Diritto internazionale

Amnesty International esamina l’apartheid d’Israele

L’organizzazione in difesa dei diritti umani Amnesty International attacca il crudele sistema di dominazione nei confronti della popolazione palestinese, quella residente in Israele, nei Territori occupati, a Gaza o rifugiata in altri paesi. Questa svolta decisiva di Amnesty, con la richiesta di ricorso della Corte penale internazionale, è un duro colpo per il governo israeliano. Orient XXI ha letto il rapporto in anteprima.

L'immagine mostra un gruppo di persone in una situazione di grande tensione emotiva. Una donna al centro, con un velo, alza le braccia in segno di protesta o di disperazione. Il suo volto esprime forte emozione. Intorno a lei, ci sono altre donne e un bambino, tutte visibilmente colpite dalla situazione. Sullo sfondo, si intravede un escavatore e una presenza militare, suggerendo che si sta svolgendo un'operazione di demolizione o sgombero. Il contesto sembra essere caratterizzato da conflitto e tensioni sociali.
Demolizione di una casa palestinese nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, il 28 dicembre 2021
Hazem Bader/AFP

Il primo scossone c’è stato nel 2020, quando l’organizzazione israeliana per i diritti dell’uomo Yesh Din ha usato il termine “apartheid” per descrivere un sistema che si proclama democratico, ma che fino ad allora era stato impermeabile ad ogni analisi politica obiettiva. La vicinanza ha reso coscienti, e così un’altra Ong israeliana B’Tselem è andata avanti nel gennaio 2021, nella consapevolezza che era ora di dire “no all’apartheid dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”. Nell’aprile 2021, anche Human Rights Watch (HRW) ha seguito l’esempio delle due Ong. Ma l’organizzazione avava parlato di apartheid soltanto per i Territori occupati e Gaza, distinguendo le specifiche discriminazioni sui palestinesi israeliani. Il rapporto pubblicato il 1 febbraio 2022 da Amnesty International – che Orient XXI ha avuto in anteprima – va però ben oltre e usa il termine apartheid per tutti i palestinesi, indipendentemente da quale sia il loro luogo di residenza o il loro status.

Per la prima volta, Amnesty International (AI), una delle più importanti organizzazioni mondiali in difesa dei diritti umani, tra le più caute anche nella scelta delle parole per definire le diverse situazioni, descrive “l’apartheid d’Israele contro la popolazione palestinese come un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità”, in questo rapporto presentato martedì scorso 1 febbraio, che farà molto discutere. Inoltre, è un documento destinato ad entrare nella storia, perché affronta senza distinzioni la situazione degli uomini e delle donne palestinesi “che vivono in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), così come i rifugiati e le rifugiate che vivono in altri paesi”.

Questo rifiuto di dividere i palestinesi in gruppi, di ritenere che i loro interessi avrebbero finito per divergere a seconda del luogo di residenza, rappresenta una notevole rivoluzione nel linguaggio della comunità umanitaria-diplomatica internazionale. Una scelta che si fonda sulle argomentazioni che da anni sostengono tanti palestinesi (e molti altri) sull’unità di un popolo frammentato con la creazione dello Stato di Israele nel 1948.

Ricominciare dal principio

È un documento denso che descrive l’oppressione israeliana e i meccanismi della dominazione palestinese. Vengono analizzate decine di interviste e centinaia di documenti in gran parte risalenti al triennio 2017-2021, frutto di mesi di lavoro in assoluta segretezza: il rapporto di Amnesty porta così a un cambiamento politico di rilievo. Fornisce inoltre una quantità notevole di informazioni sulle realtà vissute dai e dalle palestinesi, che vivono a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, a Haifa... E rievoca molto spesso le origini dello Stato di Israele per comprenderne meglio le radici di una politica che ha avuto una continuità già evidenziata da molti storici di ogni schieramento in questi ultimi anni. Anche in questo caso, Amnesty International ricomincia dal principio.

“Sta succedendo l’esatto contrario di ciò che immaginavano”, mi aveva detto in maniera profetica nella primavera del 2016 Yuli Novak, direttrice esecutiva di Breaking The Silence, un’organizzazione non governativa di veterani dell’esercito israeliano che raccoglie testimonianze sugli abusi commessi dai soldati nei Territori occupati . I rapporti di Breaking The Silence, così come quelli di altre Ong israeliane e palestinesi, hanno d’altra parte alimentato il lavoro dei ricercatori di Amnesty International, ricevendo finalmente l’attenzione che meritavano.

“Sta succedendo l’esatto contrario di ciò che immaginavano”, mi aveva detto in maniera profetica nella primavera del 2016 Yuli Novak, direttrice esecutiva di Breaking The Silence, un’organizzazione non governativa di veterani dell’esercito israeliano che raccoglie testimonianze sugli abusi commessi dai soldati nei Territori occupati1 . I rapporti di Breaking The Silence, così come quelli di altre Ong israeliane e palestinesi, hanno d’altra parte alimentato il lavoro dei ricercatori di Amnesty International, ricevendo finalmente l’attenzione che meritavano.

Un crimine contro l’umanità

Nel suo rapporto di 211 pagine, Amnesty analizza detenzioni amministrative, requisizioni di terreni e immobili, omicidi illegali, deportazioni, limitazione dei movimenti, difficoltà d’accesso all’istruzione. Si avvale di numerosi esempi documentati, in diverse zone del paese, nella Valle del Giordano, a Gaza. Mette insieme molte informazioni, che hanno consentito all’organizzazione di effettuare un inventario dettagliato del sistema messo in atto da Israele. Si tratta di identificare quanti più “fattori costitutivi” di un sistema di apartheid ai sensi del diritto internazionale. Per Amnesty, “questo sistema si basa su violazioni dei diritti umani che, secondo Amnesty International, qualificano l’apartheid come crimine contro l’umanità così come definito dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione sull’apartheid”. Agnès Callamard, nuova segretaria generale dell’organizzazione per i diritti umani dal 2021, chiarisce la questione:

Il nostro rapporto rivela la reale portata del regime dell’apartheid di Israele. Che vivano a Gaza, Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti.

Un sistema in vigore da 1948

Il rapporto precisa ciò che intende Amnesty per “sistema d’apartheid”, e su questo punto specifico vale la pena di citarlo per intero:

Questo sistema di apartheid ha avuto origine con la creazione di Israele nel maggio 1948 ed è stato costruito e mantenuto per decenni dai successivi governi israeliani in tutti i territori che hanno controllato, indipendentemente dal partito politico al potere in quel momento. Israele ha sottoposto diversi gruppi di palestinesi a diversi insiemi di leggi, politiche e pratiche discriminatorie ed escludenti in momenti diversi, in base alle conquiste territoriali ottenute prima nel 1948 e poi nel 1967, quando ha annesso Gerusalemme est e occupato il resto della Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel corso dei decenni, le considerazioni demografiche e geopolitiche israeliane hanno plasmato le politiche nei confronti dei palestinesi in ciascuno di questi domini territoriali.

Bien que le système d’apartheid d’Israël se manifeste de différentes manières dans les diverses zones sous son contrôle effectif, il a toujours le même objectif d’opprimer et de dominer les Palestiniens au profit des Israéliens juifs, qui sont privilégiés par le droit civil israélien quel que soit leur lieu de résidence. Il est conçu pour maintenir une majorité juive écrasante ayant accès et bénéficiant du maximum de territoires et de terres acquis ou contrôlés, tout en limitant le droit des Palestiniens à contester la dépossession de leurs terres et de leurs biens. Ce système a été appliqué partout où Israël a exercé un contrôle effectif sur des territoires et des terres ou sur l’exercice des droits des Palestiniens. Il se concrétise en droit, en politique et en pratique, et se reflète dans le discours de l’État depuis sa création et jusqu’à ce jour.

Discriminazione razziale e cittadinanza di seconda classe

Il rapporto ritorna ovviamente su tutte le forme di discriminazione di un sistema a geometria variabile che alla fine non è altro che un compromesso.

Le guerre del 1947-1949 e del 1967, il controllo militare di Israele sui Territori palestinesi occupati e la creazione di regimi giudiziari e amministrativi distinti hanno separato le comunità palestinesi e le hanno segregate dagli ebrei israeliani. I palestinesi sono stati frammentati geograficamente e politicamente e vivono diversi livelli di discriminazione a secondo del loro statuto e di dove vivono.

[…]

I cittadini palestinesi in Israele godono di maggiori diritti e libertà rispetto a chi risiede nei TPO, mentre l’esperienza dei palestinesi di Gaza è molto diversa rispetto a quella di coloro che vivono in Cisgiordania. Nondimeno, le ricerche di Amnesty International hanno concluso che tutti i palestinesi sono sottoposti allo stesso sistema sovrastante. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele in tutte le aree persegue lo stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e minimizzare la presenza dei palestinesi e il loro accesso alle terre.

Un unico sistema, basato secondo Amnesty sulla discriminazione razziale e sullo status di cittadini di seconda classe. Un declassamento accompagnato ovviamente da espropriazioni, e il rapporto torna “sull’attuazione su larga scala di crudeli sequestri di terra contro la popolazione palestinese” e sulla demolizione “dal 1948” di centinaia di migliaia di case e di altre strutture palestinesi in tutti i territori. Cita anche famiglie dei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est vessate dai coloni che prendono possesso delle loro case “con il pieno sostegno del governo israeliano”.

Amnesty invita tutti i paesi che mantengono buone relazioni con Israele “compresi alcuni stati arabi e africani” a non sostenere più un sistema di apartheid. Per uscire da questo “sistema”, ora documentato da Amnesty, “la risposta internazionale all’apartheid non deve più limitarsi a blande condanne e formule ambigue. Se noi non ne affronteremo le cause, palestinesi e israeliani rimarranno intrappolati in un ciclo di violenza che ha già distrutto moltissime vite”, conclude Agnès Callamard.

«L a mia identificazione con questa storia è finita» 

Yuli Novak è arrivata, a partire da un’altra storia e con altri mezzi, alla stessa conclusione di Agnès Callamard. Oggi quarantenne, ha lasciato il suo incarico nell’organizzazione Breaking The Silence nel 2017 per un viaggio dalle molteplici tappe, dall’Islanda al Sud Africa. Lì ha incontrato persone che avevano combattuto contro l’apartheid, cercando di comprendere le “paure” degli uni e degli altri. Ma soprattutto si è resa conto dell’apartheid del suo paese. “La sua struttura politica era destinata fin dall’inizio a preservare una maggioranza ebraica e, in questo senso, era antidemocratica. La mia identificazione con questa storia è finita”, continua Yuli Novak in un lungo ritratto pubblicato il 28 gennaio 2022 dal quotidiano liberale Haaretz.

In un libro appena pubblicato, Yuli Novak descrive molti anni di inferno, di vessazioni quotidiane, la delusione di scoprire che un dipendente di Breaking The Silence era un agente dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani. All’inizio ha pensato che “questo tipo un po’ strano, un po’ solitario, triste” sapesse tutto di lei, dei suoi piccoli “pettegolezzi”, prima di rendersi conto che la democrazia stava crollando davanti ai suoi occhi. È così che ha capito che il contratto con il suo paese era in qualche modo “soggetto ad una condizione: l’obbedienza. Non appena qualcosa è andato storto, il sistema mi si è rivoltato contro. Mi è stato detto: “Se sei contro l’occupazione e pensi che sia giusto manifestare per la situazione a Gaza, allora non fai più parte della nostra organizzazione”.

Precisa che parlare di apartheid a proposito di Israele sia solo un dato di fatto. Ma se è psicologicamente e politicamente doloroso da sopportare per molti israeliani, lo è ancora di più e da moltissimo tempo per milioni di palestinesi. Per gli uni come per gli altri, i sostenitori internazionali, se faranno la loro ricomparsa in modo coerente, saranno ben accetti.

1La Chronique d’Amnesty International, numero 354, maggio 2016.