Lo scorso 4 giugno oltre 4.000 persone, tra cui moltissimi giovani, hanno gremito l’hotel Zenith di Caen, in Normandia, per commemorare lo sbarco alleato a 80 anni di distanza. Una quarantina di veterani americani, ormai quasi centenari, hanno affrontato un lungo viaggio per prendere parte all’evento.
È nell’ambito di questa commemorazione che viene conferito ogni anno dal 2019 il Premio Libertà, assegnato da una giuria internazionale composta da migliaia di giovani di età compresa tra i 15 e i 25 anni, che esprimono il proprio voto online, a chi si è distinto per il suo impegno in favore dei diritti umani e della libertà.
Quest’anno, il premio è stato assegnato a Motaz Azaïza, fotoreporter palestinese che ha seguito l’offensiva israeliana su Gaza fino alla sua partenza dalla Striscia il 24 gennaio. Scelto da oltre 15.000 giovani, il reporter ha ricevuto il premio insieme a un assegno di 25.000 euro, che gli permetterà di portare avanti il suo lavoro.
“Non avevo altra scelta che partire”
Per oltre due ore, seduto in prima fila di fronte al palco, il vincitore è rimasto imperturbabile. Durante quello che si è rivelato uno show con giochi di luce in omaggio al coraggio dei veterani americani, il giovane reporter ha lasciato più volte la sala a grandi passi, visibilmente a disagio. La distanza tra passato e presente, tra l’esercito americano di ieri e quello di oggi, tra chi celebra la libertà e chi non l’ha mai conosciuta, ha lasciato allibita una parte del pubblico.
Prima di chiamare sul palco il vincitore, sono state invitate a salire le altre due finaliste del premio, la sorella di Maria Kolesnikova, attivista bielorussa attualmente in carcere, e Noura Ghazi, un avvocata e attivista siriana per i diritti umani. A quel punto il tono è cambiato, e i sorrisi per la vittoria hanno lasciato il posto all’espressione severa della resistenza. “Il mio paese non esiste più”, ha sottolineato Noura Ghazi, vestita con un abito su cui erano ricamati i nomi di centinaia di detenuti/e scomparsi/e in Siria.
Quando è arrivato il turno di Motaz di salire sul palco, il giovane fotoreporter palestinese un po’ ritroso si è fatto avanti con il coraggio del sopravvissuto. Il tono è stato solenne, perché anche lui non ha più un paese in cui poter fare ritorno. Con voce dolce, lenta ma decisa ha detto:
La mia presenza qui significa che ho perso la mia casa, non ho più un posto dove andare né una casa in cui tornare. Vado in giro per mostrare al mondo una realtà disumana, dopo aver documentato la realtà del genocidio per 107 giorni, dopo aver mostrato le decine, centinaia di massacri a cui ho assistito prima di dover evacuare. Non avevo altra scelta che partire, così come non ho mai avuto la possibilità di restare. Noi palestinesi non possiamo scegliere di vivere, né di morire.
“Prima ero un ragazzo normale”
Qual è il motivo per cui i giovani di quella che viene chiamata “Generazione Z” hanno votato per Motaz Azaïza? Forse perché conoscono il lavoro del reporter grazie a Instagram e fanno parte dei suoi oltre 18 milioni di followers? Forse perché aveva già ricevuto il premio Men of the Year dal magazine GQ Middle East1? O perchè una delle sue foto – una ragazzina di 13 anni sotto le macerie di un edificio – è stata selezionata da Time Magazine come una delle 10 foto più emblematiche del 2023? Come molti dei suoi colleghi, vivi o morti (dal 7 ottobre sono 136 i giornalisti uccisi dall’esercito israeliano), il giornalista è stato i nostri occhi e le nostre orecchie a Gaza. I 25 giovani membri della giuria internazionale, che a febbraio hanno selezionato i tre finalisti tra centinaia di nomi, hanno sottolineato che, a loro avviso, i tre vincitori rappresentano tre valori cardine: il diritto all’informazione, la protezione dei giornalisti e il riconoscimento dei prigionieri di guerra.
Motaz Azaïza è nato a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, una città costiera famosa per le sue palme da dattero, gli uliveti... e i luoghi dove praticare surf. Ha studiato all’Università di al-Azhar, fondata nel 1991 e di cui oggi non rimane traccia, come le altre istituzioni accademiche dell’enclave, tutte distrutte dai bombardamenti israeliani. “Prima del 7 ottobre, i miei parenti dicevano che ero un sognatore. Ero un ragazzo normale a cui piaceva scattare foto e sognava un giorno di lavorare per il National Geographic, di girare il mondo per conoscere altre culture. Ma ero anche molto depresso perché non riuscivo a trovare un lavoro”, racconta in un’intervista a Orient XXI.
Appassionato di fotografia naturalistica con un amore incondizionato per Gaza, per le sue antiche rovine e i suoi figli, Motaz ha il dono di catturare tutti gli aspetti più autentici che si possono incontrare nella Striscia. Dai sorrisi dei bambini che giocano a pallone sulla spiaggia alle piccole gesta dei pescatori, dai ragazzi del coro di Natale ai beduini che portano al pascolo le capre, fino ai medici che organizzano banche clandestine del seme per permettere ai prigionieri di procreare... Se un tempo il suo lavoro da freelance non si vendeva facilmente, oggi il suo account Instagram è, invece, pieno di scatti allegri e colorati, difficili da guardare tanto quanto le rovine grigiastre o i cadaveri imbiancati di polvere.
“Le prove ci sono, basta guardarle”
Come si fa a diventare un reporter quando il teatro di guerra è il proprio paese? Come si può fotografare lo sradicamento di un territorio, quando la propria famiglia giace sotto le macerie, da qualche parte? Una situazione di estrema difficoltà in cui si sono trovati molti fotoreporter in Siria, ad Haiti, e che, allo stato attuale, sembra ancora più difficile da spiegare. Questo è ciò che traspare dalle espressioni del reporter palestinese, dal suo sguardo sfuggente, dal suo modo di dubitare o sogghignare, dal suo rifiuto di evocare il trauma in maniera diretta.
Motaz Azaïza ha già perso 15 familiari, decine di amici e colleghi dal 7 ottobre. In queste condizioni è difficile essere un giornalista e, al tempo stesso, testimone e vittima. “Quando lavoro, cerco di dimenticare la mia natura umana”, spiega. “Cerco di relegare in secondo piano le emozioni, altrimenti non potrei lavorare senza crollare”. A forza di perdere compagni, il giovane venticinquenne capisce che il suo giubbotto antiproiettile con la scritta PRESS è più un bersaglio attaccato alla schiena che una protezione. “Ho scelto di condividere la mia posizione in diretta, così se mi avessero ucciso, non avrebbero potuto dire che si era trattato di uno sfortunato incidente”.
Per 107 giorni, prima di tornare in Qatar con la sua famiglia, Motaz Azaïza ha condotto con sé i suoi followers e molti media occidentali tra le rovine fumanti di edifici, alla ricerca dei sopravvissuti. Tutto il mondo ha potuto sentire attraverso il suo smartphone le sirene urlanti delle ambulanze della Mezzaluna Rossa farsi largo tra le strade più pericolose. Tutt* hanno cercato cibo e acqua con lui, incontrando i suoi colleghi. Tutt* erano in ansia quando il reporter non poteva più pubblicare sui social, perché mancava la connessione. Tutt* hanno pianto con lui quando ha ritrovato i corpi dei suoi cari tra le macerie della casa di sua zia. Ripensando a quel periodo, il reporter palestinese ha detto nel corso della conferenza stampa organizzata dopo la cerimonia di premiazione:
Quando ho ricevuto le prime minacce di morte, sono andato a dormire in ospedale. Faceva freddissimo, ma ero così stanco che sono crollato dal sonno. A risvegliarmi sono state le urla e l’odore dei cadaveri: mi sono ritrovato circondato da una sessantina di corpi. Lì dentro ho scattato delle foto.
Di fronte a lui, un drappello di giornalisti chiede: “I bambini non sono le vittime dimenticate del conflitto?”. Motaz Azaïza precisa: “Con tutto il rispetto, avete migliaia di fonti a vostra disposizione che mostrano la violenza che i bambini di Gaza subiscono ogni giorno, le prove ci sono, basta guardarle”. C’è qualcuno che insiste: “Ma come possiamo entrare in possesso di prove materiali, dati o cifre?”, mettendo in discussione, come la maggior parte dei loro colleghi, i dati forniti dal Ministero della Sanità di Gaza dietro il pretesto che siano in realtà delle “cifre di Hamas”2. Alla domanda, il fotoreporter non mostra esitazioni: “Stiamo facendo del nostro meglio per fare il nostro lavoro di informazione. Rischiamo la vita ogni giorno per farlo. Che la Commissione Europea mandi in missione degli ispettori!”. E poi aggiunge: “Non è una guerra quella che sta avvenendo a Gaza”.
“Genocidio”, una parola tabù
Il giovane reporter tende così una mano ai pochi giornalisti ancora presenti in sala, o sarebbe meglio dire un salvagente. È dal primo pomeriggio che si parla di guerra, eserciti, nemici e alleati. Per quanto riguarda la Palestina, tutti lamentano l’altissimo numero di vittime civili. No, non è una guerra, chiarisce Motaz Azaïza. E cos’è allora? chiede una giornalista seduta in prima fila, che conosce molto bene la risposta. “In quanto palestinese, uso il termine genocidio, perché non sono come voi, che lavorate di qui e di là e potete scegliere qualche altra espressione. Quella è casa mia, è la mia gente, per cui uso la parola genocidio”.
Alla sinistra del vincitore c’è Patrick Chauvel che si agita sul suo sgabello. Secondo l’esperto corrispondente di guerra, che ha visto la guerra negli occhi un po’ in tutto il mondo, ma soprattutto a Gaza3, dare il premio a Motaz Azaïza significa stare dalla parte della verità. È orgoglioso – si vede – di annoverarlo tra i suoi colleghi. Però, non può fare a meno di riprenderlo: “No Motaz, devi stare attento quando usi la parola genocidio, è una parola molto violenta che evoca ricordi tragici. È una parola che appartiene alla storia. Tu sei giovane, sei arrabbiato, lo capisco, ma devi stare attento quando usi quel termine”. La conferenza stampa sarebbe dovuta concludersi con uno scenografico “le donne dovrebbero prendere il potere”, ma il giovane reporter di Gaza ha voluto riprendere il microfono per ricordare che il suo lavoro di “verità” gli è costato delle accuse di terrorismo.
Mostrare quello che fanno [gli israeliani] non è antisemitismo, non è terrorismo. Non è una guerra di religione, in gioco c’è una battaglia per la propria esistenza. Voi, in Normandia, avete combattuto, vi siete liberati, c’è stata la pace e oggi siete liberi. Nessuno però viene a salvare la Palestina.
Il giovane reporter parla anche di sua madre per rivendicare la forza interiore di chi ha già le tempie grigie perché ha visto e fatto troppo. Diventato un testimone della grande sventura del suo popolo, Motaz non sa come andare avanti, la testa qui, il cuore là. “È un bel cambiamento”, dice con pudore. Oggi, che sia a Doha, Ginevra, Londra o in Normandia, il reporter utilizza i suoi resoconti per diffondere il lavoro dei suoi colleghi rimasti sul campo, le cui condizioni di vita e di lavoro peggiorano ogni giorno di più.
Da quando ha lasciato Gaza, Motaz Azaïza è stato oggetto di polemiche per i suoi presunti legami con il leader dell’Autorità palestinese, Abu Mazen4. In una dichiarazione rilasciata dall’ambasciata israeliana in Francia all’indomani della cerimonia, il fotoreporter è stato presentato come “un chiaro sostenitore di Hamas”, oltre ad essere accusato di fare apologia di terrorismo. Sulla stessa falsariga, 35 deputati francesi della maggioranza presidenziale, in un’altra dichiarazione, hanno presentato il vincitore come un “simpatizzante di Hamas” e la selezione dei giovani come “una scelta incomprensibile e inappropriata”. Con un sospiro, Motaz Azaïza risponde: “Visto che non possono più spararmi addosso, ora, screditandosi, mi attaccano con le parole per mettermi a tacere”.
Se il giornalista cede per un attimo al peso del presente rifiutandosi di parlare dei suoi progetti, si può scommettere che non smetterà di denunciare, costi quel che costi:
Ho rischiato di morire tante volte, ma sono sopravvissuto. Ho fatto una promessa al mio popolo: vado via, ma farò arrivare il vostro messaggio, dopo più di 40.000 morti5, oltre un milione e mezzo di profughi che vivono con la paura di morire ad ogni istante sotto le bombe o per mancanza di cibo. Noi non siamo dei terroristi. La Seconda guerra mondiale forse non è stata una lezione sufficiente per l’umanità, ma mi piacerebbe credere che un giorno tornerà la pace e la Palestina sarà libera.
1Versione mediorientale della rivista americana di moda e cultura GQ. [Ndr].
2L’Onu stima che il numero reale delle vittime superi le attuali cifre, che non tengono conto del numero dei dispersi, ancora sotto le macerie. Una cosa da notare è che ad ogni guerra contro Gaza, le presunte “cifre di Hamas” vengono messe in discussione. Ogni volta però che il personale delle Nazioni Unite è riuscito ad entrare nel territorio dopo la guerra, il bilancio finale delle vittime si è rivelato ancora più alto. [N.d.R.
3Nel 2009, come oggi, i giornalisti stranieri non potevano entrare nella Striscia di Gaza. Patrick Chauvel aveva espresso la sua indignazione all’esercito israeliano, come si può vedere in un archivio dell’INA. [Ndr].
4Mahmoud Abbas. [NdT].
5Si tratta del numero ufficiale dei morti e dei dispersi. [Ndr].