prodotto da Netflix, e pertanto disponibile al grande pubblico.

Placare le contestazioni

Negli ultimi anni, le piattaforme di streaming che adottano le modalità discorsive del neoliberismo hanno fatto ampio ricorso al tokenismo3, vale a dire la prassi di (sovra)rappresentare le minoranze etniche, di genere e sessuali per poter vantare il merito dell’inclusività, occultando però la violenza strutturale a cui devono far fronte le minoranze. Dopo l’assassinio di George Floyd nel maggio 2020 e la nascita del movimento Black Lives Matter, c’è stata una controrivoluzione per placare un movimento che sta mettendo in discussione il razzismo strutturale della società americana e in tutto il mondo. È in questo contesto che va compreso l’impegno di una piattaforma come Netflix di produrre un documentario come quello di Jada Pinkett Smith.

Detto questo, qui ad essere attaccata non è l’America bianca, ma un altro gruppo dominato: gli arabi, in particolare gli egiziani che hanno denunciato il blackwashing,4 che si sono visti privati per due volte della rappresentazione della loro storia: prima un’attrice americana bianca – Elizabeth Taylor – che ha interpretato Cleopatra nel 1963 nel film di Joseph Mankiewicz, e oggi un’attrice d’origine afroamericana. Sulla polemica, è intervenuto, in un talk show americano, anche l’umorista in esilio Bassem Youssef, rivelando così un malessere, quando ha denunciato un’appropriazione della cultura egiziana finalizzata alla narrazione afroamericana, che vuole sovrarappresentare una minoranza a scapito di un’altra. Cancellare la storicità dei nordafricani non neri riproduce una narrazione di stampo colonialista, messa in atto ad esempio dalla colonizzazione francese nel Maghreb per operare una distinzione etnolinguistica binaria tra berberi autoctoni e arabi invasori, per assegnare così alle sue colonie un’identità mediterranea.

Decolonizzare quindi la segregazione razziale, senza un eccessivo compiacimento per una negrofobia ben consolidata, ma senza per questo lasciarsi sopraffare dai dibattiti americanocentrici, la questione è tutta qui.

1Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia (Bari, Laterza, 2003, p. 87. [NdT].

2Ali Mazrui, The Africans: A Triple Heritage, BBC Publications, Londres, 1986.

3Il tokenismo, (tokenismin inglese) che deriva dalla parola token, definisce il fenomeno attraverso cui gruppi di maggioranza reclutano, all’interno di un determinato contesto, persone appartenenti a gruppi di minoranze (etniche o di genere) per lanciare un messaggio di inclusività, che molto spesso si rivela essere falso. Il tokenism è molto diffuso nelle serie TV e nei film, ma anche in altri contesti. [NdT].

4La consuetudine di scegliere attori neri per interpretare personaggi non neri.